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IL "LATTE" VERSATO


di La_Lilla
28.04.2023    |    2.525    |    1 9.8
"“No, aspetta”, ha detto lui a quel punto..."
Non molto tempo fa mi sono invaghita di un manager piuttosto famoso che volevo assolutamente incontrare. Lo seguivo dappertutto, quando potevo. C’è da dire che era sposato, quindi le occasioni di avvicinarlo erano davvero poche. Però una volta ci riuscii. Sapevo che usciva dai suoi uffici a una certa ora, e così, tutta truccata e vestita in modo minimale – tacco alto, gonna cortissima, top – l’ho atteso in strada. Non appena l’ho visto (era assieme a un amico o forse collaboratore) mi sono avvicinata e gli ho confidato tutta l’ammirazione che avevo per lui. Ricordo che sorrise e mi ringraziò. Poi ho tirato fuori un foglietto e una penna. Lui ha autografato il foglietto e, dandomi due baci finti (di fatto solo appoggiando la sua guancia alla mia), mi ha sussurrato all’orecchio le seguenti parole: “Se ti va mi trovi all’Hotel G***, suite 3”. Lì per lì mi sono crollate le gambe. Non potevo crederci: mi invitava nella sua suite. Non ho detto niente, anche perché non né ho avuto il tempo, visto che lui si è allontanato velocemente accompagnato dall’altro tipo.
La sera stessa, senza perdere tempo, mi sono recata all’Hotel G*** (4 stelle superior). Entro nella hole, dove vengo accorta da una signorina con un tailleur nero.
“Mi dica”, mi ha detto. “Ha bisogno di una stanza?”.
“Veramente”, ho balbettato io, “vengo a fare visita a una persona”.
“Ah, okay. Chi nello specifico?”.
Ho fatto il nome.
“Provvedo subito a contattarlo. Attenda solo un attimo”, mentre alzava il telefono per chiamare le camere.
L’ho vista parlottare un minuto.
“Lei è?”.
“Mi chiamo Priscilla. Il dott. A***R*** mi ha chiesto di raggiungerlo oggi pomeriggio”.
Ha ripreso a parlare al telefono ancora un po’.
“Bene. Può salire. Suite 3. Quinto piano”.
“La ringrazio”, ho detto. E mi sono diretta verso l’ascensore.


Una volta arrivata al piano, ho visto una porta socchiusa. Ho bussato e sono entrata.
“Benvenuta”, ho sentito, senza neanche rendermi conto da dove provenisse la voce. “Sono qui. Sul divano”, ha continuato, accortosi che non avevo capito dove si trovasse.
Non mi soffermerò a descrivere la suite. Sfarzosa ed enorme. Un po’ come tutte le suite che abbiamo visto nei film americani o grazie a qualche folle esperienza personale come questa.
A***R*** si è alzato e mi è venuto incontro.
“Gradisci qualcosa da bere? Scotch, vino, vodka… Cosa preferisci”.
“No, non bevo, grazie”.
“Hummm”, ha fatto lui. “Una brava ragazza, insomma”.
“Non direi”, ho ribattuto io, “non completamente”, sorridendo.
“Bene, mi piace. In ogni modo se vuoi prendere qualcosa di analcolico il frigo è pieno”.
Ho aperto il frigo e mi sono presa una cocacola. L’ho stappata e buttato giù un sorso.
Lui sembrava freddo, distante. Non capivo.
“Senti”, mi ha detto in quel momento. “Io sono piuttosto stanco. Vado a letto. Se ti va di farmi compagnia… Sei la benvenuta. Sennò fai come ti pare. Questo divano si trasforma in letto. Decidi tu”.
A***R*** era un uomo ormai oltre la cinquantina da un pezzo. Uomo grosso, robusto, con una bella pancetta. Alto, vicino al metro e novanta. Una specie di marcantonio, insomma. Io ero follemente attratta da lui.
Le sue parole, però, mi hanno spiazzato, e non sapevo cosa decidere. Perché chiamarmi lì, ho pensato, per farmi dormire sul divano? Che senso aveva?
“Ti faccio compagnia, certo. Sono venuta per questo”, gli ho risposto, senza pensarci su due volte.
“Bene. Vado a farmi una doccia, intanto. Tu sei vuoi puoi accomodarti”.
Sono entrata nella camera: un grande letto, direi enorme, si trovava giusto al centro della stanza. Le luci erano soffuse e nell’aria c’era odore di incenso.
Non ero preparata a questa eventualità. D’accordo, avevo la lingerie, ma avrei dovuto dormire solo con quella. E la parrucca? E il trucco? Decisi di infilami a letto così, senza pensarci su troppo.
Dopo una decina di minuti è arrivato lui, in accappatoio. Se lo è tolto e si è infilato un paio di slip, dandomi la schiena. Subito dopo si è voltato e mi ha guardata.
“Potevi tranquillamente metterti in relax, sai, non c’era problema”.
“No, tranquillo”, ho mentito, “sono abituata a dormire così”.
“Come vuoi. Domani mattina mi devo svegliare alle otto. Assolutamente. Ora ho bisogno di dormire”, ha rimarcato. Segno che non aveva alcuna intenzione di scopare.
Ho accettato la situazione. In un certo senso ho anche apprezzato le sue premure nei miei confronti. Anche se in quel momento non le capivo proprio.
Fatto sta che ci siamo addormentati su quel lettone enorme.

Il mattino seguente io mi sono svegliata, stranamente, intono alle sette. Mi sono alzata, e alla chetichella sono andata in bagno. Ho fatto pipì, mi sono lavata le parti intime e mi sono sistemata allo specchio. Poi sono tornata a letto.
Quell’uomo grande e grosso e tanto attraente era sdraiato accanto a me e non stava succedendo niente. Incredibile. Così, colta da una specie di raptus dettato dalla libido, ho deciso di prendere l’iniziativa.
Ho scoperto completamente A***R***. Dormiva a pancia in su, della grossa. Sul petto aveva un folto pelo quasi crespo; identico anche sulle gambe. Con molta probabilità tutta quella peluria ricopriva anche il suo pube. Ero decisa a scoprirlo.
Lentamente ho infilato una mano dentro i suoi slip, scoprendo che il suo cazzo stava iniziando a farsi duro. Come avevo previsto, era molto peloso anche lì.
Ho cominciato a massaggiargli le palle, sperando che la cosa lo svegliasse. Infatti da lì a poco vedo che apre gli occhi.
“Buongiorno”, mi ha detto. “Che ore sono?”.
“Le sette e un quarto, circa”, gli ho risposto continuando con il massaggio, cui lui non sembrava fare molto caso.
“Ci facciamo portare la colazione in camera?”, mi ha domandato.
“No”, gli ho risposto secca. “Io voglio fare colazione con la tua sborra”, abbassandogli con uno strattone gli slip.
Il cazzo, ricoperto di peluria invitante, ormai era duro al punto giusto, così l’ho preso in bocca, avidamente.
“Tu”, mi ha detto mentre glielo leccavo, “sei la tipa giusta per due persone che conosco”.
Mi sono tirata su e l’ho guardato.
“E non per te?”, gli ho chiesto delusa.
“Sì, certo, anche per me. Ma penso che fai più al caso loro”.
“In che senso”, gli ho detto, continuando a menargli il cazzo.
“Nel senso che secondo me hai fantasie comuni alle loro”.
“Pensi davvero questo?”, mollando il suo uccello.
“Non te la prendere. Io sono soltanto un tradizionalista”.
“Ma allora perché mi hai invitata qui? Per prendermi in giro?”, gli ho detto furibonda, alzandomi.
“No, aspetta”, ha detto lui a quel punto. “Non intendevo questo. Tu mi piaci, davvero, mi ecciti. Del resto basta guadare”, indicando il suo cazzo duro.
“Be’”, ho aggiunto io, “sai cosa ti dico: chiamo la reception e ci facciamo portare le colazioni. Che è meglio. Aspettando che mi presenti questi tuoi amici”.
“Non fare così. Non ti sarai mica offesa. Okay”, ha riattaccato dopo un attimo di pausa, “forse ho detto una cosa sbagliata e fuori luogo. Intendevo solo dire che io non ho le loro stesse fantasie. E siccome sono amici, pensavo che sia a loro che a te sarebbe piaciuto realizzarle”.
Purtroppo, come ho detto, ero attratta da lui, e quando sono attratta da uno non riesco a resistergli a lungo. Sono ritornata sul letto, l’ho guardato un secondo, e poi mi sono rimessa tutto il suo cazzo in bocca. L’ho ciucciato e leccato come una grandissima troia me venti minuti, finché non mi è venuto in faccia.
“Non avevi detto che volevi fare colazione con la mia sborra?”, mi ha fatto alzandosi.
“Non più. Chiamiamo e ci facciamo portare la colazione in camera, che è meglio”.
Dopo esserci lavati, abbiamo chiamato la reception e ci siamo fatti portare la colazione. Ottima, buonissima. A dire il vero anche la sua sborra lo era, per quello che avevo potuto assaporare. Però mi sentivo umiliata.
Praticamente non abbiamo fatto parola, durante la colazione.
“Okay”, gli ho detto alzandomi. “Però se volevi trattarmi come oggetto per i tuoi amici, bastava dirmelo. Credimi, avrei accettato, e di buon cuore, perché mi piace essere sottomessa da maiali sconosciuti. Ma così no. Perché mi hai illusa. E io ho una dignità, per quanto possa sembrati strano. Quindi, adieu, caro mio”, andando verso la porta.
“Mi dispiace”, ha detto lui, senza alzarsi, “non doveva andare così, in realtà”.
Giuro, ho chiuso la porta e, mentre richiamavo l’ascensore, ho pianto. Penso sia stata una delle poche volte, in situazione del genere, forse l’unica.
Ma era andata così. C’era poco da piangere sul "latte" versato.

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