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Il tormento di un padre (Il berretto di mio figlio) -2


di LuogoCaldo
30.03.2022    |    21.177    |    16 9.4
"Era la prima volta che un uomo mi lavorava l’uccello e mi sentii incredibilmente appagato, come se, alla fine, la parte più sensibile di me avesse trovato..."
Chiamai a casa per avvertire che non sarei rientrato.
La voce di Annibale rispose dopo pochi squilli. “Pronto”.
“Ehi sono papà, tutto bene? Ti ho chiamato anche sul cellulare prima”.
“Si pà, stavo studiando. L’ho silenziato … Che è?”
“Niente … Niente! Volevo solo dirti che stasera faccio tardi, non mi aspettare per cena. Ne ho ancora per molto in ufficio”. Mentii. “In frigo c’è tutto comunque … o se vuoi ti puoi ordinare una pizza”.
Il ragazzo non sembrò manifestare troppo interesse.
“Ah ok … vabbè mò vedo, mangio e vado a letto … domani a scuola c’è la verifica …”.
“Ah giusto … studia allora che …”
“Che palleeeee … Lo so, lo so ciao”.
E mi attaccò il telefono in faccia.

Trascorsi la serata nel bar sotto casa.
Tracannai una birra dietro l’altra e rientrai che era notte fonda.
Annibale dormiva da un pezzo e l’appartamento era avvolto in un involucro di tenebra.
Mi trascinai esausto sul divano e provai a chiudere le palpebre mentre la stanza iniziava a ruotare intorno a me.
“Ho bevuto troppo, cazzo!” Mi dissi.
Rivolsi lo sguardo nella direzione del corridoio e improvvisamente la scena alla quale avevo assistito quel pomeriggio mi si ripresentò dinanzi agli occhi.
Mio figlio era a pecora sul suo letto.
La sua rosetta incastonata tra le natiche tornite pulsava come una pianta carnivora e il bastone di Alessandro vi scompariva dentro, teso come una trave d’acciaio.
Ero succube dei fumi dell’alcol e questa volta, a differenza di quanto era accaduto poche ore prima, non provavo alcun senso di imbarazzo.
Mi sentivo anzi inaspettatamente curioso e provavo quasi invidia per la generosità con cui il mio bambino, che da anni sfuggiva i miei abbracci, si concedeva a quell’estraneo.
Prima che riuscissi ad accorgermi di ciò che stava accadendo, realizzai che il cazzo mi s’era intostato nelle mutande.
Ebbi paura della mia reazione e cercai di allontanare quel pensiero immondo.
Avviai il lettore DVD e provai a concentrarmi sulla performance di due tettone cavalcate da uno stallone di colore.
Tuttavia, quel diversivo non sortì il risultato sperato.
Le parole di Annibale mi rimbombavano nelle orecchie. “Ti prego, non uscire … ingravidami … ingravidami come hai fatto con tua moglie… Mmmm … mmmm …”
Mi abbassai i pantaloni e lasciai che la mazza svettasse imperiosa.
Non ero mai stato così eccitato e, allo stesso tempo, così spaventato.
Brandivo nella mano quei venti centimetri di ferro e, in preda al tormento, continuavo a fissare il corridoio, sbavando come una belva affamata.
Quel culo, il culo di mio figlio, era a pochi metri dal mio uccello.
Avrei potuto prendermelo quella notte stessa.
Ormai sapevo che Annibale non si sarebbe sottratto.
“Ti faresti scopare da tuo padre? Eh? …!” Gli aveva chiesto Alessandro.
“Si …”. Aveva risposto lui. “Si … mi farei scopare … mi farei scopare”.
Ma era davvero così?
Il mio bambino mi avrebbe veramente lasciato affondare la minchia dentro alle sue viscere, come aveva detto? O invece non avrebbe mai acconsentito e, semplicemente, quel pomeriggio aveva mentito per compiacere il suo amante?
Ma soprattutto, e al di là delle intenzioni di mio figlio, io, Maurizio Prataioli, avvocato integerrimo e genitore modello, sarei stato realmente in grado di superare quel confine? Sarei riuscito a penetrare il frutto dei miei lombi?
I coglioni mi dolevano per lo sforzo di trattenere l’eiaculazione.
Sospinto da una smania irrefrenabile balzai in piedi e raggiunsi il corridoio.
Mi fermai davanti alla stanza di Annibale, con le braghe completamente calate e il bastone duro che puntava nella sua direzione.
Compresi che ciò che stavo per fare avrebbe potuto cambiare completamente le nostre esistenze ed ebbi la percezione netta della lotta che, dentro di me, il padre stava conducendo contro la bestia.
Avvertii un profondo senso di angoscia e, nell’unico attimo di lucidità di quelle ore, riuscii a soffocare l’urgenza che mi ribolliva nelle vene.
Mi sollevai i calzoni, mi sistemai a fatica l’erezione nelle mutande e mi fiondai all’ingresso.
Ci misi un’eternità per recuperare le chiavi della macchina e, dopo aver indossato il berretto di mio figlio per riparami dalla pioggia, mi precipitai giù per le scale.

Corsi.
Corsi a perdifiato.
Corsi il più lontano possibile dal mio bambino.
E non mi sentii al sicuro fino a quando non fui fuori dal palazzo e non avvertii sulle guance l’aria gelida della notte.

Guidai a lungo, come un disperato.
La città era deserta e il mio sesso smaniava, ancora incredibilmente teso tra le cosce.
Mi rendevo conto che non dovevo tornare a casa in quelle condizioni, che avevo bevuto troppo e che non sarei stato in grado di controllarmi.
Erano quasi le due di notte.
Mi diressi verso la piazza della città.
Sapevo che dopo il tramonto, al centro della distesa di sampietrini, nella luce suffusa dei lampioni, i chioschi che al mattino ospitavano il mercato si trasformavano in luoghi di perdizione.
Mi era già capitato di scorgere, tra i banchi dei negozianti, alcuni ragazzi dell’est, intenti a fumare nell’attesa che l’auto di qualche facoltoso avventore accostasse per portarli via.
Erano tutti molto giovani ed esibivano una bellezza incredibilmente fragile, destinata a sfiorire nel giro di pochi anni.
I jeans attillati mettevano in risalto le cosce tornite e i glutei sporgevano duri e naturalmente scolpiti.
Percorsi la piazza moltissime volte prima di avvicinarmi al crocicchio dei prostituti.
Infine, col cuore che batteva all’impazzata, mi feci coraggio e accostai l’auto al marciapiede, dove si trovava il ragazzo più giovane del gruppo.
Lui comprese, mi venne incontro e avvicinò il viso sorridente al finestrino.
“Ciao stallone”. Mi blandì con voce effeminata mentre appoggiava la mano sul tetto della vettura e piegava la gamba all’indietro per mantenere l’equilibrio. “Vuoi compagnia?”.
Assomigliava incredibilmente ad Annibale anche se, ad occhio e croce, doveva avere un paio d’anni in più.
Risposi con un cenno della testa e, sbloccando la portiera, lo invitai a montare.
Iryl – questo era il suo nome – era un piccolo efebo ucraino.
I suoi capelli sembravano fili d’oro e, sulla pelle di latte, gli occhi verdi brillavano come smeraldi nel buio della vettura. Le labbra carnose sporgevano lascive tra le fossette delle guance e conferivano al volto una bellezza androgina.
Il ragazzo fu molto diretto e mi chiese subito cinquanta euro.
Io glie le allungai con disinvoltura, come se fossi abituato a quel tipo di pretese, dopo di che avviai il motore, staccai il cervello e lasciai che la macchina mi guidasse nella periferia della città, alla ricerca di un luogo appartato.
Iryl era molto loquace.
Mi parlò di sua madre, di suo fratello, dei suoi amici e dell’importanza dei soldi, ma io non ascoltai neppure una parola di quello che aveva da dire.
I suoi discorsi mi arrivavano confusi.
Riuscivo solo a pensare al cazzo che mi stava scoppiando dentro alle mutande e infatti, quando fummo fuori dal centro urbano, non seppi più trattenermi.
Mi abbassai i calzoni, liberai il sesso dolorante e, rallentata la marcia, invitai il piccolo a succhiarmelo.
Era la prima volta che un uomo mi lavorava l’uccello e mi sentii incredibilmente appagato, come se, alla fine, la parte più sensibile di me avesse trovato la sua casa naturale.
Quando fui certo di essere lontano da sguardi indiscreti accostai la macchina al bordo della strada e cominciai a godermi i colpi di lingua della troia.
“Mmmmh … è buonissimo”. Ripeteva. “È buonissimo”.
Fui sorpreso da quell’attitudine da zoccola.
Era la stessa che mio figlio aveva mostrato dinanzi al totem di carne di Alessandro.
Chiusi gli occhi e, per un attimo, tornai con la mente nel corridoio in cui ero stato quel pomeriggio, davanti alla porta della camera di Annibale, nel momento in cui la sua bocca di velluto aveva ingoiato il glande violaceo del suo amante.
“Sto impazzendo”. Pensai.
Poi lasciai che la mia testa imboccasse quel sentiero proibito.
Immaginai le labbra di mio figlio serrate sul mio membro e sentii i coglioni che si gonfiavano a dismisura.
Mi sfilai il berretto e lo posai sulla testa della piccola troia.
Il ragazzo provò ad alzare gli occhi verso di me, come a domandare cosa stesse accadendo, ma, prima che potesse articolare una sola parola spinsi la mano sulla sua nuca e cominciai a pompargli la minchia in gola.
Lo scopavo come un animale, con lo sguardo inchiodato sul cappellino di mio figlio.
Lui cominciò a mugolare, sopraffatto da quella furia improvvisa, e lasciò che continuassi a ficcare, nonostante i conati e la grossa quantità di saliva che grondava ai lati della bocca.
Dovetti esagerare così tanto che la cagna provò a comunicarmi il suo bisogno di ossigeno affondando le unghie nella carne dei quadricipiti.
Ormai, però, era decisamente troppo tardi.
Ero fuori di me e non avevo nessuna intenzione di fermarmi.
Continuai a sbattergli i coglioni sulle labbra, tenendogli ferma la nuca con entrambe le mani.
Poi, d’un tratto, mentre ansimavo come un maiale e rivolgevo lo sguardo al soffitto della vettura, sentii che il cazzo esplodeva copiosamente nella gola di Iryl, spruzzando una quantità di seme che non avrei mai immaginato di riuscire a produrre.
Mi sentii sollevato, rigirai la testa sullo schienale e fissai l’asfalto bagnato oltre il finestrino, mentre la piccola puttana, grata di poter tornare a respirare, terminava il suo lavoro con devozione e raccoglieva con la punta della lingua le ultime gocce del mio tormento.
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