La Fame Bianca (Parte Seconda)

Episodio III: La terrazza sul fiume

Era una sera d’estate, il tramonto si scioglieva sul Naviglio come miele liquido. L’aria sapeva di gin, gelsomino e promesse. Avevo ricevuto l’invito da Lorenzo, un artista che avevo conosciuto in una galleria di Porta Venezia. Diceva che stava preparando una performance privata e voleva che io fossi “il centro pulsante”.

Salgo le scale lente di un vecchio palazzo industriale, i tacchi che risuonano sul ferro battuto. La terrazza è nascosta, discreta, circondata da pannelli di tela bianca come in un atelier a cielo aperto. E ci sono loro. Sei uomini. Tutti diversi, tutti scelti con cura. Mi osservano in silenzio mentre mi spoglio lentamente.

Resto in piedi, completamente nuda, la pelle che brilla d’oro sotto l’ultima luce del sole. Loro si avvicinano, uno alla volta, ognuno portando con sé un’intenzione diversa.

Mi inginocchio. Non per sottomissione, ma per desiderio. Per adorazione. Le loro mani sfiorano i miei capelli, le dita tremano mentre mi toccano le labbra. Uno geme appena apro la bocca e lo accolgo, dolcemente.

Il secondo si ferma un attimo, mi guarda con uno sguardo pieno di rispetto, poi si libera addosso a me, sul viso, lentamente, come se dipingesse qualcosa. Il terzo mi bacia sulla spalla mentre mi lascia la sua scia sul seno.

Tutti vengono su di me, in silenzio, in adorazione. L’ultimo si inginocchia con me, e prima di lasciarsi andare mi sussurra,
“È come offrirti la mia verità.”

E io lo guardo negli occhi mentre sento il suo seme esplodere sulla mia lingua.

Mi sdraio, coperta da tutti loro, come un altare vivente. L’odore è denso, erotico, vero. Il mio corpo è diventato il luogo dove il piacere prende forma.

Episodio IV: La sala specchiata

Un mese dopo, ricevo un biglietto scritto a mano:
“Katia, ci hai fatto scoprire un’altra forma di comunione. Vieni. Non dire niente. Solo entra.”

L’indirizzo è quello di uno studio fotografico in disuso, trasformato in uno spazio segreto per giochi raffinati.

Appena entro, capisco. La stanza è rivestita di specchi. Pavimento, soffitto, pareti. Ovunque io guardi, vedo me stessa: moltiplicata, riflessa, desiderabile.

Ci sono otto uomini. Nessuno parla. Solo gli occhi parlano.

Vengo fatta stendere su un tappeto nero, morbidissimo. Le luci sono calde, dorate, rendono la mia pelle velluto. Loro si dispongono intorno a me. In cerchio. Una processione laica del desiderio.

Mi toccano piano, con lentezza, con cura. Io li tocco tutti. Li sento crescere sotto le mie mani, alcuni duri e impazienti, altri ancora timidi. Uno alla volta, si mettono sopra di me, o davanti a me, o dietro di me. E uno alla volta, si offrono.

Li bevo. Li accolgo. Li sento. Ogni goccia sulla mia lingua è una vertigine, ogni schizzo caldo sul ventre è una carezza che mi brucia dentro.

Il settimo mi prende il viso tra le mani, mi guarda come se fossi sacra, e mi lascia tutto dentro la bocca, tremando. L’ottavo arriva lentamente, come se aspettasse l’istante perfetto. E quando si lascia andare, lo fa su tutto il mio petto, lentamente, lasciando colare il suo seme fino all’ombelico.

Resto lì, stesa, il corpo bagnato e il cuore che pulsa lento. Guardo me stessa riflessa mille volte, nuda, decorata del loro desiderio.

Sorrido. Sono dove voglio essere. Sono chi voglio essere.

Katia.
Il mio nome. La mia fame. La mia verità.