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lo stupro dei pescivendoli

04.05.2024 |
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"Su molti di loro la Polizia ha dati incrociati che descrivono attività di furto e ricettazione..."
Il signore in grigio, impiegato comunale. Va al lavoro col suo carico di dolore grigio. Sa che, verso le 11, la moglie lo tradirà, nel suo letto, col barista di fronte, un aitante e palestrato quarantenne, con aria gay, che lo saluta con rispetto ipocrita quando passa a prendere il consueto caffè e vorrebbe che fossero almeno amici, visto che lui si fa la sua donna, ma l'altro rimane freddo. Mentre scende le scale ripensa a che ora lo farà, sa che lo farà quasi certamente nel suo letto, sa che non deve parlarne, sa che il figlio deride i valori nei quali egli dice di credere, sa che le sue parole sono buone solo con qualche amico alle soglie come lui della pensione, a commentare le partite e la virilità dei giocatori. Sa che il suo stipendio è tutto quello che interessa la moglie, in piena discesa nell’abisso della donna che sente sfuggirle la vita. Sa che pretende, con le buone o le cattive, che siano rispettare certe apparenze di normalità, all’ombra delle quali fare le sue piccole trasgressioni, iniziate assieme ma dalla quale ad un certo punto lei lo ha estromesso, godendo del suo disappunto quando alludeva ai suoi amanti, facendolo sentire un insignificante cornuto. Sa che l’espressione della sua gelosia, ultimo residuo di un amore ormai in cenere, viene punita duramente dalla moglie al solo sospetto. Quando trova tracce, non sa di chi, guarda altrove e non dice nulla. Pensa che la realtà della sua vita è divenuta tanto noiosa che non sa più che vive a fare, mentre è sulla via del ritorno, dopo una giornata grigia, con largo anticipo sulla fine dell'orario.Il suo lavoro consiste nel redigere un rapporto mensile sulle cervellotiche disposizioni impartite dai dirigenti per regolamentare uscite ed entrate del personale, degne di una commedia kafkiana e, si sospetta, volutamente inapplicabili. Dovrebbe cronometrare i tempi di spostamento fra le diverse sedi, disporre telecamere, verificare il funzionamento degli apparati di controllo, spesso messi fuori uso da un chewingum o qualche biglietto dell’autobus piegato e infilato a forza nella fessura del marcatempo. E’, insomma, una specie di ispettore. E’ lui che, sulla carta, dovrebbe garantire il funzionamento dei marcatempo ai bar interni nelle sedi di viale Aldo Moro 50 e 21; effettuare controlli casuali per verificare l’effettiva rispondenza fra timbrature e presenza al lavoro; stabilire i tempi massimi per gli spostamenti fra varie sedi; stampare i moduli che devono essere presentati, firmati dal dirigente, ad ogni uscita o ingresso; ritirarli e controllarli regolarmente; infine è il suo ufficio, costituito da lui e da due impiegate che passano il tempo a fare, fra loro e al telefono, pettegolezzi che scorticherebbero un coccodrillo, che effettua il computo delle pause utilizzate e no, secondo un insieme bizantino di minuti, recuperi a a fine turno, premi di produzione, causali barocche che incidono sul montante annuo di 36 ore di permesso, e distribuisce i recuperi. Tutti gli testimoniano una amicizia sempre un po’ sopra le righe e gli sono grati di esercitare questo regime burocratico di controlli una notevole dose di approssimazione. Va tutto bene, ma il rovescio della medaglia è che se gli assenteisti si fanno beccare, è lui che ci andrà di mezzo, se ai controllori del controllore risulteranno controlli omessi. Quindi vige, in parallelo alle regole dichiarate, un codice d’onore degli assenteisti (la totalità del personale comunale) che consiste nell’ opporre un muro di gomma a qualsiasi altra ingerenza nel loro assenteismo. Quando il signore in grigio interviene, è solo per interrompere gli abusi più spudorati con il consenso degli altri. Ma per il resto sa di poter lasciare tranquillamente correre.
Ora gli hanno assegnato una nuova responsabilità, che consiste nel convalidare i dati sanitari degli artisti di strada autorizzati ad esibirsi in piazza, secondo una disposizione adottata di recente dal Consiglio Comunale. Deve verificare che chi ha passato l’esame della nuova commissione per cantare in pubblico, formata da 2 insegnanti in pensione, uno "cattolico", uno "comunista" e un funzionario comunale (quindi dalla parte del comunista ma pronto al compromesso con l’altro), non abbia la tisi, e che non sia “uno stronzo", definizione che non può essere motivo di esclusione per motivi costituzionali, come dice sempre il suo dirigente ammiccando, mormorando a mezza voce che “’gli stronzi sono sempre e solo grane" e facendo capire che avrebbe apprezzato che il nullaosta sanitario fosse loro negato con qualche pretesto. Il “Regolamento in materia di Artisti di Strada“, che pare scritto da Cesare Beccaria in persona, non lo autorizza a farlo. Sta dunque al signore in grigio trovare qualche scusa: questo è lo spazio per i suoi abusi di ufficio.
I candidati arrivano al tardo pomeriggio, su appuntamento. Di solito hanno già portato i certificati richiesti. Il signore in grigio verifica tutto. Quando il nulla osta sanitario è concesso, estrae dalla cartellina dell’artista la licenza comunale e vi appone il timbro a due colori del nullaosta sanitario, ben sapendo che è l’ultimo atto della procedura. Il signore in grigio prende tutto il tempo necessario, con l’artista davanti. Quando il nulla osta sanitario non è concesso i candidati di solito protestano e lui rimane immobile e grigio come una pietra, non apre la cartellina, a volte si diverte a fornire scuse chiaramente inventate. Indica sulla mappa alla parete i perimetri delle due aree periferiche dove non si possono esibire, in attesa di avere le carte in regola. E il momento in cui allunga le mani e l'ultime per una donna di ottenere il riesame, si solito immediato, della sua pratica. Altrimenti le invita ad uscire.
All’inizio era stato un po' scrupoloso, poi ebbe una affaire con una suonatrice di chitarra acustica, che un giorno scomparve come era apparsa. La tresca non era stata resa nota da lui stesso, ma era stata prontamente raccontata dalle sue segretarie. Gli altri impiegati, compreso il dirigente, che li avevano visti insieme in un locale in via Nazario Sauro, avevano fatto qualche battuta, ma niente di più.
Così si era sparsa la voce che il nullaosta era meglio chiederlo prima, e questo gli dà motivo di vedere gli artisti almeno due volte. Qualche volta si becca qualche bella puncicata, specie se ha a che fare con donne che sanno difendersi dai tentativi di indurle a concedere qualche favore sessuale. A volte, quando si rende conto di avere davanti un soggetto fragile, suggerisce visite di psicologi e altri medici. Con uno di loro, uno psicologo di qualche anno più vecchio di lui, è entrato in confidenza. Sono diventati amici quando aveva revocato il permesso ad un madonnaro austriaco completamente asociale, che aveva preso a male parole lui e il dirigente e poi aveva fatto tutti i ricorsi possibili, arrivando fino alla Commissione Europea dei Diritti dell’Uomo, senza ottenere nulla. Il tipico “stronzo”, nel linguaggio dell’ufficio. Con l’andare degli anni inventò modi di approccio più morbidi, con i quali aveva potuto comporre un suo rosario di avventurette che potevano bilanciare almeno nella sua fantasia le sconcezze che la moglie si faceva fare dai suoi drudi. Accadde poi che una delle sue “vittime”, una arpista polacca cui erano rimasti sei denti, lo riconobbe in un ristorante e lo rimproverò pubblicamente della sua condotta usando le parole più volgari che conosceva e altre incomprensibili, certo non amichevoli, espressioni in polacco, come schiocchi di serpe, e tirandogli in faccia un paio di mutande sporche e altri oggetti osceni che, chissà come, aveva nella borsa. Erano ancora i tempi che scopava la moglie. Erano usciti con una coppia di amici scambisti e, dopo l’interruzione, la serata finì a casa loro, tutti un po’ sopra le righe in seguito all’accaduto e al pignoletto. Le donne, toccate ambedue dalla pinguedine, ammanettate fra loro e alla testiera del letto, con addosso redini, collari e altri finimenti di cuoio nero, calze a rete da cui sporgevano pieghe grasse e vulve rasate, mormoravano ridacchiando gli stessi insulti sentiti al ristorante, annusavano come cagne le mutande che sua moglie non aveva mancato di raccogliere da terra e infilare in borsa, mugolavano, grugnivano, gridavano con accenti rauchi parole simili gli insulti sentiti dalla polacca e stanchi orgasmi si succedevano.
Il giorno dopo non sfuggì a nessuno, sulla cronaca locale de Il Resto del Carlino, che l’arpista, tre ore dopo, si era impiccata ad un gancio di un trave nel soffitto di una stanza fatiscente dove un prete le aveva permesso di rifugiarsi. Lui si preoccupò di essere riconosciuto in qualche modo responsabile dell’accaduto, dato che in quella stanza c’erano di sicuro sue tracce. Chiese allo psicologo, occasionale compagno di un po’ troppe merende, di inserire una annotazione di “anamnesi familiare positiva a disturbo bipolare. Alcuni familiari con tentativi di suicidio, non riscontrabili nel soggetto, che si presenta senza sintomi” nel suo dossier, retrodatandola, come aveva fatto lui altre volte per creare un problema che lo psicologo potesse risolvere, e dargli occasione di intrattenersi a lungo con la persona interessata. In questo modo avevano potuto “fare un favore” all' arpista polacca, che nel tempo libero ricambiava con lo psicologo, uomo basso e pelato, con un ventre tondo e una barba curatissima, pizzicando il suo nervo e traendo qualche rantolo dal quel corpo di sessantenne.
I documenti, rivisti infinite volte dai due compari per renderli perfettamente coerenti, vennero acquisiti dagli inquirenti e il caso fu chiuso in tre giorni. Venne un ispettore in borghese a raccogliere gli elementi del caso, acquisì il nullaosta, chiuse la cartellina e rimase per un momento in silenzio. Poi disse col tono di un ordine alle persone presenti, le due impiegate: “Favorite lasciarci soli". Quando furono uscite, rimase a guardarlo in silenzio per tre quattro lunghissimi minuti, prevenendo con un gesto della mano le occhiate interrogative dell’uomo in grigio, come significando che non ci fosse nulla da dire, tirò fuori una pipa, riempì il fornello, la accese e tirò un paio di boccate, soffiandolo in faccia all'uomo in grigio. La stanza si riempì di fumo. Poi si alzò, aprì la porta, salutò le segretarie, si voltò a dare una ultima occhiata al signore in grigio, e andò via. Da allora gli antichi compagni di merende si fecero più cauti, preferendo le note squillo a pagamento. L’interesse privato negli atti di ufficio si limitò a mettersi in tasca qualche buona stecca solo quando lo si poteva fare in tutta tranquillità e poi, con altrettanta tranquillità, forse troppa, andarla a regalare alle solite puttane. Il resto del tempo in ufficio, dove ha una stanza da solo, lo passa guardando siti porno e ha imparato a masturbarsi un cazzo che pare ridotto di misure e ormai non diventa più duro. La vita era tornata ancora più grigia e noiosa.
…
In ufficio un collega gli permette di imboscarsi dicendo al telefono che è "in riunione”. Gironzolando senza meta si trova coinvolto in un assembramento di gente eccitata. Incuriosito, vuole sapere il motivo e apprende che poco prima c'è stata una rapina.
Quattro delinquenti avevano fatto il piano di entrare dalla porta di dietro della grande salumeria Tamburini, in una zona centrale di Bologna. Alcuni pali della famiglia gironzolavano per sorvegliare le vie di fuga e a dare segnali convenzionali di via libera o di pericolo, dato che non si poteva scappare che a piedi nell’isola pedonale.
I rapinatori avevano acquistato una pistoletta, ora in libera vendita, di quelle che spruzzano liquido al peperoncino. Il piano era: uno di loro avrebbe spruzzato il liquido urticante ad un cliente qualsiasi, senza che questi se ne accorgesse. Nella confusione seguente altri due avrebbero arraffato il cassetto della cassa, di solito tenuta da una donna, fatto i cinque metri che separano la cassa dalla porta su via Mercerie e sarebbero spariti nella folla, per una delle tre vie di fuga possibili, aiutati dai pali con i loro segnali convenzionali. Ora: due ore prima della chiusura, un quarto d’ora del passaggio del portavalori che ritirava l'incasso. Bottino previsto: 6-7.000 euro, non di più.
Si tratta di Rom, del noto clan Zaziki, nomade ma originario della provincia di Cluj, Romania. Su molti di loro la Polizia ha dati incrociati che descrivono attività di furto e ricettazione. Agiscono secondo loro regole precise e non derogabili, di solito in coppia: uno ruba con destrezza, per esempio sugli autobus, l'altro distrae il pubblico o lo copre. I quattro hanno fra i 22 e i 54 anni. Quando arrivano sul luogo della progettata rapina uno solo è armato, di coltello a scatto con una lama lunga cm 18. E' il più anziano, Petri Khron, di 54 anni. Lui ha una figura repellente, una enorme faccia con un labbro leporino aggiustato male e una larga voglia viola intorno ad un occhio. La gente per questo, quando lo vede, torna a guardarlo e lui lo sa. Lavora in coppia con Ivo, un nipote, che mentre sugli autobus lui canta e chiede l’elemosina alleggerisce le borse delle signore distratte e impietosite dal mostro. Non sa perché ha portato il coltello. Quando è venuta l’ora di “lavorare” stava mangiando pane e formaggio nella sua vecchia Mercedes bianca, con oltre 900.000 chilometri, e il coltello lo aveva in mano per questo. Se lo è messo in tasca senza pensarci e, quando per strada si è accorto di averlo, ha pensato che sarebbe stato meglio liberarsene, ma anche che poteva essere utile a distrarre chiunque si fosse accorto che i due uomini in camice marrone, che camminano pochi metri più avanti, suo cugino e suo nipote, non sono addetti al trasporto di mortadelle come farebbe pensare l’insegna sulle loro spalle.
Ci fu, però, un imprevisto. Mezz'ora ora prima il personale di Tamburini aveva sventato il furto di due piccole mortadelle da 600 grammi ciascuna, tentato da signora insospettabile, italiana, della categoria cosiddetta dei “nuovi poveri”. La donna, sui 40, era stata notata, fermata e perquisita all'uscita. Alta di statura, elegante e un po’ maschile, aveva indossato un reggiseno di sua madre, indumento che di solito non usa dato che il suo seno, ben disegnato ma quasi inesistente, non supera la seconda misura, quantunque avesse fatto benissimo il suo lavoro quanto si era trattato di allattare la figlia che ora aveva quattro anni e la aspettava a casa, si era portata le mortadelle in bagno, le aveva montate nelle enormi coppe, aveva rimesso su di esse la stessa maglia di cachemire beige a collo alto, si era guardata allo specchio e si era sorrisa, vedendosi dotata di quello che a volte aveva invidiato alle amiche. Si chiese se non era l’ idea di avere un seno diverso quello che l’aveva spinta in quell’avventura. Si trovò bella, come sempre. Sapeva bene di essere bella. Ne aveva avuto tante prove, tanto che verso i 22 anni aveva cominciato a fare amicizia solo con quelli che trovava indifferenti. Così aveva avuto le sue avventure, vincendo presto il primo premio: un marito brillante, una bella casa, una gravidanza che aveva affrontato con gioia e portato a termine con tutte le cure che aveva potuto immaginare. Si sorrise di nuovo, chiuse la luce, uscì dalla toilette e si mosse come se niente fosse fra il bancone del self service e il negozio, verso la porta d'uscita. Ma uno dei camerieri l’aveva osservata al suo arrivo un po’ più del necessario. Poco dopo l’aveva vista uscire dal bagno con un seno cresciuto di quattro misure, aveva fatto un segnale all’agente della sicurezza in servizio, che si era andato ad appostare fuori dal locale. Una preda così non capita tutti i giorni. Sulle prime, la signora aveva tentato di allontanarsi con albagìa, tanto che la sicurezza aveva ritenuto necessario trattenerla in una colluttazione che tutti i passanti si erano fermati divertiti a guardare e durante la quale la donna era era caduta fra i banchi di ghiaccio della vicina pescheria, dove stata spogliata in pubblico dall’uomo della sicurezza e tre camerieri. Era stata palpata dappertutto e le mortadelle erano venute fuori. Lei si sentiva come se l'avessero stuprata in gruppo. Uno dei camerieri, un rozzo siciliano di Caltagirone, aveva perfino proposto ai colleghi di portarla di là per "vedere se aveva nascosto qualcosa sotto" ma la giovane commessa di un vicino negozio di souvenir, una che conosceva tutta la strada, lo aveva zittito con due parole secche e aveva assunto il controllo della situazione, prendendo la donna per un braccio e dicendo forte di chiamare la polizia. Poi la portò nell'ufficio all'interno del locale dove era avvenuto il furto e dove era conosciuta, e chiuse la porta a chiave. Fu silenzio. La donna era tutta tremante.
"E adesso cosa succede?
-Niente, lasci che si calmino là fuori, non sanno quello che fanno. Sistemiamo tutto, non si preoccupi". I vestiti erano bagnati e in qualche punto strappati. Aiutandola a rimetterli, a commessa era colpita dalla bellezza e dall'eleganza naturale della sua nuova conoscenza, le toccò la una spalla poi, tenendo in mano il reggipetto nero enorme, le si avvicinò, le toccò un seno con l'altra e sussurrò: "Ma come le è venuto in mente?" La donna la guardò, disse qualche frase sconnessa e e si sciolse in lacrime. Restarono per un momento senza dirsi niente, poi la donna si sollevò il maglione beige e le fece vedere la sua seconda misura. Si sorrisero. La commessa lasciò cadere il reggipetto enorme e l'abbracciò come una bambina. "Come ti è venuto in mente?" ripeté toccandole di nuovo il seno sul capezzolo con due dita, mentre sentiva l'odore del suo alito e che il suo seno e il suo sesso erano diventati improvvisamente sensibili. Ma la donna era frastornata e la commessa lo capì. La accarezzò per rassicurarla come può fare una maestra con una bambina che ne ha fatta una delle sue e la aiutò a rivestirsi, non senza farle ancora qualche carezza innocente, sentendo chiaramente che l'altra, un po' interdetta, ora gradiva la sua attenzione e le aveva preso una mano. Passato o così una decina di minuti, dicendo cose a caso, guardandosi. Poi la donna, ora con i capezzoli gonfi sotto il maglione, allungò una mano per toccare il seno della commessa, una quarta abbondante, e scoppiarono ambedue a ridere. Le labbra si toccarono e fu quello il loro momento, chiuse in un bugigattolo polveroso con le scope e i detersivi, e il mondo ostile rimasto fuori.
Dopo una mezz'ora bussarono forte alla porta. Due agenti donne in divisa e un ispettore, in borghese, chiamati da Tamburini, erano arrivati poco a prelevarla. Lei si era ormai ricomposta e le seguì volentieri, dopo aver salutato la sua salvatrice, ed era ripartita con i poliziotti verso il vicino Commissariato. Si era di nuovo messa a piangere per la vergogna passando davanti alla scalinata di San Petronio, la chiesa dove era andata tante volte, e al Comune dove si era sposata sei anni prima, e non aveva più smesso fino al Commissariato, dove raccontò di essere diventata povera all’improvviso, due mesi prima. Pagare i debiti non era nemmeno pensabile. Tutto era ipotecato, anche il suo conto personale era stato bloccato. Le amicizie fredde e lontane da quando era arrivato il provvedimento di sequestro della attività commerciale, un famoso negozio in via Santo Stefano, della casa di Bologna e di quella nelle Dolomiti. La famiglia era ridotta alla vecchia madre, con la sua pensione che non bastava nemmeno a lei. Il marito scomparso ai Caraibi con il milione di garanzia e la segretaria assunta sei mesi prima, diventata sua amante. Tutto in pochi mesi. Il conto in banca era asciutto e la dispensa era finita. Due chili di pasta, qualche scatoletta. Aiuto delle due amiche più strette nelle prime settimane, ma poi si era vergognata di chiedere ancora, anche se di sicuro non lo avrebbero negato, ma ora lei aveva bisogno di gesti spontanei. Sta pensando di trovarsi un amante ricco o, più semplicemente, di prostituirsi, ma ha paura. Lei non ha un carattere forte. Non si è accorta di nulla. La fuga del marito l’ha sorpresa. L’idea di rubare le mortadelle nel locale dove si era fermata a mangiare tante volte le era venuta la mattina, prendendo in mano il reggipetto della madre. In commissariato le diedero dell’acqua da bere, una poliziotta rimase a parlare con lei per una ventina di minuti, le fece un caffè, poi la portarono in una macchina senza insegne né lampeggianti, a casa, un villino in stile liberty all’inizio di via Casaglia, fermandosi ad un supermercato per i rifornimenti di base. Davanti alla porta aspettava una assistente sociale avvertita per telefono dalla Questura. In casa la bambina e la madre non sapevano nulla. L’assistente sociale, esperta, si finse una amica di tempi lontani incontrata per caso e si fermò a preparare la cena. Così il gesto disperato aveva innescato una catena di cure che lei non immaginava neanche che esistesse, dato che non ne aveva mai avuto bisogno prima.
Nel corso degli accertamenti di rito, circa due ore dopo, l'ispettore era tornato al locale per raccogliere una eventuale denuncia, che era deciso a sconsigliare. Era vicino alla cassa quando una turista russa aveva iniziato a gridare. Il suo occhio addestrato dalle tante nottate passate quando era agente scelto alla stazione, o di servizio allo stadio, aveva subito notato che, mentre tutti guardavano in direzione delle grida, due uomini si toglievano rapidamente il camice marrone, senza fare attenzione alle urla. Li vide girarsi e avviarsi con un movimento veloce e deciso, come due felini, in direzione opposta. Gli diedero perfino il tempo di prepararsi, perché giunti a tre metri dalla cassa si fermarono per dare una occhiata fuori ai pali e scegliere la via di fuga. Padrone di quel gioco di sguardi, che durò sei o sette secondi, gli fu sufficiente estrarre la pistola, e bloccarli non appena saltarono sopra il bancone per sopraffare la cassiera che in quel momento credevano distratta e indifesa. In pochi secondi le mani di tutti i camerieri, e anche di qualche cliente presente, li afferravano da qualche parte.
Lo scompiglio era grande. La donna russa, di grande corporatura, sui sessanta, fu portata fuori, all’aria aperta, accomodata su una sedia e soccorsa con un asciugamano bagnato e ghiaccio. Intorno alla lapide che ricorda l’opera di carità di Padre Marella si era assemblata una folla che faceva domande e forniva risposte congetturate lì per lì, confondendo i due episodi della mattinata. Il frate, di bruttezza fiabesca, da tutti benvoluto, che siede di solito a raccogliere le elemosine sotto di essa, cercava di calmare gli animi e diceva di andare a casa. Tutti parlavano di un tentativo di rapina, qualcuno ripeteva che un extracomunitaria si era messa una mortadella fra le cosce, altri che la donna era stata ustionata e poi stuprata, altri che era la madre di una bambina ebrea rapita. Il signore in grigio, che aveva lasciato l’ufficio per fare la solita spesa alla Coop di piazza Cavour, si era trovato per caso in quell’assembramento di gente eccitata. Dato che non gli capitava mai niente di notevole, si mise a fare domande e a ripetere ad altri le risposte. La versione che veniva ripetuta in quel minuto era che dei rom avevano schizzato liquido urticante alla signora russa e cercato di strapparle la collana, ma poi erano stati tutti arrestati.
Non tutti. Petri si era confuso fra il pubblico dentro il locale e si sentiva sicuro, ma il suo aspetto richiamò l’attenzione di un cameriere, che lo guardò con aria interrogativa e disse due parole ad un collega. Petri se ne accorse e uscì in fretta, urtando un terzo cameriere quanto bastava per farlo girare. In strada, tutti erano eccitati ed attenti. Amri, suo nipote, che faceva da palo, gli segnalò con un gesto convenzionale che a destra pareva libero. A sinistra c’era un assembramento attorno ai banchi del pesce. Pochi metri più in là un cameriere gli si mise davanti, con la certezza di avere dietro di sé colleghi pronti ad aiutarlo. Altri uomini lo circondarono e quando lui provò ad aprirsi una via di fuga facendo scattare il meccanismo del coltello a serramanico, e tracciando con la lama un circolo orizzontale, piegato sulle ginocchia, proprio come uno zingaro malvagio rapitore di bambini di qualche fiaba, la folla si ritrasse e si compattò. Petri correva con la sua faccia da mostro, senza sapere da quale parte fosse meglio fuggire. All’altezza della galleria del Leone un cameriere gli tirò addosso una sedia, ne arrivarono altre due da due parti diverse. Petri e l suo coltello scomparvero sotto una coperta di lana lanciata con destrezza da un facchino che stava scaricando un camion. La folla eccitata si mosse avanti come una belva sulla preda e cominciò all’improvviso il pestaggio.
Il signore in grigio, che per caso era finito a tre metri da Petri, si trovò sospinto nella calca che voleva raggiungerlo. Ci saranno state una trentina di persone, quasi tutti maschi, tutti volti verso Petri, tutti eccitati e aggressivi. Improvvisamente si sentì anche lui invaso dalla elettrizzante follia della calca, nuotando in essa a forza di gomiti. Qualche donna curiosa cercava di incunearsi fra le schiene e vedere qualcosa, mentre più avanti si avvertivano movimenti bruschi, colpi, urla. Il signore in grigio si trovò spinto dalla folla contro una di queste, da dietro. Andò in erezione e la donna lo senti, mentre tutti gridavano. Lui trovò la cosa eccitante e insistette strusciandosi, la donna lo lasciò fare, anzi parve gradire sentire il membro duro dell'uomo tanto che allungò una mano per toccarlo. Lui, ormai eccitatissimo, le passò la mano sinistra sotto l' ascella e le prese un seno, e con la destra le toccò l'enorme culo, alzò la gonna, arrivò alla pelle, sentì nel naso il suo odore e lei fremere, poi la folla, come li aveva spinti l'uno contro l'altra, li allontanò. La maggior parte delle donne presenti si erano allontanate e formavano dei capannelli che non perdevano di vista la folla, che aveva un movimento di marea, anche se nessuno capiva bene cosa stesse succedendo. C’erano grida di smetterla, strattoni di una forza panica diversa dalla curiosità che aveva spinto l’uomo in grigio a farsi coinvolgere.
Due minuti dopo una coppia di agenti di Polizia in divisa, accorsi in fretta, intervennero, si fecero strada con la necessaria decisione e portarono via di peso Petri sanguinante. Qualcuno gli aveva dato uno schiaffo, qualcuno lo aveva fatto cadere a terra, qualcuno gli aveva tirato un calcio nella pancia, qualcuno gli aveva rotto tre denti dandogli un calcio in faccia. Questo quarto qualcuno era l’uomo in grigio. Nel farlo, si era sentito bene e gli era anche tornato il cazzo duro, come poco prima. Sentì o pensò di sentire che i presenti lo approvavano e che gente del genere andava eliminata dalla faccia della terra. Che avrebbe dovuto dargliene due, di calci, e romperglieli tutti, i denti. Andò, tremante, all’osteria a farsi un bicchiere di pignoletto. Era così eccitato che si recò in bagno per sfogare nel lavandino il dolore ai testicoli, e poi si avviò verso casa. Alla moglie non sfuggì la sua insolita eccitazione e volle farsi raccontare tutto, chiedendo particolari. Lui le disse ogni cosa nei dettagli. Quando arrivò alla scena della calca omicida esagerò la scena, inventando i dettagli di un seguito, del tutto immaginario, avvenuto in un portone con la donna, come una scena di un film.
Provava una soddisfazione nuova, quasi vendicativa delle corna passate, nel sentire la moglie eccitarsi a sua volta con visibie voracità. Al racconto del calcio in bocca, lei allungò una mano unghiuta verso i suoi pantaloni mentre apriva le cosce e gli faceva vedere l'orlo delle calze, il reggicalze le mutande nere, gli aprì la patta, prese in mano il suo cazzo eretto mentre si sbottonava la camicetta e gli si strusciava addosso, e gli infilava la lingua in bocca. Lui fu sorpreso della piega che aveva preso la serata di quel giorno così lungo. Quella fu la prima volta che fecero l'amore dopo quindici anni finché lei, mai così soddisfatta, nemmeno dai suoi più focosi e giovani amanti, non lo fece venire rantolando forte, graffiandogli la schiena con le unghie e mordendogli a sangue un orecchio. Da allora il loro rapporto entrò in una nuova dimensione che forse racconteremo un'altra volta.
Un giorno, all'ora della chiusura, la commessa riconobbe la donna che aveva soccorso, seduta ad un tavolino di un lurido bar vicino al negozio di souvenir, vestita esattamente nello stesso modo elegante di quella giornata movimentata, che la guardava sorridendo e come chiamarla ostentando con delicata fierezza la sua seconda misura. Anche fra loro le cose presero una piega singolare, con la mia casa e il mio tempo e l'impagabile aiuto delle mie maestre.
Petri, col fegato spaccato, morì nove giorni dopo all’ospedale di S.Orsola.
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