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Il drizzacazzi - 1


di adad
27.08.2020    |    17.114    |    10 9.6
"In certe situazioni è sempre bene mostrarsi indifferente, professionalmente parlando..."
Sono un drizzacazzi. No, non nel senso che sono particolarmente figo o robe del genere: intendo che lo faccio di mestiere, faccio drizzare i cazzi.
Lavoro in una casa di produzione cinematografica, di cui non voglio fare il nome per ovvi motivi... ma cominciamo dall’inizio.
Circa sei o sette anni fa, iniziai a lavorare come ragazzo di bottega in uno studio fotografico, il cui titolare era un tipo sui quaranta abbastanza losco, ma fisicamente passabile, anche se non rientrava davvero nei miei canoni artistici… e neanche in quelli erotici, per dirla tutta. Ero lì da pochi giorni, quando mi accorsi di un via vai di ragazzi più o meno giovani, più o meno bellocci, che venivano fatti accomodare in un salottino nel retro, a cui mi era stato proibito l’accesso. Non ci misi molto a capire che quella gente non veniva certo per delle fototessera. Ma mi tenni la cosa per me: era da un pezzo che avevo imparato a non ficcare il naso, dove non dovevo… soprattutto, quando si tratta di faccende che potrebbero rivelarsi delicate.
Mi sentivo ancora nelle ossa le botte che mi aveva dato mio fratello maggiore, un giorno che ero entrato nella sua camera e lo avevo sorpreso che si faceva una sega con una candela infilata nel culo, mentre guardava una rivista. Accidenti, se me le aveva suonate! Pertanto, se mi era stato proibito l’accesso al salottino, il motivo c’era e io mi guardai bene dall’intraprendere qualsiasi investigazione in merito, limitandomi a sospettare, ipotizzare, fantasticare…
La svolta avvenne un tardo pomeriggio. In studio era arrivato un ragazzo sui vent’anni, belloccio, devo ammettere, ma soprattutto fisicamente dotato… voglio dire che aveva un bel fisico asciutto da palestra. Ricordo che indossava una tuta da ginnastica abbastanza sformata (di quelle che il cazzo lo fanno drizzare a me!) e una borsa da palestra. Il titolare, il signor Andrea, lo fece accomodare nel salottino e io rimasi ad occuparmi dei miei compiti e di eventuali clienti, come era successo tutte le altre volte, del resto, visto che la seduta fotografica nel salottino si sarebbe protratta per almeno un paio d’ore.
Senonché, quel giorno le cose andarono diversamente, perché dopo una decina di minuti, il signor Andrea fece capolino dalla porta interdetta e mi chiamò:
“Ragazzo, - mi fece – ti va di guadagnarti un extra?”
Il mio nome è Federico, ma lui si è sempre rivolto a me, chiamandomi “ragazzo”.
Con i tempi che corrono, un extra fa sempre comodo; così dissi: Okay. E lui:
“Chiudi, allora. Metti il cartello “torno subito” e vieni qua.”
Feci come mi aveva detto e lo raggiunsi: stavo per entrare nel sancta sanctorum e confesso che ero divorato dalla curiosità.
Entro… wow! Il salottino era arredato con l’indispensabile, a parte l’attrezzatura fotografica, solo un divanetto davanti ad un fondale neutro; ma quello che attirò la mia attenzione fu il ragazzo, arrivato poco prima: era in piedi, nudo, e aveva l’aria alquanto impacciata.
“So bene che hai capito da un pezzo quello che facciamo qui dietro, giusto?”, mi disse il signor Andrea.
In certe situazioni è sempre bene mostrarsi indifferente, professionalmente parlando.
“Sì, capo.”, risposi senza particolare enfasi.
Lui annuì, poi riprese:
“Abbiamo un problema: il nostro modello è la prima volta che posa e non si sente del tutto a suo agio… Come vedi, non gli viene duro. Vuoi occupartene tu? Ti do cinquanta euro se glielo fai drizzare.”
Vi chiederete come diavolo gli era venuto in mente di fare una richiesta del genere al suo ragazzo di bottega. Francamente, non lo so: si vede che aveva intuito quello che mi passava per la testa e sapeva di andare a colpo sicuro. Ad ogni modo, mi sarei occupato del caso, anche senza l’extra di cinquanta euro, ma ovviamente non glielo dissi. Mi avvicinai col batticuore a qual magnifico esemplare di maschietto, che diventava più sballante ad ogni passo che mi avvicinavo. Tempo di raggiungerlo e avevo il cazzo che mi frullava nelle mutande come un pappagallo imbizzarrito.
“Ciao, - gli dissi sorridendo – io sono Federico.”, e gli tesi la mano.
Lui me la strinse, ma non mi disse il suo nome.
“Capo, devo spogliarmi pure io?”, chiesi al signor Andrea.
“Non serve, - rispose lui – occupati solo del suo cazzo, faglielo drizzare.”
Così, mi avvicinai ancora di più e allungai la mano… era molle, soffice, caldo… conoscevo un metodo sicuro per farglielo intostare. Così mi gli accosciai davanti e accostai la bocca. L’odore umido del suo corpo appena docciato, misto al lieve sentore di pino silvestre che gli si sprigionava dal pube, mi giunse inebriante: lo inalai con un profondo respiro, poi tirai fuori la lingua e, reggendo il pisello con due dita, cominciai a slinguettare la corona increspata del prepuzio tirato su. La risposta devo dire che fu abbastanza rapida: quel magnifico membro cominciò a lievitarmi fra le dita, così che mi affrettai a scappellarlo e ad affondarmi in bocca l’intero glande.
Lo succhiai per un po’, godendomi la sua soffice levigatezza, nonché il sughetto che ben presto prese a sgorgare copioso, finché:
“Ok, ragazzo, basta così, - mi sentii dire – hai fatto un ottimo lavoro.”
Allora, pur rammaricandomene potete immaginare quanto, mi trassi indietro e, visto che nessuno mi disse di andare, mi ritirai in un angolo a godermi la seduta fotografica, sulla quale vi risparmio i particolari, perché andremmo ben oltre i limiti della decenza.
Quando terminò con l’immancabile sega e sborrata, mi affrettai a prendere degli asciugamani, che avevo visto su una sedia, e glieli portai. L’odore della sua giovane sborra era penetrante e feci fatica a reprimere l’impulso di andargliela a leccare dalla pancia e dal petto.
Ho ripensato spesso a quel momento e mi sono chiesto come avrebbero reagito il signor Andrea e il ragazzo, se lo avessi fatto. Ad ogni modo, da quel giorno il salottino non mi fu più precluso: il signor Andrea continuò a chiamarmi, quando servivo, ma mai nessuna parola fu spesa tra me e lui su questi extra, sempre puntualmente retribuiti.
La svolta nella mia carriera di drizzacazzi si verificò un giorno in cui venne da noi per una seduta fotografica un attore, Jeff Mariner (lo chiamerò così per motivi di riservatezza), già abbastanza affermato nel mondo dell’industria porno. Voleva rinnovare il suo book e si era rivolto al nostro studio, che ormai godeva di una certa fama nel settore. Conoscevo quell’attore: avevo visto alcuni suoi film e confesso che mi eccitava da morire. Per cui potete immaginare il mio batticuore, quando lo vidi accomodarsi nel salottino. Purtroppo, uno stallone come lui difficilmente avrebbe avuto bisogno dei miei servigi, tanto più essendo etero, così mi rassegnai ad accompagnarlo malinconicamente solo con gli occhi, mentre entrava e si chiudeva la porta insonorizzata alle spalle.
Erano passati una decina di minuti, quando il signor Andrea fece capolino:
“Vieni, ragazzo, - mi chiamò – c’è bisogno di te.”
Chiusi febbrilmente il negozio, misi il cartello “torno subito” e mi diressi al salottino. Entrai col cuore che mi batteva all’impazzata e la prima cosa che vidi, o meglio l’unica, fu Jeff, seduto sul divano con il cazzo che gli pendeva inesorabilmente moscio in mezzo alle cosce.
“Il nostro amico non si sente in forma oggi, - mi disse il capo – vuoi pensarci tu?”
“Certo”, feci io, non credendo alle mie orecchie.
“Che significa?”, fece Jeff.
“Il ragazzo è il nostro drizzacazzi: adesso ci pensa lui a fartelo drizzare.”
Mi avvicinai: ero talmente emozionato, che non pensai neanche presentarmi: mi inginocchiai davanti a lui e feci per prenderglielo in mano.
“Che cazzo pensi di fare?”, scattò in piedi, facendomi sbattere il suo cazzo moscio sulla fronte e rischiando di travolgermi.
“Sta calmo, - intervenne il capo – te lo succhia soltanto un po’… è bravo, non preoccuparti.”
“Non ho nessuna intenzione di farmelo succhiare da questo qui!”, sbraitò Jeff.
“Questo è quello che abbiamo.”, tagliò corto il signor Andrea.
“Voglio una ragazza.”
Allora mi alzai e mi tirai indietro.
“Mi dispiace, - feci con tono forse un po’troppo seccato – ma ci sono solo io.”
Lui mi guardò con aria schifata, poi si risedette.
“Ok, - disse – ma fa in fretta.”, e storse il volto, fissando in alto, mentre io tornavo a inginocchiarmigli davanti e gli sollevavo il cazzo molle con due dita.
Ma anziché prenderglielo in bocca, cominciai a leccargli le palle… quelle palle che tanto avevo ammirato nei suoi film: grosse, penzolanti, perfettamente depilate, che la lingua ci scivolava sopra a meraviglia.
“Che fai?”, lo sentii che mi chiedeva.
“Non vuoi che questo qui ti succhi il cazzo e questo qui non te lo succhia. – risposi – e adesso lasciami fare il lavoro per cui mi pagano.”, e ripresi a slinguargli lo scroto, allungando ogni tanto la lingua fin sul perineo.
Sapere che poco oltre c’era il suo buco del culo, mi elettrizzava da morire. Avrei tanto voluto arrivarci, ma come? Glielo avevo visto un paio di volte in un film, quando la camera lo aveva inquadrato da dietro, mentre montava una delle sue troie e le chiappe gli si erano aperte a sufficienza: la vista di quel forellino roseo mi aveva provocato una contrazione alla bocca dello stomaco. La consapevolezza di averlo adesso lì, ad un tiro di lingua, la sensazione di sentirne perfino l’odore, mi caricavano di una frenesia, che finii per scaricare nella foga con cui gli lavoravo i coglioni. Non sapevo che effetto potesse avere su di lui quella terapia, ma funzionò perché ad un certo punto arrivò l’inevitabile, quanto implacabile:
“Adesso basta, ragazzo, hai fatto un ottimo lavoro.”
Così mi tirai indietro e mi trovai davanti agli occhi, in primo piano, l’erezione in carne ed ossa di Jeff Mariner in tutto il suo immaginifico splendore. Mi ritirai nel mio solito angolino e assistetti al resto della seduta. Stavolta non ci fu la sega finale: terminati gli scatti, Jeff si rivestì e passandomi davanti:
“Ci sai fare con la lingua, ragazzo.”, mi disse dandomi un buffetto sulla guancia.
Gli sorrisi e lo mandai mentalmente affanculo. “Se arrivavo al tuo culo, ti facevo vedere io cosa so fare con la lingua.”, pensai.
La vita riprese il solito tran tran nello studio: qualche foto tessera, qualche servizio matrimoniale e qualche seduta nel salottino, per le quali, però, non fu mai richiesto il mio intervento.
Un paio di settimane dopo, stavo sistemando delle attrezzature, quando suonò il telefono. Rispose il signor Andrea.
“Ricordi quell’attore, Jeff Mariner, - mi fece dopo aver riattaccato – che è venuto a farsi il book alcune settimane fa?”
Altroché se lo ricordavo! Mi sentivo ancora la consistenza delle sue palle sotto la lingua!
“Quello che non gli tirava!”, ghignai.
“Ah! – mi rimproverò il capo – quello che succede là dentro…”
“Mi scusi. Che succede?”
“Ha chiesto di te. Sta girando un film e richiede la tua assistenza… professionale. Sei andato davvero a segno, stavolta!”, concluse, strizzandomi l’occhio.
“Ma non può impasticcarsi, come fanno tutti?”, sbottai, fingendomi seccato.
“Va là, va là, linguetta, che ho visto bene come te la sei goduta a leccargli le palle!”, scoppiò a ridere lui.
“Ah… quello che succede là dentro…”, gli feci allora il verso.
“Hai ragione. Ti aspetta domani mattina alle nove. Devi presentarti da lui allo studio…”, e mi diede l’indirizzo.
“Ma e lei?”
“Non abbiamo impegni, per la prossima settimana, - disse, sfogliando l’agenda - credo che ci prenderemo qualche giorno di ferie… diciamo fino all’altro lunedì?”
“D’accordo.”, feci, già con la tremarella addosso, all’idea di rivederlo e… non solo.

(continua)

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