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Gay & Bisex

SOUL & BLUES


di Parcifal
21.03.2022    |    3.385    |    16 8.1
"Quando ancora sognava un futuro..."
“Baby, I’ve been here before.
I know this room, I’ve walked this floor.
I used to live alone before I knew you.
I’ve seen your flag on the marble arch,
But (listen) love is not some kind of victory march,
No, it’s a cold and it’s a very broken Hallelujah” (L. Cohen)


Il piatto vibrava, la viola panciuta segnava il ritmo, sax e clarinetto battagliavano languidamente, il violino sussurrava melanconico.
Era un improbabile quintetto ma queste dissonanze trovavano casa negli animi degli avventori del piccolo pianobar.
Una clientela rada, profani ed intenditori ammaliati da un suono così dolce da essere crudele, vero come la vita.
Ritrovo di solitudini imperfette, il locale non poteva ospitare più di una ventina di persone di cui solo alcuni erano clienti abituali.
Abituali temporanei poiché la spietatezza del vivere era mitigata da gioie repentine ed effimere, sirene mendaci promettevano il conforto di un abbraccio che non si serrava mai davvero.

Solo un uomo poteva definirsi un habitué. Alto, portamento fiero, ordinava sempre un Genever. Si sedeva in ombra, discostato dal palco finanche da se stesso, sorseggiando lentamente.
Non parlava mai, nessuna confidenza spicciola o diluvio dell’anima, si limitava ad indicare il distillato olandese, fare cenno al tavolo e diventarne lui stesso una suppellettile.

Rimaneva vivo solo lo sguardo, pudico, quasi vergognoso nel suo bisogno. Focalizzato sul quintetto, si perdeva nelle nebbie dei suoi pensieri man mano che le note diventavano balsamo, lenendo quelle ferite invisibili ma feroci che ci spezzano nello spirito.
La musica lo portava altrove, oltre il tempo e lo spazio, quando tutto era lieve, intonso. Quando ancora sognava un futuro.
Finito il concerto si alzava, con pochi gesti parsimoniosi riponeva la sedia sotto al tavolo e se ne andava. Dalle ombre della sala alle ombre della notte.
Solo. Sempre.

Ogni sera ritornava in quello che ormai considerava un santuario, gli stessi gesti, gli stessi silenzi.
Lo spartito volubile e immutabile dell’animo umano lo accoglieva, eseguito con impietosa perizia dalla band.
La musica lo animava, gli ricordava che il suo cuore batteva non solo per moto involontario e che la vita non era mero lasciarsi esistere ma insopprimibile desiderio.
Desiderio vorace di un corpo caldo a cui aggrapparsi, fame di baci, carezze, dell’estasi.
La musica batteva nelle vene, irradiando nel suo corpo, rinfocolando la brama di un contatto che scacciasse l’angoscioso vuoto che lo abitava.

Rabdomante delle solitudini altrui, ritrovava fra il pubblico chi aveva nello sguardo la stessa disperazione.
Alzava il bicchiere in un silenzioso invito, si abbandonava alla musica e se ne andava.
Solo.

Sotto i portici, nell’umidità notturna, sapeva che sebbene fugacemente avrebbe placato il bisogno dilaniante.
Si univano ai suoi altri passi, l’invito era stato colto, una figura maschile gli si affiancava. Solitudini che si incontravano e si univano.
Proseguivano nel silenzio fino alla casa dell’uomo.

Lo sapevano entrambi. Non si trattava di un anonimo pompino in un bagno qualsiasi o una scopata frettolosa in un parcheggio.
Era la comunione di due animi solitari, di cui fare tesoro e a cui aggrapparsi nel cruccio quotidiano.
L’amore di una vita in una notte.

Non c’era fretta, ogni secondo andava assaporato. Lo sbottonarsi lento del cappotto a rivelare le forme.

Una seduzione accurata, il bisogno reciproco, l’avvicinarsi dei corpi e il mescolarsi dei respiri. Le mani sulla nuca delicate, invitanti. Lo sfiorarsi delle labbra e un primo bacio dal profumo di eterno.
L’urgenza a stento contenuta ma imbrigliata, perché il piacere deve essere centellinato.

L’uomo con garbo guida il compagno di un momento fino alla camera, il silenzio li accompagna.
Nessuna parola, nessuno scambio di nomi. Nessun romanticismo, niente anime gemelle o promesse d’infinito. E’ l’alleviare reciproco di un dolore, stringere forte a se un corpo caldo e non sentirsi abbandonati. Per un breve istante.
Non c’è nessuna battaglia per la supremazia, si baciano ancora, con graffiante tenerezza.
Le mani partono alla scoperta, i vestiti cedono il passo alla nudità. L’imperfezione dei corpi altro non è che lo specchio delle loro solitudini.

Si abbandonano dolcemente, il letto li accoglie. Sfiorare la pelle, veder sbocciare brividi e increspature, inseguirle con la lingua. Delicati ricami umidi, lungo la schiena, nella carne tenera delle cosce. Piccoli morsi, lampi di squisito dolore, ricordo indelebile di un amore transitorio.

Non sono mai sazi di tocchi, carezze. Sono concentrati nel momento presente, nell’infinito battito del cuore, tempo dilatato, con cui fare conoscenza pelle a pelle.
Ogni nervo sollecitato, ogni curva, collina, spigolosità conquistata da dita curiose e labbra morbide.
L’amplesso non è prioritario, lo è il viaggio, la conoscenza attraverso la carne, come se le anime si potessero fondere, il ricongiungimento platonico.

Infine inizia la danza, gemiti, sospiri, sudore. Spinte folli, audaci, violente. Penetrarne il corpo per penetrarne l’anima. Riempire, essere riempito. Non più vuoto. Completezza.

E finalmente l’intimità, quella così scontata e abusata della quotidianità. Si dormono addosso.
Abbracciati, uniti.

L’uomo preparava il caffè, come tutte le mattine, rassicurante routine, attendeva il risveglio dell’amante di una notte. Non sentiva imbarazzo, un tenero calore gli regalava la pace.

Sapeva che non sarebbe durata, l’irrequietezza avrebbe trovato modo di ghermirlo di nuovo, l’angoscia lo avrebbe carpito e la solitudine attendeva in agguato.
Era consapevole che si fosse trattato di un incontro, un secondo nell’infinito, ma non era stata una botta e via. Aveva avuto un significato.
Lo sapeva che non aveva realmente colmato nessun vuoto, si lasciava però cullare dell’effimero tepore di una notte eterna, senza illusione alcuna.

Avevano bevuto il caffè, l’amante se ne era andato. Tutto sarebbe ricominciato, ineluttabilmente.
Incontri frettolosi, sollievi momentanei.
Sulla consolle dell’ingresso un biglietto da visita.


Il piatto vibrava, la viola panciuta segnava il ritmo, sax e clarinetto battagliavano languidamente, il violino sussurrava melanconico.
Era un improbabile quintetto ma queste dissonanze trovavano casa negli animi degli avventori del piccolo pianobar.

Solo un uomo poteva definirsi un habitué. Alto, portamento fiero, ordinava sempre un Genever. Si sedeva in ombra, sorseggiando lentamente nell’attesa di un amante di una notte, un amante per la vita.


“Maybe there’s a God above,
As for me, all I’ve ever seemed to learn from love
Is how to shoot at someone who outdrew you.
Yeah but it’s not a complaint that you hear tonight,
It’s not the laughter of someone who claims to have seen the light
No it’s a cold and it’s a very lonely Hallelujah.” (L. Cohen)
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