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Il tormento di un padre -1


di LuogoCaldo
23.03.2022    |    29.060    |    22 9.6
"Il marcantonio giaceva completamente nudo sul letto di Annibale con le braccia e le gambe allargate a forma di croce..."
Mi stava scoppiando la testa.
L’auto sfrecciava sull’asfalto bagnato in direzione di casa mentre provavo a chiamare mio figlio per dirgli che sarei rientrato prima.
“Cazzo, e rispondi una volta!” Mi dissi.
Non sapevo più che fare con quel ragazzo.
“È normale, gli adolescenti danno sempre dei problemi!”. Ripetevo a me stesso.
Eppure, in cuor mio, sapevo che, da quando mia moglie era morta, Annibale era diventato ingovernabile.
Mi sfuggiva, si rendeva irreperibile, spariva per pomeriggi interi e rientrava a casa a notte fonda.
Accostai l’automobile al marciapiedi e tirai un sospiro di sollievo.
“Finalmente”. Biascicai.
Non ne potevo più di guidare.
Afferrai la ventiquattro ore e feci per aprire la portiera quando, dall’altra parte della strada, oltre il muro di pioggia, vidi il mio bambino che varcava la soglia del portone in compagnia di un uomo.
“Ma che cazz …”
Non riuscii neppure a finire il pensiero che mi accorsi che il tizio si faceva accosto ad Annibale e, appoggiandogli una mano sul sedere, lo spingeva lungo l’androne.
Il ragazzo lo guardò rapito e mentre, a sua volta, cingeva la vita del marcantonio, si lasciò condurre nella direzione degli ascensori.
Il cuore saltò un battito e riprese a galoppare selvaggiamente.
Ci si aspetta che un padre sappia sempre cosa fare e invece, in quel momento, io mi sentii bloccato.
L’abitacolo che, fino a qualche secondo prima, mi opprimeva s’era improvvisamente trasformato in una tana sicura, fuori dalla quale la vita stava imperversando con tutta la sua imprevedibilità.
Usai su me stesso una grande violenza per uscire fuori e, senza aprire l’ombrello, mi precipitai nel palazzo.

Percorsi a piedi i sei piani delle scale.
Avevo il cuore in gola e mi trascinavo con la lentezza di chi non vorrebbe arrivare mai.
“È solo un ragazzino”. Pensavo.
E invece sapevo bene che mio figlio era ormai un giovane adulto.
Aveva compiuto da poco sedici anni ed era nel pieno dello sviluppo.
Moro, ben proporzionato, forgiato dalle ore nella palestra che, alla sera, frequentavamo insieme.
Non mi assomigliava per niente.
Io ero molto più alto e molto più robusto di lui.
Avevo il corpo ricoperto di peli ispidi, mentre lui era esile e naturalmente glabro.
“Dovrà pur spuntarti qualche pelo prima o poi”. Gli dicevo per gioco nella doccia del centro sportivo quando, dopo gli allenamenti, ci ritrovavamo prima di tornare a casa.
Ma lui faceva spallucce, s’insaponava la pelle di velluto e mi rispondeva poco convinto: “A me sta bene così”.
Quando fui al piano, davanti alla porta di casa, rimasi fermo per alcuni minuti, stringendo tra le dita la chiave per metà già inserita nella toppa.
Infine, mi feci coraggio e, senza fare rumore, sgusciai dentro l’appartamento.
L’ingresso era buio e, nel corridoio, all’altezza della camera di Annibale, la luce filtrava oltre la porta socchiusa.
Mi tolsi le scarpe e, trattenendo il respiro, mi avvicinai spaventato alla stanza di mio figlio.

Neppure nei miei incubi peggiori avrei mai potuto immaginare lo spettacolo che mi si parò davanti.
Il sangue mi si gelò nelle vene.
Il marcantonio giaceva completamente nudo sul letto di Annibale con le braccia e le gambe allargate a forma di croce.
L’uomo era chiaramente un mio coetaneo, più vicino ai cinquanta che non ai quaranta.
Ciononostante, l’altezza, la stazza importante, le spalle larghe e i pettorali definiti ancora ne facevano un maschio attraente.
Aveva il volto rivolto verso il soffitto, le labbra socchiuse e lo sguardo estasiato dalle attenzioni che mio figlio gli stava riservando.
Annibale, infatti, era accovacciato tra le sue cosce taurine.
La pelle brillava come porcellana nella luce soffusa della stanza e il profilo sinuoso, la linea morbida delle reni e i glutei torniti completamente inarcati si stagliavano contro la parete azzurra.
Le dita sottili scorrevano sui quadricipiti del porco e s’ impigliavano nella peluria abbondante, mentre la piccola bocca imberbe serrava l’asta marmorea e la succhiava come un’idrovora.
Il silenzio tombale era rotto dal respiro affannato del satiro e un gorgoglio di saliva promanava dalla gola del mio bambino.
Mi sentii mancare la terra sotto i piedi.
Dovetti appoggiarmi allo stipite della porta per non cadere.
“Hai un cazzo buonissimo, buonissimo”. Mugolò mio figlio. “Beata tua moglie, Alessandro. Sa ancora di fica … Mmmh … Mmmh …”.
E intanto passò la lingua sui coglioni gonfi dell’uomo, la lasciò scivolare lungo l’asta e tornò ad attorcigliarla attorno al glande violaceo.
“Che cagna sucapesce!” Rispose lo stallone con un forte accento napoletano.
“Leccami i piedi scrofa. Ahhh … brava … brava …!” Lo blandì. “Guarda quanto me l’hai fatto intostare. Guarda.”.
Con la bocca piena dei suoi grossi alluci, mio figlio fissò estasiato il totem di carne del maschio, contemplandolo come se fosse lo scettro di una divinità.
“Sali ora”. Gli ordinò il maiale. “Così. Lecca le cosce. Sali …!”
E, prima che Annibale potesse indovinare le sue intenzioni, sollevò le caviglie, afferrò i capelli del ragazzo e, tirandoselo a sé, gli affondò la faccia in mezzo ai glutei, costringendolo a leccargli il buco del culo”.
“Brava zoccola, lava! Lava!” Urlava serrando le cosce attorno alla nuca. “Aaaaah …. Ahhhh”
Il ragazzo sapeva cosa fare perché, mentre la sua bocca di pesca si dedicava allo sfintere peloso del toro, la manina si stringeva attorno alla nerchia di ferro e si prodigava in una masturbazione dal ritmo serrato.
Il montone era totalmente in estasi ed emetteva gemiti scomposti di piacere, riversando la nuca all’indietro sul cuscino e sgranando gli occhi verso il soffitto.
La lingua di Annibale doveva esse magica perché, ad un certo punto, completamente fuori di sé, il maiale non riuscì più a trattenersi e, montato in piedi sopra al letto, posizionò le cosce attorno al sedere di mio figlio.
In quella posizione la sua asta mi sembrò un’enorme trave d’acciaio.
“Fottimi, ti prego. Fottimi!” Lo esortò Annibale offrendogli lo spettacolo delle natiche spalancate.
Il caprone non se lo fece ripetere e, piegate le ginocchia, gli piantò il glande tra le mele.
“Aaaaah …. Aaaaah”. Gemeva il ragazzo mentre l’ariete si faceva strada tra le sue viscere. “Sfondami, sono la tua cagna, sfondami”.
Alessandro prese a chiavarselo con violenza.
Lo sbatteva in avanti con forti colpi di reni e lo costringeva a serrare le dita intorno al lenzuolo per tenersi in equilibrio.

Nascosto dietro la porta mi sentii travolto da emozioni indecifrabili.
Avevo sempre pensato al mio piccolo angelo come ad un essere asessuato e non immaginavo che quel bambino potesse risvegliare in un maschio una furia così incontrollata.
Provai a recuperare un barlume di lucidità e ad analizzare con distacco la situazione.
Per la prima volta da quando lo avevo messo al mondo mi resi conto che il corpo affusolato, la gestualità esagerata e le movenze languide di mio figlio dovevano avere un grande effetto su un uomo sensibile a quelle manifestazioni di femminilità.
Un uomo fragile, certo.
Un uomo incapace di confrontarsi con un interlocutore al suo stesso livello.
Un uomo per cui spingere il succo amaro di cinquant’anni di vita in fondo allo sfintere morbido di una creatura innocente rappresentava probabilmente una sorta di terapia, un modo sicuro per esorcizzare una realtà troppo monotona, troppo prevedibile, troppo opprimente.
E infatti Alessandro sembrava montare Annibale più per il suo piacere personale che non per il bisogno di congiungersi spiritualmente a lui.
Lo dominava, consapevole della sua superiorità fisica e psicologica, gli premeva il piede sulla faccia e gli affondava l’uccello dentro al retto, fino all’altezza dei coglioni, mentre il ragazzo, sopraffatto da quella virilità sconosciuta, era completamente succube.
Lo pregava di non fermarsi, di spaccargli il culo ancora più forte e intanto, con la lingua scomposta e gli occhi fuori dalle orbite, gli leccava i piedi in segno di completa adorazione.

Cominciai a sudare freddo.
Una sensazione di profondo fallimento si era impossessata di me.
Sapevo che avrei dovuto interrompere l’amplesso, eppure non riuscivo ad articolare un solo movimento.
Per rigidità il mio corpo si stava confondendo col cemento della parete alla quale ero appoggiato quando, d’un tratto, le urla di mio figlio si fecero ancora più sorde e somiglianti a quelle di un animale torturato.
Spinsi il capo in avanti, per guardare meglio quello che stava accadendo.
“Cazzo, sta diventando durissimo”. Gridò Annibale. “Mi stai slabbrando il buco … si …. siii ….”
“Sei una puttana”. Gli rispose l’uomo. “Se fossi tuo padre non ti farei uscire di casa”.
“Meno male che non lo sei”. Lo rimbottò mio figlio a fatica. “Sennò mica mi potevi sdrumare”.
“Perché secondo te non ti scopavo lo stesso, vacca?” Rispose Alessandro continuando a sbatterlo. “O fai la troia solo a parole? Eh? Dimmi … non te lo saresti preso lo stesso il cazzo? … Allora?”
“Si …” Annibale provò a biasciare qualcosa con un tono che tradiva un profondo imbarazzo, ma l’uomo non sembrava soddisfatto.
“Si cosa?” Lo incalzò completamente fuori di sé. “Ti faresti scopare da tuo padre? Eh? … Rispondi!” Gli ordinò assestandogli un colpo deciso.
“Si …”. Urlò il ragazzo con voce rotta dal piacere. “Si mi farei scopare … mi farei scopare”.
Alessandro era completamente fuori di sé, si passava la lingua sulla bocca e si mordeva il labbro inferiore per lo sforzo di trattenere l’eiaculazione.
“Glie l’hai mai visto il pesce?” Continuò. “Rispondi! Glie l’hai visto?”
Annibale sembrava confuso ma l’orgasmo che stava provando era più forte di ogni freno inibitorio.
“Si”. Disse.
“Quando?”
“A volte la notte pensa che io dorma e si tira le seghe davanti ai porno, sul divano del salone … Ahhh … ahhhh… ”.
Sbiancai.
“E tu resti a guardalo?”.
“Ahhh .. si … si … resto a guardarlo”.
“E che fai? Mmmmm … Sei veramente una zoccola.” Alessandro era sul punto di scoppiare.
“Mi sego … Mi sego come un matto e mi metto le dita nel culo fino a quando non lo vedo sborrare”.
Quella confessione fece capitolare lo stallone.
Cominciò a guaire come una belva ferita. “Cazzo … Cazzo …. Sto venendo troia …. Sto venendo”.
“Si … Siiii ingravidami”. Gridò Annibale soddisfatto della reazione suscitata. “Ti prego, non uscire … ingravidami come hai fatto con tua moglie… Mmmm … mmmm …”
“Ahhh … aaah … Esplodo … E-splo-do …” Mugolò Alessandro e, curvandosi sulla schiena del ragazzo, assestando gli ultimi e decisi colpi di reni, scaricò nelle viscere di mio figlio tutto il contenuto dei suoi coglioni.

Mi sentivo intontito, confuso, come se la vita mi avesse sferrato un colpo durissimo sulla nuca.
“Ahhh … Ahhh….” Il mio bambino ancora ansimava.
Arretrai rasente la parete, attento a fare meno rumore possibile, mentre il respiro dei due amanti, in lontananza, si faceva sempre meno serrato, sempre meno carico.
Nell’ingresso, mentre mi rinfilavo le scarpe, li udii scherzare e ridere sorpresi della foga di quell’amplesso.
“Ti è piaciuto?”
“Sei stato fantastico …”.
Col cuore in gola mi chiusi la porta di casa alle spalle.
Non presi l’ascensore.
Imboccai le scale di corsa e, quando fui nell’androne, uscii in strada senza aprire l’ombrello, cominciando a camminare intorno all’isolato come se fossi un automa.
Avvertii sulle spalle il peso opprimente della responsabilità di mio figlio e percepii la mia inadeguatezza per il ruolo che il destino mi aveva lasciato ad affrontare da solo.
Iniziai a singhiozzare rumorosamente, incurante della pioggia battente che mi schiaffeggiava il volto.
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