incesto
Le vacanze di René - 10
di July64
08.05.2017 |
21.744 |
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"Mio padre replicò con semplicità: “Beh, non potevano certo aspettarci sempre bellissimo tempo..."
Le vacanze di René - parte decimaConfesso che le parole pronunciate da Loanai: “Credi che non abbiano assaggiato anche loro il riali…?” produssero in me un effetto eccitante amplificato, suscitando una improvvisa, incalzante, irrefrenabile curiosità di sapere come si erano comportati i miei zii, specialmente zia Juliette, la più intrigante, che per me, comunque, rappresentava un mistero, nel senso che, pur stuzzicando molto i miei istinti, la reputavo inavvicinabile. Ma dovetti reprimere il mio desiderio di conoscenza: non avevo i mezzi, né gli spazi temporali per affrontare una siffatta esplorazione.
Loanai rise con gusto: la sua risata era come un gorgheggio, il canto di un usignolo nascosto in quella vegetazione tropicale lussureggiante. Ancora inebetito dalle emozioni appena provate e forse anche dal “riali”, proseguii il mio cammino verso il villaggio, accompagnato dalle mie giovani amanti, sul volto delle quali era manifesta la soddisfazione per le nostre prodezze amorose: questo mi inorgogliva molto.
Più ci avvicinavamo al villaggio e più cercavo di ricompormi, per non mostrare il mio rossore, che sarebbe stato da tutti interpretato come il segno inequivocabile di un impegno sessuale sfrenato come quello appena concluso.
In prossimità del villaggio i gruppetti dei pescatori di ostriche si riunirono: i miei occhi incrociarono quelli della zia Juliette in uno sguardo complice e sorridente. Tutto il gruppo aveva un’aria soddisfatta e rilassata: nulla di strano, quindi, e complimenti al “riali”.
Fummo accolti da gridolini di entusiasmo dei miei parenti e da sorrisi accondiscendenti degli isolani alla vista di quella pesca miracolosa di frutti di mare. Infatti, unendo insieme il bottino di tutti i gruppi, avevamo ammucchiato nella radura del villaggio diverse centinaia di ostriche. Le donne più anziane, munite di corti coltelli, iniziarono ad aprirle con un’abilità ed una velocità sorprendenti. Non trovammo nessuna perla, ma, in compenso, facemmo una scorpacciata di ostriche come penso non ci sarebbe mai più capitata nella vita. Erano deliziose, dolcissime, profumavano di mare e soprattutto erano accompagnate da una bevanda aromatica, ovviamente a base di cocco e rhum offertaci dai polinesiani, che esaltava il sapore di quei frutti di mare straordinari.
Naturalmente le ostriche rappresentavano soltanto l’antipasto, perché la cena che ci venne offerta dopo era costituita da un vero ben di dio: pesce di ogni genere, involtini di polpa di granchio in un involucro di foglie profumate, frutti coloratissimi e sconosciuti; non ne potevo più, stavo scoppiando.
Loanai era seduta vicino a me e ridendo mi suggeriva di mangiare, perché avevo speso molte energie nel pomeriggio. Le diedi, per scherzo, una leggera gomitata nel fianco e lei fece finta di cadere svenuta. Era un’atmosfera davvero rilassante ed eccitante nello stesso tempo. Alla fine della cena i giovani del villaggio si cimentarono in una danza polinesiana che il capo definì “scaccia guai”, perché anticamente il rito veniva celebrato per allontanare gli spiriti maligni dal villaggio. Ora, ridimensionatasi la concezione del ricorso alla magia, la danza si era trasformata in uno spettacolo folkloristico davvero notevole.
I giovani erano vestiti con abiti sgargianti e le donne portavano tutte il gonnellino di paglia ed un reggiseno colorato, ma questa volta la danza non ebbe alcun significato sessuale, quindi nessun movimento particolare, e si svolse in tutta serenità.
Immaginavo che mia nonna avrebbe forse preferito che la danza avesse altro svolgimento, per essere ancora oggetto delle attenzioni e degli assalti di nonno André…
Dopo la danza ci intrattenemmo ancora a chiacchierare con il capo, con sua moglie e con altri polinesiani, tutti riuniti in cerchio attorno ad un fuoco che illuminava di luce morbida i volti degli astanti. Loanai era sempre accanto a me e mi spiegava gli usi della sua terra e come lei, pur avendo intenzione di studiare in Australia, o magari in Europa, avrebbe fatto sempre ritorno alla sua isola, perché i polinesiani, non diversamente da altre popolazioni europee, avevano un fortissimo senso delle radici.
Insieme ai suoi progetti di vita, mi confidava quelle che erano le sue aspirazioni, ciò che lei apprezzava nei suoi simili, quello che lei era disposta ad offrire. Mi colpì tantissimo la sua onestà intellettuale, niente affatto intaccata dai costumi molto liberi del suo popolo.
in realtà io avrei preferito appartarmi con lei per trascorrere altri momenti sconvolgenti (anche perché, secondo me, gli effetti del rivali non erano ancora del tutto passati), ma non fu possibile trovare un momento in cui sgattaiolare via.
Era notte fonda quando ci congedammo da quegli amici gentili e disponibili. Loanai mi dette un dolcissimo bacio e mi sussurrò in un orecchio che non mi avrebbe mai dimenticato. Io, con il cuore stretto in una morsa, le assicurai che anche per me sarebbe stato impossibile dimenticare lei e ci scambiammo la promessa di rivederci l’indomani mattina per salutarci ancora.
Il drappello familiare si incamminò quindi verso la barca per cercare di riposare quel poco che la notte avanzata avrebbe potuto ancora consentire. Il ritorno nel gruppo mi provocò una sensazione di disagio, per la presenza di mia madre ed il ricordo troppo recente di quello che era accaduto tra noi. Mi dicevo che era talmente incredibile che se avessi soltanto sognato di far l’amore con lei mi sarei dato del pazzo: invece era accaduto davvero ed era stato infinitamente bello.
Non riuscivo ad avere il senso del peccato, né rimorsi per averlo fatto. Soltanto un impeto di gelosia mi scosse, allorquando realizzai che il resto della notte mio padre sarebbe stato accanto a lei. Mi consolai pensando che forse anche lei pensava a me e a quella cosa dolcissima e sconvolgente accaduta tra noi.
Risaliti in barca, ognuno di noi si diresse alle proprie cabine. Io non feci nemmeno il tentativo di agganciare le mie amiche Edith e Annette: ero talmente stanco per la performance pomeridiana che crollai addormentato, tutto vestito, non appena mi distesi sul letto.
Mi parve di aver dormito solo un minuto. Mi svegliai, stiracchiandomi languidamente, convinto che fosse ancora notte, perché dall’oblò non entrava molta luce: guardai fuori e mi accorsi, invece che era giorno, ma che il cielo era nuvoloso. Strano per i tropici, soprattutto in quel periodo. Un’occhiata all’orologio mi confermò che erano le dieci di mattina. Risalii velocemente in coperta e vi trovai mio padre che chiacchierava con il nonno André e la zia Jeneviève. Guardai il cielo carico di nubi e rivolsi uno sguardo interrogativo a mio padre.
“Allora, René, che impressioni hai tratto da questa crociera?” chiese mio padre, “sono curioso di sentire una delle tue argute argomentazioni in proposito” e poi, rivolgendosi al nonno, “Vero, André, che i pareri espressi da René sono sempre appropriati?”
Il nonno annuiva convinto: “Giusto, il ragazzo ha grande spirito di osservazione e sa apprezzare ciò che il mondo gli offre!” concluse nonno André facendomi l’occhiolino.
“Posso solo dire che è tutto meraviglioso” risposi io “sono affascinato da questa natura, dalla gente che incontriamo e soprattutto da questa nostra armonia familiare.”
“Hai ragione” risposero all’unisono mio padre e mio nonno.
Io approfittai di questi apprezzamenti per andare a cercarne un altro, per così dire più “concreto” abbracciando mia zia Jeneviève, che non si sottrasse affatto, anzi, mi schioccò un bacio sulla guancia.
“Come vi spiegate la presenza di queste nuvole?” domandai io.
Mio padre replicò con semplicità: “Beh, non potevano certo aspettarci sempre bellissimo tempo. Comunque oggi avremo una lunga traversata perché abbiamo in programma la visita di un’altra bellissima isola, chiamata l’atollo dei delfini; è chiamato così perché i delfini giungono sino a riva e giocano con gli uomini. Ho già tracciato la rotta e possiamo partire non appena ci saremo congedati dai nostri ospiti polinesiani”.
Il mio pensiero corse immediatamente a Loanai, con la quale ci eravamo scambiati la promessa di salutarci definitivamente quella mattina.
Salutai i presenti, scesi dalla barca e mi incamminai verso il villaggio. Loanai mi aspettava. Mi condusse in un boschetto di palme poco lontano dal villaggio e lì, non visti, ci scambiammo gli ultimi baci. La sua lingua si muoveva contro la mia esplorandola tutta, come se avesse voluto conservarne il ricordo. I suoi capezzoli appuntiti premevano contro il mio petto come se avessero voluto bucarlo. Ci accarezzavamo reciprocamente i corpi, come se avessimo voluto imprimervi per sempre nella memoria il ricordo.
“Oh, René, sarò molto triste quando sarai partito”, mi disse Loanai con un sorriso malinconico.
“Io porterò sempre con me il ricordo delle tue labbra e dei momenti stupendi che mi hai regalato, Loanai” riuscii a dire con voce rotta dall’emozione.
Loanai mi baciò ancora, e mi disse: “René tu hai una dote che pochi uomini hanno: oltre ad avere un arnese spaventosamente grande, che provoca in una donna un godimento straordinario, sai essere molto generoso, cioè sai aspettare i tempi femminili, che sono molto diversi da quelli degli uomini. Ritengo che sia una dote che non hai acquisito, ma che è in te da sempre e che darà tanta soddisfazione e tanto piacere alla donna che ti sarà vicina”.
Poi mi prese per mano e mi condusse verso il villaggio. Si fermò presso una capanna, vi entrò e ne uscì fuori recando un sacco in ciascuna mano. Mi feci incontro a lei per aiutarla, ma lei li posò entrambi per terra.
Aprì il più grande e mi mostrò che era pieno di “riali”. “Ti avevo promesso di regalartene un po’ di questi frutti dell’amore. E perché tu non mi dimentichi, in quest’altro sacco ci sono i semi di riali. Li potrai piantare anche nella tua terra e, quando le piante cresceranno e daranno i frutti, li userai con le tue amiche e poi con tua moglie e ricorderai che in questa terra lontana c’è sempre un’amica che ti vuol bene”.
La abbracciai fortissimo e mi accorsi che ero davvero commosso, per il dono, per le parole, per i sentimenti di quella ragazza dolcissima e splendida.
Loanai legò stretta la bocca di entrambi i sacchi, io li caricai sulle spalle e con l’animo pesante e grigio come il cielo mi congedai definitivamente da lei.
Non mi unii ai miei per il commiato con il capo villaggio, ma li attesi in barca, ripensando, nel silenzio, rotto solo dal cinguettio, mai ascoltato prima, di strani e coloratissimi uccelli, all’incontro con Loanai e soprattutto alle sue parole. Non sapevo di avere un pisello diverso da quello degli altri, né tanto meno di avercelo di dimensioni più grandi. Mi rendevo conto di essere sempre stato attratto solo dai corpi femminili (soprattutto appartenenti alle mie parenti), e di essere quindi, in mancanza di raffronti, completamente all’oscuro delle misure dei miei parenti uomini, ma il pensiero di averlo più grande di quello degli altri mi ronzava nella testa. Rammentavo che Annette spesso mi aveva detto “Signorino, che bel pisello hai!”, ma pensavo si riferisse al fatto che il mio “assistente” la facesse godere tanto, non alle sue misure. Mi sentii inorgoglito: pensavo che Loanai non avesse alcun motivo per raccontarmi una balla, specie mentre stavo andando via da lei per sempre. Mi ripromisi di ritornare sull’argomento con qualcuna delle mie donne…
Dopo circa un’ora la comitiva dei parenti fece ritorno alla barca. Si udiva distintamente il cicaleccio delle loro voci, che commentavano entusiaste l’accoglienza che questo villaggio ci aveva ancora riservato.
“È proprio vero che i viaggi arricchiscono” stava dicendo zio Marcel, che teneva sotto braccio zia Jen, mentre gli altri annuivano.
“La serenità di questi amici polinesiani è stata una meravigliosa sorpresa”, continuò nonno André, “penso che in ben pochi paesi al mondo avremmo trovato questa accoglienza!”
“Io mi sono sentita davvero un’ospite gradita” disse ancora mamma Mireille “e avete notato come esprimono il loro gradimento? Con una sincerità ed una semplicità impareggiabili.”
Erano tutti d’accordo che era stata un’esperienza unica. Anch’io…
Ad un tratto, mentre salivano tutti quanti a bordo, un tuono lontano lacerò il silenzio della mattina tropicale.
Io guardai con aria preoccupata il cielo, che però non mostrava segni di formazioni nuvolose temporalesche, limitandosi a conservare quel colore grigio uniforme che spegneva lo splendore del sole.
Quasi preso da un presentimento, chiesi a mio padre: “Non credi che sarebbe meglio rimanere alla fonda, oggi?”
Papà, forse per tranquillizzarmi, o piuttosto perché ne era davvero convinto, mi rispose che la barca era in grado di affrontare qualsiasi mare e che se ci fossimo fatti prendere dai timori non avremmo esplorato gli innumerevoli altri paradisi tropicali che quella terra straordinaria ci stava offrendo a piene mani.
Infatti il mare non era agitato, ma lunghe onde, e nemmeno molto alte, lo solcavano.
Si era fatta quasi l’ora di pranzo e quindi decidemmo di sedere a tavola, prima di prendere il largo.
Annette ed Edith ci avevano preparato in modo straordinario del pesce che gli isolani avevano regalato ai miei genitori. La nostra tavola sembrava quella di una festa Maori: vassoi di aragoste, granchi, frutti di mare, ostriche e pesce furono liquidati in brevissimo tempo: l’aria di mare, le imprese amatorie e la compagnia avevano un effetto straordinario sul nostro appetito.
Verso le quindici il capitano diede il segnale della partenza: la barca si staccò leggera dal molo, dopo la consueta manovra di sgancio delle cime da parte mia e di zio Marcel e, sollevando la solite due scie di schiuma bianca, prese lentamente il largo. L’isola di Loanai e anche il mio cuore lentamente divenivano sempre più piccoli, fino a quando il profilo della terra non scomparve all’orizzonte, ingoiato da un leggero strato di foschia che si sollevava dalla superficie del mare. Bussola, radar e loran funzionavano alla perfezione, lo schermo del sonar disegnava il profilo del mare che scivolava sotto la barca, tutto procedeva alla perfezione.
Però la conversazione, sul ponte, languiva un poco: mamma, le mie zie e le mie sorelle erano un po’ contrariate perché non potevano prendere il sole, nascosto da uno strato consistente di nubi grigie, nonno e zio Marcel leggevano un libro, nonna Sophie una rivista di moda (tanto per cambiare).
A poco a poco, senza che noi ce ne accorgessimo, ma erano passate oltre due ore dalla partenza, il grigio del cielo era divenuto più scuro ed il mare aveva iniziato ad ingrossarsi. Il primo a lamentarsi fu il nonno, che non riusciva più a tenere fermo il suo libro, quindi si alzò e scese sottocoperta. La nonna posò la rivista sulle ginocchia e ci guardò con aria interrogativa. In quel momento un fulmine illuminò tutta la superficie del mare con una luce livida: vidi distintamente la saetta che si biforcava e si scaricava in mare con una esplosione assordante, io ritenni a molti chilometri da noi, ma sembrava si fosse abbattuto a pochi metri dalla barca. Un acre odore di zolfo impregnò l’aria, rendendola quasi irrespirabile.
Il mare divenne ancora più agitato e le onde si fecero sempre più alte. Sul viso di mio padre comparve per la prima volta un’ombra di preoccupazione. Mi chiamò e con voce bassa mi disse: “Ora cerco di stabilire una rotta per rifugiarci in qualche isola, che spero sia vicina, ma penso sia il caso di far indossare a tutti quanti i giubbetti di salvataggio, per precauzione.”
Colsi a volo il suggerimento, aprii il gavone di poppa, ne trassi fuori i giubbetti arancione e cominciai a distribuirli a tutti quelli che si trovavano in coperta. Poi feci un mucchio degli altri e scesi per distribuirli a nonno André, a Edith e Annette che, sottocoperta, mi accolsero con una espressione preoccupata, che però non impedì ad Annette di trascinarmi nella sua cabina.
“Il pericolo mi eccita, Renè, senti come sono bagnata.” Così dicendo mi prese la mano e la portò sotto la gonna. Era senza mutandine, come al solito, e mi accorsi, toccandola, che era veramente fradicia: una donna dalle mille sorprese, riusciva ad arraparsi anche in una situazione di pericolo come quella che stavamo vivendo.
Chiuse la porta a chiave, sollevò la gonna e si girò di spalle. “Dai, Renè, scopami un pochino, sono eccitata, ho paura, ma ti voglio tanto.” Si chinò in avanti, sollevò la gonna e appoggiò le mani sul letto. Il suo culetto bianco e sporgente era davvero eccitante in quella posizione e nonostante anch’io fossi impaurito per la situazione, non mi feci pregare: abbassai i bermuda e liberai il mio pisello che stava già raggiungendo una erezione notevole.
Annette, senza alcun preliminare, lo prese in mano e lo avvicinò alla sua fica, strofinandolo su e giù per farlo bagnare con i suoi umori, tanto abbondanti da cominciare a colare lungo le cosce. Poi in un unico movimento indietreggiò e si infilò il mio pisello tutto nella fica. Si aggrappò alla sponda del letto e cominciò lei – io ero fermo e quasi inebetito – un movimento di va e vieni frenetico, spingendo il sedere all’indietro con una forza sempre maggiore. Era una danza selvaggia, ancora più convulsa di quella che avevo visto ballare agli indigeni della prima isola visitata.
Il ciak–ciak provocato dall’urto dei suoi glutei contro il mio bacino mi penetrava nel cervello come il ticchettio di un orologio matto. Mi rendevo conto che anche per me, come per Annette, la situazione di pericolo stimolava una produzione massiva di ormoni sessuali e l’eccitazione era ormai arrivata al parossismo. Mi accorsi pure che i nostri movimenti si adeguavano al dondolio della barca, sempre più accentuato e mi piaceva assecondare il ritmo facendo ondeggiare anche il mio bacino per andare incontro a quello di Annette.
Mi sentivo in uno stato di follia lucida: eccitato dalla performance di Annette e nel contempo impaurito per le condizioni del mare. Ma questo non mi impedì di rivolgere alla mia compagna la domanda che mi stava a cuore: “Annette, rispondimi, ti prego di essere sincera”.
“Ahhh, sì, sììììììì, ti dirò tutto quello che vuoi. Scopami, scopami forte, ancora, ancora più forte!”
“No, Annette, è una cosa seria” io replicai.
“E cosa c’è di più serio che scopare con te, padroncino, dai, continua così, che mi stai facendo morire” e Annette spingeva il suo culo sempre più forte contro di me.
“Voglio chiederti se ti piace il mio pisello”
“Se mi piace? E’ la cosa più bella che ci sia a questo mondo, Renè, mi fa impazzire, sogno di averlo in bocca, nella fica e nel culo tutti i giorni che sono trascorsi da quando ti ho conosciuto.” rispose Annette, ansimando sempre più forte.
Pensai che non era quello il momento giusto di rivolgere una simile domanda: Annette avrebbe risposto di sì in ogni caso, in momenti come questo avrebbe ammesso che ce l’avevo grande come quello di un elefante.
“Dai padroncino, continua a far godere la piccola Annette. Ti amo padroncino, hai un cazzo splendido, è persino più grosso di quello di tuo zio Marcel, mi stai facendo morireeeeee, ora, ora!”
La foia che ci aveva coinvolti quasi mi faceva tralasciare di ascoltare le ultime parole di Annette: ce l’avevo più grosso di quello dello zio Marcel, che era reputato un grande amatore. Allora era vero quello che mi aveva detto Loanai!
Non ebbi il tempo di pensarci ancora: Annette stava venendo ed aveva abbassato la testa contro il cuscino per evitare di gridare tutta la sua eccitazione.
I suoi liquidi vaginali erano colati lungo le sue cosce quasi fino ai piedi ed io mi sentivo così lubrificato da non avvertire quasi più il contatto con le pareti della sua vagina, per questo non ero ancora arrivato, ma ci pensò subito Annette. Non appena furono cessate le ultime contrazioni della sua vagina, si voltò di fronte a me, si inginocchiò e mi prese in bocca il pisello con una voracità che mi sconcertò.
“Lo voglio, Renè, voglio sentirlo tutto nella mia bocca questo pisello mastodontico, voglio che mi riempia tutto lo stomaco con la tua sbora.”
Annette era completamente partita, la sua mano aveva impugnato il mio pisello, e con strana dolcezza, contrapposta a tanta foia, lo faceva scivolare su e giù, mentre lei lo guardava come incantata.
La sua lingua caldissima saettava per incontrare la punta del pisello, bagnata dei suoi e dei miei umori, poi scendeva giù, lungo tutta la lunghezza dell’asta, fino alle palle, che lei infilava in bocca alternativamente, e poi tutte e due insieme, quindi risaliva ed infilava in bocca prima la punta, poi tutta la lunghezza del pene. Sentivo che la punta toccava le pareti della sua gola, come solo lei sapeva fare e questo mi dava un godimento straordinario.
Ad un tratto Annette scostò la mano che stringeva il pisello, mi cinse con entrambe le mani il bacino ed iniziò un movimento di va e vieni solo con la testa. Si scostava quasi fino a far uscire la punta dalle labbra, poi si avvicinava quanto più poteva al mio pube, che toccava con la punta del naso. Le sue guance erano tutte contratte mentre succhiava. Le toccai i capelli, accompagnando i suoi movimenti, ma non riuscii a resistere molto. Avvertii il solito rimescolio nel basso ventre ed il mio vulcano, inattivo per oltre un giorno (fenomeno davvero inusuale, da quando avevo iniziato a conoscere le gioie del sesso) iniziò ad eruttare un fiume di magma bianco e caldo nella bocca di Annette, che, avvertendo i primi schizzi di sbora fermò il suo movimento e si lasciò riempire la bocca dal liquido che a lei piaceva così tanto.
Tenne le labbra strette attorno al mio pisello, in modo da non farsene sfuggire nemmeno una goccia, aspettando che il mio orgasmo avesse termine, mentre rigirava la lingua intorno al glande. Ma nemmeno allora staccò la sua bocca dal pisello: aspettò che tutto fosse abbondantemente finito e che la mia asta cominciasse a mostrare i primi segni di rilassamento, poi, sempre tenendo strette le labbra attorno alla punta, la fece scivolare fuori con un leggero “pop”, perché continuava a succhiare le ultime gocce. Infatti la punta era completamente asciutta, mi aveva risucchiato tutto!
Con un sorriso, Annette aprì la bocca per farmi vedere cosa aveva dentro: era piena del mio liquido bianco, che lei si faceva girare in bocca, muovendo la lingua. Era tanto, perché lei era costretta a tenere il capo leggermente rialzato per non farne uscire fuori nemmeno una goccia. Se lo giocava nella bocca come se fosse un liquore prelibato, del quale stava assaporando il sapore e la fragranza. Poi chiuse la bocca, mi guardò… e lo ingoiò, facendomi partecipe della sua espressione di godimento.
Mi aveva sempre confessato di andare matta per la mia sbora. Ne deglutì parecchi sorsi, poi riaprì la bocca per farmi vedere che era completamente vuota e mi sorrise.
Questi suoi comportamenti mi facevano andare via di testa, ma fui richiamato presto alla realtà da uno sbandamento della barca che mandò Annette sulla cuccetta e me a sbattere contro la paratia: nel vortice della eccitazione non mi ero reso conto che il rollio della barca era aumentato enormemente. Sia i nostri movimenti frenetici, sia la “distrazione” provocata dalle capacità ingurgitative di Annette mi avevano fatto dimenticare il problema principale per il quale ero sceso sottocoperta.
Ci misi qualche attimo a riprendere la padronanza di me stesso, baciai Annette, ringraziandola per l’ennesimo momento di follia che avevamo trascorso insieme e corsi fuori dalla cabina. In quel momento vidi che la nonna, mamma, le zie e le mie sorelle scendevano in coperta: erano completamente bagnate. Mi precipitai su per la scala che portava sul ponte. Mi mantenevo a stento al corrimano, tanto forte era il rollio della barca. Aprii la porta che dava sul ponte e fui sommerso da un mare di acqua che mi infradiciò completamente. Il ponte era quasi completamente al buio.
Appena uscito mi resi conto di aver lasciato il giubbetto di salvataggio nella cabina di Annette: non avevo fatto in tempo ad indossarlo perché Annette mi aveva trascinato subito dentro. Ridiscesi la scala e con la stessa velocità la risalii con indosso il giubbetto. Quando uscii nuovamente sul ponte fui accolto da una visione apocalittica. Nonostante fosse pomeriggio, il cielo era nero e le uniche luci erano costituite dai lampi che si susseguivano in sequenza ravvicinata. Mio padre era al timone con zio Marcel accanto ed entrambi si reggevano a stento. Mio padre volse lo sguardo verso di me: era visibilmente preoccupato. Mi rivolse la parola, ma le raffiche di vento impedirono che la sua voce giungesse sino a me. Mi avvicinai, reggendomi ai corrimano del parapetto.
“Avrei dovuto ascoltarti, figliolo!” mi gridò mio padre, nonostante fossimo vicini. “Non avremmo dovuto lasciare il porto. Ora siamo lontani da qualsiasi terra ferma e la corrente ci sta trascinando via. Per fortuna le apparecchiature funzionano ed ho provveduto a lanciare un S.O.S., ma soltanto un pazzo proverebbe a venire in nostro soccorso con questo mare”.
Infatti il mare pareva ingrossarsi ogni momento di più: onde sempre più altre si infrangevano contro le fiancate della nostra barca, che pareva essere completamente in balìa di quell’oceano in tempesta. Tuoni e fulmini si susseguivano in continuazione squarciando il buio di quel pomeriggio che rassomigliava sempre più ad una notte senza luna. Nonostante fossimo al riparo della cabina di pilotaggio, peraltro chiusa soltanto sul davanti e sui lati, gli scrosci di acqua ci inzuppavano i vestiti.
Infatti, tra il mare e la pioggia, sembrava che uno strano ed incazzato dio Nettuno si divertisse a scaricare contro di noi immense secchiate di acqua fredda. La barca sembrava essere diventata un guscio di noce alla deriva. La potenza dei motori riusciva a malapena a tenerla diritta, mentre il mare la sballottava a destra e a sinistra come se non avesse peso.
Guardavo con terrore le onde, sempre più alte, che si abbattevano su di noi. Avevo provveduto a chiudere ermeticamente la porta della scala di accesso alle cabine e pensavo che se il mare avesse cominciato a penetrare sottocoperta la barca avrebbe potuto affondare. Meno male che mio padre ci aveva assicurato che l’imbarcazione avrebbe potuto affrontare qualsiasi tempesta, ma quella che stavamo attraversando non era una tempesta, bensì un uragano tropicale, uno di quelli che nascono improvvisamente e lasciano dietro di sé morte e distruzione.
Fine Capitolo 10
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