incesto
Le vacanze di René - 7
di July64
04.05.2017 |
15.463 |
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"La primavera tropicale ci solleticava la pelle con la sua calda carezza, il sole era caldo, ma non insopportabile, e pregustavo un bagno in quel mare..."
Le vacanze di René - parte settimaMio padre accese i motori e li lasciò girare al minimo per farli riscaldare. Poi, come di consueto, mi occupai con zio Marcel di mollare gli ormeggi. Quando la barca fu libera mio padre, che era già al timone, diede gas leggermente e si discostò dal pontile. La prua si sollevò e la barca si diresse verso il mare aperto. Mio padre decise di fare il giro dell’isola per portarsi, stavolta per mare, verso il villaggio dove eravamo stati ospiti la notte precedente, che era visibile, ma non accessibile dal mare. Giunti in vista del villaggio mio padre rallentò e puntò la prua verso la riva. Si scorgevano distintamente le capanne con i tetti di foglie di palma e lo spiazzo che ci aveva ospitato. Ma strategicamente gli isolani avevano collocato il villaggio in una zona inaccessibile dal mare, in quanto protetta da una parete non alta, ma completamente liscia e perpendicolare alla riva, difficilmente scalabile di nascosto da chi potesse avere cattive intenzioni. Anche se non era terra di pirati, non si poteva mai sapere, la Malesia non era lontanissima...
Attirati dal rumore della barca gli isolani si affacciarono sul terrazzo naturale, ci scorsero, ci riconobbero e ricambiarono i cenni cordiali di saluto che indirizzavamo loro dalla barca. Ad un cenno del capo villaggio, si riunirono sul ciglio del dirupo per salutarci. Erano stati affettuosi come pochi. Il loro ricordo non ci avrebbe abbandonato mai, in ogni senso. Annette, Edith e zia Juliette, in particolare, si affacciarono alla murata della barca per cercare di scorgere i muscolosi isolani che ci avevano offerto quello spettacolo così straordinario ed una volta riconosciutili lanciavano loro dei saluti calorosissimi, sbracciandosi a più non posso. Io immaginavo che cosa avrebbero fatto anche ad uno soltanto di loro, se solo avessero potuto averlo tra le mani…
La giornata era, come al solito, splendida. La primavera tropicale ci solleticava la pelle con la sua calda carezza, il sole era caldo, ma non insopportabile, e pregustavo un bagno in quel mare tiepido e cristallino. Navigammo per tutta la mattina e la barca si comportò davvero bene: solcava le onde che appena increspavano il mare, sotto la spinta della brezza leggera.
I miei familiari si dedicarono alle attività preferite: le donne a prendere il sole, zio Marcel e nonno André giocavano a carte, mio padre pilotava la barca ed io svolgevo i miei compiti di navigatore, controllavo la rotta che mio padre aveva comunicato e lo avvertivo di ogni scostamento. Ma la cosa che mi divertiva di più era osservare il profilo dei fondali che veniva disegnato sullo schermo dell’ecoscandaglio a mano a mano che la barca procedeva sul mare. Potevo notare l’andamento del fondo, generalmente piatto, ma talvolta interrotto da piccoli rilievi e, soprattutto, il passaggio di branchi di pesci, che venivano indicati sul video proprio da piccole sagome di pesci, generate dai cristalli liquidi dello schermo. Qualche volta lo schermo veniva attraversato da pesci di dimensioni ragguardevoli, che identificavo senza alcun dubbio come squali o barracuda.
Ragazzi, mi dicevo, chi poteva essere più felice di me! Un posto paradisiaco, in compagnia delle persone che amavo di più al mondo, una vita sessuale straordinariamente intensa ed avevo appena uno sbarbatello! Se lo avessi raccontato ai miei amici non mi avrebbero mai creduto.
Viaggiammo per tutta la giornata. Mio padre ed io ci demmo più volte il cambio alla guida della barca, incrociammo le solite barche di pescatori maori con i bilancieri e da una di queste acquistammo del pesce appena pescato, che Annette e Edith si offrirono di cucinare. Infatti, nonostante avessimo in barca una dispensa piena di cibo, era certamente più gustoso mangiare pesce fresco.
Passammo nelle vicinanze di atolli pieni di vegetazione, ma apparentemente deserti, e di isolotti pieni di capanne e di attrezzature ricettive. Ma nessuna di esse era ricompresa nel nostro itinerario; infatti, la nostra meta era un isolotto nell’arcipelago delle Tuamotu, nei pressi dell’isola di Rangiroa, ma meno frequentato, famoso per la raccolta delle ostriche.
Vi giungemmo nel pomeriggio. Anche in quest’isola, come nella precedente, era stato realizzato un pontile in legno, comodissimo per l’attracco, anche di grosse imbarcazioni. Ed anche lì, come nell’isola precedente, il comitato di accoglienza fu dei più gradevoli. Bellissime ragazze, di età indefinibile, ma certamente adolescenti, con un sorriso cordiale che mostrava una dentatura candida, ci accolsero cingendoci il collo con le classiche coroncine di fiori variopinti.
Nonostante la ripetitività del rituale, non ero affatto annoiato: le ragazze erano splendide e sorridenti e mi cinguettavano intorno come colibrì attorno ad un cespuglio di fiori. Per fortuna anche con loro riuscivamo a comprenderci. Ringraziai muto la politica colonialista francese che per secoli aveva diffuso la nostra cultura e la nostra lingua in tutto il continente australe e non solo lì.
Accompagnandoci come in processione, le ragazze ci condussero al villaggio, questa volta più vicino del precedente al pontile di attracco. Anche questo insediamento indigeno aveva la struttura per così dire urbanistica identica al villaggio precedente: grande radura e capanne con tetto di foglie di palma, la più grande delle quali riservata al capo.
Giunti nella radura, sempre accompagnati dal comitato di accoglienza, vi trovammo schierati, appena un passo dietro al capo villaggio, coloro che apparivano i notabili. Molti indossavano vesti sgargianti, evidentemente segno del rango, ed apparivano sinceramente contenti ed interessati per la nostra visita. Il capo si presentò stringendo la mano a tutti e poi portando le mani incrociate al petto, seguite da un inchino, in onore di ciascuno di noi.
Poi ci presentò i suoi famigliari, sua moglie, una polinesiana bruna ed affascinante, diversa dalle altre che avevo visto, molto più distinta, e ci fece visitare il villaggio, che mi accorsi era più grande di quello che appariva a prima vista. Ma la cosa che mi sorprese davvero era l’organizzazione democratica perfetta in cui era strutturato il villaggio. La capanna più grande, che avevo identificato come la capanna riservata al capo, in realtà era l’ambiente riservato alle riunioni, nel quale si assumevano, con rigorosa maggioranza, le decisioni più importanti per la vita e l’economia del villaggio. Dimenticate ormai da anni le incursioni dei pirati, che avrebbero giustificato riunioni a fini di sicurezza, la capanna era divenuta la sede amministrativa del paese e, quando non vi erano decisioni da prendere, un semplice luogo di ritrovo privilegiato per gli abitanti, il posto ideale per tenere feste e celebrare cerimonie.
Anche in occasione di questa visita potei apprezzare l’elevatissimo grado di cultura del capo villaggio, che parlava un perfetto francese, verosimilmente acquisito all’università della Sorbonne ed era dotato di un carisma notevole nei confronti dei suoi sudditi. La sua serenità e la sua forza sorridente mi fecero ricordare un famoso film con John Wayne e Lee Marvin: “I quattro della croce del Sud”. Si respirava la medesima atmosfera di regalità e di gioia del film.
Approfondendo la conoscenza, infatti, il capo rivelò a me ed ai miei che sua moglie era la discendente dell’ultima regina Maori. Ecco perché sin da quando l’avevo vista per la prima volta non mi era parsa una semplice popolana. L’aura di regalità che la circondava la collocava in una posizione del tutto diversa rispetto a quella degli altri. Il capo, che mi aveva preso davvero in simpatia, mi confessò che pur non essendo egli un discendente di re era entrato nelle grazie della principessa, la quale aveva acconsentito di sposarlo per le sue doti di condottiero e di medico. Infatti il capo aveva spiccate doti di sciamano, curava gli abitanti del villaggio e chiunque avesse richiesto il suo intervento, anche gli abitanti delle isole vicine.
In realtà, ci disse con un sorriso, aveva studiato prima a Parigi, poi all’università di Sydney ed era realmente laureato in medicina. Così erano in tanti a venire a trovarlo. Lui si era dedicato soprattutto alla medicina naturale, conosceva le proprietà di tutte le erbe che crescevano nell’isola e praticamente non aveva bisogno di farmaci prodotti chimicamente. Incredibile: un medico omeopata in Polinesia!
Solo in casi estremi decideva di chiamare per radio il soccorso sanitario ed una eli–ambulanza veniva a prelevare l’ammalato per portarlo in ospedale a Papeete o a Rangiroa.
Esauriti i convenevoli di accoglienza, il capo ci invitò ad un rinfresco, che per l’occasione fu preparato appunto nella grande capanna, in nostro onore. Sembrava che gli isolani ci stessero aspettando da giorni, avuto riguardo al cerimoniale di benvenuto, e ci misero un attimo ad imbandire una enorme tavola ricolma di cibi, soprattutto pesce, frutti di mare e frutta. Facevano bella mostra di sé delle enormi ostriche dall’aria estremamente appetitosa. Il capo ci invitò ad accomodarci ed offrendoci, appunto, la specialità dell’isola, ci chiese se fossimo interessati a pescare di persona delle ostriche, oltre che per il piacere di una immersione in acque non molto profonde, anche per la possibile, gradevole sorpresa, di trovarvi dentro una perla. Non c’è bisogno di indovinare chi accettò e con tale entusiasmo che il capo, con un sorriso, mi invitò almeno a terminare il pranzo. Poi, mi disse, mi avrebbe fatto accompagnare da alcune delle sue più brave pescatrici di ostriche.
La delizia più gradita che il capo ci offrì, oltre a tutto il ben di dio messo a nostra disposizione, fu una bevanda freschissima, una specie di cocktail che sembrava essere composto da latte di cocco, erbe ed altri aromi deliziosamente dissetanti e soprattutto molto digestiva. Era davvero un mago con le erbe. Mi ripromisi di farmi dare la ricetta, ma poi mi resi conto che in Francia sarebbe stato difficile prepararlo, per l'impossibilità di reperire tutti gli ingredienti.
Terminato il rinfresco, non mi feci sfuggire l’occasione di approfittare dell’invito del capo alla raccolta delle ostriche. Con un grande sorriso, che evidenziava il compiacimento per aver accolto il suggerimento, il capo sollecitò un gruppo di ragazze, bellissime, tra le quali mi sforzavo di riconoscere quelle che ci avevano accolto al nostro arrivo, a prepararsi. Io avevo già il costume da bagno (che costituiva praticamente il mio indumento principale, anzi unico), feci una corsa verso la barca per procurarmi la mia attrezzatura da sub (pinne, maschera e boccaglio) e mi accinsi a seguire il gruppo, che, mentre si preparava a raggiungere la spiaggia, si ingrossava sempre più, con l’aggiunta di altri componenti, ragazze e ragazzi.
Anche le mie zie, in particolare zia Juliette, si mostravano interessate alla battuta di pesca. Alla fine il gruppo, abbastanza nutrito (della mia famiglia, oltre me c’erano zia Juliette e zia Jeneviève, zio Marcel e Annette, mentre tutti gli altri avevano preferito rimanere al villaggio per chiacchierare con il capo e con sua moglie), raggiunse la spiaggia con sabbia candida e mare chiarissimo, palme da cocco che si protendevano verso il mare, piantate dalla natura sin sulla riva, quasi come ombrelloni naturali.
Ci tuffammo nell’acqua tiepida, che si mantenne bassa, alle ginocchia, sino a quando raggiungemmo una scogliera appena affiorante. Al di là della barriera di scogli il colore del mare virò improvvisamente verso l’azzurro cupo, segno di una diversa profondità. Le ragazze ed i ragazzi dell’isola, che al contrario di me non avevano attrezzature da sub, ci indicarono che era quello il posto per immergerci.
Con la stessa leggerezza degli uccelli marini che si tuffano per pescare, gli isolani si immersero nell’acqua limpida e calda; io lo feci con meno garbo, spargendo tutt’intorno gli schizzi provocati dal mio tuffo e… cambiai dimensione. Mi trovai improvvisamente in un acquario, con tutti i pesci tropicali che potevano ritrovarsi in un manuale di ittiologia: pesci palla, pesci Napoleone, pomodori di mare, oloturie, quegli strani esemplari che assomigliavano ad un grosso pisello e che avevano la capacità di lasciar partire di colpo, fuori del corpo, il proprio apparato digerente, proprio come un violento schizzo di sbora… solo se strizzati un pochino tra le mani. Che similitudine!
Fine Capitolo 7
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Vi invitiamo comunque a segnalarci i racconti che pensate non debbano essere pubblicati, sarà nostra premura riesaminare questo racconto.
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