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DESSERT SALATO


di La_Lilla
17.10.2022    |    7.033    |    20 9.6
"Grazie”, dico, mentre guardo il tipo che, intanto, è tornato a sedersi con i suoi amici..."
Dopo un lungo periodo di corteggiamento decido di dare una chance ad Aldo, un uomo distinto, certo non di primo pelo, visto che aveva più di settant’anni, che avevo conosciuto in un social per incontri.
Ci diamo appuntamento in un ristorante del centro, un venerdì sera.
Appena lo vedo, con la sua giacca blu scuro e i jeans, gli vado incontro. Ci stringiamo la mano, senza bacetti e subito entriamo nel locale.
Il cameriere ci mostra il nostro tavolo e ci sediamo.
Aldo è un uomo sicuramente di altri tempi, gentile, sorridente, scherzoso; mi racconta un po’ di sé mentre arriva il cameriere e ci chiede cosa vogliamo da bere.
Lo ascolto con molta attenzione e faccio dei commenti sulle sue esperienze passate. Quando invece devo parlare di me, taglio corto, e gli dico che non esco spesso en femme, tanto meno al ristorante. Questo lo galvanizza molto, perché lo fa sentire, a suo modo, speciale.
Ordiniamo e nel giro di una decina di minuti arrivano le pietanze. Tutto ottimo, squisito. Del resto il posto ha il suo perché.
Dopo una ventina di minuti di conversazione e di piatti spazzolati, vedo che entrano tre tipi, tutti e tre sulla quarantina, più o meno. Si siedono su un tavolo alla mia destra, qualche metro più in là. Appena si accomodano, mi accorgo subito che, uno dei tre, un tipo tarchiato con i capelli brizzolati, guarda dalla mia parte, interessato. Io, così, sulle prime, faccio finta di niente e continuo a parlare e mangiare ma dopo un po’, quando vedo che insiste a fissarmi, e siccome era uno di quei tipi che a me piacciono, decido di fare la “stronza”, di giocare con lui, per provocarlo. Così allargo leggermente le gambe, giusto per vedere qual è la sua reazione. Non so se dalla sua posizione riesce a vedere in mezzo alle mie gambe, ma credo di sì, e dalla faccia che fa direi che ho fatto centro.
Aldo intanto, quasi a fine cena, mi chiede se mi va di prendere il dessert. Io gli rispondo di sì, pur non essendo golosa, e lui richiama il cameriere. Mentre lo fa, gli dico che devo andare in bagno (mi scappava da morire dopo tutta quella cocacola). Lui annuisce. Vado.
Mi alzo e, senza guardare il tipo seduto al tavolo, mi dirigo verso i bagni.
Apro la porta. È uno di quei bagni dove il lavello è in comune sia per maschi e femmine, mentre i WC sono separati.
Entro, come di mia abitudine, in quello delle donne, quando sono en femme, perché tale mi sento. Faccio pipì ed esco. Appena apro la porta e mi trovo praticamente davanti il tipo del tavolo.
“Ciao”, mi fa. “Scusa se ti faccio una domanda brutale: ma sei qui con quel vecchio?”.
Io lo scanso dandogli un colpo con l’anca e vado verso il lavello.
“E a te che ti importa”, gli rispondo.
“Nulla, ci mancherebbe. Ma cosa credi, che gli tiri a quello?”.
Finisco di lavarmi le mani e le metto sotto l’asciugatore elettrico.
“Quelle sono cose a cui penso io”.
Lui ride.
“Be’”, aggiunge, “comunque belle mutandine rosse”.
Mi volto di scatto.
“Perché, le hai viste?”, gli dico facendo la gnorri.
“Logico. Con quella minigonna vertiginosa e le gambe aperte, come fai a non notarle”.
“Potevi guardare da un’altra parte”, gli dico.
“Mica sono scemo”, fa lui. “E poi, se proprio vuoi saperlo, mi hanno fatto un certo effetto”.
“Ah sì”, sibilo io. “E quale’”.
“Questo”, mi dice sbottonandosi la patta e tirando fuori il cazzo turgido.
“Oh cielo!”, faccio io. “Che fai! Potrebbe entrare qualcuno. Mettilo dentro!”.
“Adesso”, mi fa lui strattonandomi verso la porta del WC, “so io dove metterlo”.
Ci chiudiamo dentro e mi spinge sulla tazza. Poi mi viene sopra e mi sbatte il cazzo in bocca.
“Ecco”, fa. “Qui dentro deve stare. Tutto”. E inizia a scoparmi la bocca con veemenza.
Mentre lo fa sento la voce di Aldo.
“Priscilla sei qui. Stai bene?”, domanda.
Il tipo leva l’uccello dalla mia bocca.
“Sì, Aldo, tranquillo. Solo un po’ di mal di pancia. Forse la cocacola ghiacciata. Dammi ancora un attimo. Torno subito”.
“Se vuoi ti aspetto qui”, fa lui.
“No, no”, insisto io. “Un attimo e sono da te. Aspettami al tavolo”.
“Okay”, fa lui. E poi non sentiamo più nulla.
Il tipo mi infila di nuovo il cazzo in bocca e me la scopa a dovere per altri cinque minuti, in silenzio, mentre sentiamo qualcuno che entra in bagno, prova ad aprire la porta, e se ne va. Poi sento due donne, che parlano (ho il suo cazzo fino in gola e cerco di trattenere i conati); una dice all’altra: “Sai che Massimo l’altro ieri mi ha regalato un mazzo di rose gialle?”. “Gialle?”, fa l’altra, “come sarebbe a dire gialle. Che significato hanno?”. “Sai che non lo so”, continua la prima, “ma lui è un tipo un po’ particolare, eccentrico”. Poi l’altra ancora: “ma è quello con cui sei uscita l’altra sera e te lo sei scopato al primo appuntamento?”. “No, no”, fa lei, “quello è un altro”. Poi ridono, e sento che se ne vanno.
Intanto il tipo, accelera la situazione segandosi velocemente, perché sta per venire. Ha la cappella paonazza, quasi viola, grossa e lucidissima; mentre si sega si scappella fino in fondo sbattendomi quel cappellone sulla lingua. A un certo punto se ne viene con una schizzata densa e intensa che mi arriva fino in gola.
Poi rimette il cazzo dentro la patta e mi dice: “Per questa sera te l’hanno scopata la bocca cara. Perché quell’altro mica ci riesce a farselo tirare. Sicuro”.
Poi apre la porta appena appena, giusto una fessura, per assicurarsi che non ci sia nessuno. Appena capisce che la via è libera, esce.
Subito dopo esco anche io, mi do una sistemata davanti allo specchio, e torno da Aldo.
“Ah sei qua”, dice lui. “Sicura che sia tutto a posto?”.
“Sì, sì. Sto bene. Grazie”, dico, mentre guardo il tipo che, intanto, è tornato a sedersi con i suoi amici. Non guarda più dalla mia parte, manco se mi metto nuda, ne sono certa, perché il suo obiettivo era svuotarsi, e aveva bisogno di una troia che lo svuotasse, e l’ha trovata.
“Ti vedo strana”, mi dice Aldo. “Vuoi che andiamo via? Ci facciamo una passeggiata qui intorno?”.
“No”, gli dico. “Forse è meglio che io torni a casa, sai”, gli rispondo. “Non sto male, come ti ho detto, ma neanche benissimo. In ogni modo, sei un uomo speciale, ma non credo che tu faccia per me”.
“Oh”, fa lui. “D’accordo. Nessun problema. È per questo che ci si incontra, in fondo. Per capire”.
“Sì, infatti”, ribatto io.
Poi usciamo e ci salutiamo come due amici. Io mi incammino verso la mia macchina. Dentro di me sono delusa, ma non triste, e un tantino eccitata. Quando sono in questa situazione psicologica, di solito, faccio qualche follia, tipo provocare il primo che passa per farmi scopare. Ma non sempre è facile raggiungere l’obiettivo. Molti temono che sia una trappola, altri sono talmente increduli che stia per capitare proprio a loro che tirano dritti per la paura.
Mi siedo su una panchina e tiro fuori lo smartphone. Non so cosa voglio fare; magari contattare uno last minute per una scopata mordi e fuggi. A mezzanotte di venerdì tutto è possibile. Ma, sembrerà difficile da credere, non ho scopamici, io. Non ce li ho perché, a dire il vero, non ho nemmeno amici. Amici veri, intendo. Così metto via lo smartphone e mi rimetto in cammino verso casa ripensando a quel porco che mi aveva scopato la bocca in bagno. Avrei voluto rivederlo, ma ormai era troppo tardi per tornare indietro, inoltre non ne avrebbe più voluto sapere di me, non fin tanto che il testosterone nel sangue non fosse tornato a livelli ottimali, e questo voleva dire aspettare almeno un paio di ore.
Quando sono davanti al portone di casa sento uno che mi fa:
“Signorina. Aspetti un attimo”.
Mi volto di scatto, per cercare di capire di chi si tratta. È un netturbino, che avanza a lunghe falcate verso di me.
“Mi dica”, faccio, quando è a qualche metro.
“È sua per caso quella macchina?”, indicando proprio la mia macchina parcheggiata là di fronte.
“Sì”, perché, “gli chiedo”.
“Eh”, continua lui, “perché”, con strana smorfia, “ho inavvertitamente urato lo specchietto facendo manovra e credo si sia rotto”.
Incredula, vado a controllare. Effettivamente la plastica dello specchietto laterale destro si è rotta e lo specchio è andato in frantumi.
“Ma cazzo”, dico alterandomi, “si può sapere come ha fatto?”.
“Le ho detto, facendo manovra”.
“Ma porcapu…”, mi interrompo. “E adesso?”.
“Eh, adesso… Meglio fare la constatazione amichevole. Così l’assicurazione le risarcirà il danno”.
“Sì, meglio”, dico io cercando le chiavi nella borsa.
“Lasci stare, ce l’ho qui con me”, sventolando i fogli della constatazione amichevole.
“Oh, bene”, gli dico. “Ma dove ci mettiamo a scriverla? Qui è buio pesto”.
“Se vuole accendo i fanali del camioncino, per fare luce qui. Aspetti, però, che lo sposto”.
“No, no”, lo fermo subito. “Per carità. Che non faccia altri danni. Facciamo così”, gli dico pensandoci su, “venga di sopra, dai, lo compiliamo assieme, anche perché qui c’è un aria e mi sa che tra un po’ viene a piovere” (in effetti stava salendo un vento freddo mica male).
Il netturbino acconsente. Saliamo le scale e entriamo in casa mia.
Accendo la luce e gli dico che se vuole può sedersi e iniziare a compilare il modulo.
“È una cosa che va fatta insieme”, dice lui, “anche il disegno”.
“Inizi lei intanto”, gli rispondo secca, “poi io controllo”.
Lui, sentendosi zittito, si mette subito all’opera. Io intanto mi libero delle scarpe coi tacchi e mi metto un paio di ciabatte.
Quando torno da lui, vedo che mi guarda.
“Embe’”, gli dico, “fatto?”.
“Sì, è a posto”, fa lui, e poi aggiunge: “Posso dirle una cosa?”.
“Che altro c’è adesso”, faccio io, acida.
“Lei è molto attraente anche con le ciabatte. Complimenti”.
Scoppio a ridere.
“Sta scherzando, spero”.
“No, no. Veramente. Molto femminile”.
“Lei deve aver fumato qualcosa di strano, stasera”, gli dico. “Prima mi devasta lo specchietto, adesso mi dice che sono sexy in ciabatte. Andiamo”.
Poi mi siedo e compilo la mia parte. Firmo e prendo la copia. Subito dopo mi chiede se può andare in bagno.
Va in bagno senza chiudersi dentro. Io lo seguo. Sarà una cosa da feticisti, lo so, ma mi piace sentire le lunghe pisciate degli uomini. Il suono che fanno quando colpiscono il livello d’acqua sul fondo.
La sua pisciata sonora sembra non finire più. Sbircio dentro dalla fessura le lo vedo piegato in avanti, come quando uno piscia a cazzo duro e non riesce a tenerlo giù.
Quando ha finito lo vedo avvicinarsi al lavello e frugare dentro il cesto della mia biancheria. Vedo che tira fuori un perizoma, lo annusa e poi lo arrotola attorno al cazzo e inizia a segarsi velocemente. Vedo tutto bene dallo specchio, che riflette la scena. Se lui alzasse gli occhi un attimo, mi vedrebbe. Ma non lo fa. A un certo punto lo vedo sborrare sulle mie mutandine, pulirsi il cazzo con quelle e ributtarle nel cestino della biancheria.
Poi si lava le mani e io intanto torno nell’altra stanza.
“Scusi l’attesa”, fa lui, “ma era da stamattina che avevo voglia”.
Io rido.
“Di sborrare?”, gli chiedo.
Lo vedo sbarrare gli occhi.
“Nnnn…no”, fa.
“Potevi almeno dirlo che volevi sborrare sulle mie mutandine. A saperlo levavo quelle che avevo su”, gli dico.
“Che troia”, dice. E la cosa sembra fargli riprendere vigore.
“Ascolta”, fa, “tra un’ora finisco il giro e torno qua. Poi vedi che constatazione amichevole ti faccio”.
“D’accordo”, gli dico, “ti aspetto”.
“Vacca”, dice lui e prende la porta e se ne torna al suo lavoro.

Lo attendo fino alle due del mattino. Poi mi addormento sul divano vestita.
Mai fidarsi della parola di un segaiolo sborra-mutandine.
Mai.
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