Gay & Bisex
La scissione di Livorno
di Ptro
25.06.2022 |
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"I socialisti, si sa, eran ben capaci di gridare l’addio alla proprietà, a magnificare la comunione e cercar la nuova società mentre delle lor mogli e..."
Oh, galeotto fu quel tempio del borghese diletto, quella lussuriosa bolgia di stucchi malamente coperti dai rossi drappi e dalle bandiere dell’avvenire: il Goldoni tradiva il suo odio per il proletario in ogni suo recesso. Anche l’angusto servizio igienico del camerino del tenore, improvvisato gabinetto d’una provvidenziale mediazione sui massimi sistemi appariva troppo lucido, troppo luminoso, troppo areato per aver anche solo idea di cosa fosse l’operaio e il frutto del lavoro; la cosa non sembrava turbare tuttavia i due animosi avversari alle prese con il confronto che avrebbe segnato un’era. Immobile come statua, l’anziano di Canzo, il padre del Partito, inveiva accorato sul fanciullo sardo, nascosto dietro un paio di minuscoli occhiali. Il corpo chiuso a riccio, l’innata reverenza verso gli anziani, giaceva timido sull’orlo del vaso. Che sproporzione in quei due corpi, in quelle due anime così diverse, l’una solida brace, l’altra vivace ed effimera fiamma della giovanile rivolta. Ecco brillare gli occhi, il coraggio tornare nel corpo di Gramsci: la voce è ferma, il tono d’accusa. Ogni parola squarcia il velo del futuro sull’immobile pantano che si farà del Partito se il popolo sovrano non alzerà il pugno e imbraccerà il fucile. La foga fanciullesca tuttavia lo tradisce, e ad un epiteto irripetibile ferma la mano del Turati colpisce il volto. Troppo lontani dalla folla urlante che s’accalca per palchi e palchetti, nessuno fuorché i due udì il riverbero del gesto, il rumore sordo della mano calda su quella imberbe gota. Ma che scandalo avrebbe mai potuto causare un accesso d’ira, uno scatto, rispetto al peccaminoso gemito che immediato lasciò le labbra di Antonio? Flebile, ma non abbastanza da sfuggire alle orecchie del veterano. Sommesso, ma capace di liberare un terremoto di lussuria che avido di comprensione parve correre sul braccio di Turati fino a giungergli al cuore. Le dita immobili poggiano troppo a lungo sulla delicata guancia che verte lentamente al rosso, un tocco delicato che disegna il tragitto di uno sguardo in cui la tensione s’è mutata da conflitto e repulsione a magnetica attrazione. “Ancora, ti prego” sussurra mesto, arrossendo pudico nella nudità del suo desiderio il giovane sardo, che congeda la sua pelle da quella dell’anziano con un bacio delicato. La mano così benedetta pare trovare ancora più soddisfazione a ricadere su quel viso innocente, a strappare l’urlo in cui il dolore si mescola all’estasi, ad accarezzare quel sorriso nascente tra la porpora. Bruciano entrambi, incapaci di dirsi se sia per la violenza, la passione o l’imbarazzo. Ma i corpi si muovono ormai troppo in fretta, la rivoluzione è iniziata e corre per le vie senza di loro e una pioggia ripetuta di colpi cade e Gramsci tra le lacrime ansima la sua gioia e con oscenità senza tempo invita il suo splendido aguzzino a rinnovare la pena e lui non si trattiene mentre il tessuto dell’abito rinuncia a nascondere la sua allegria giusto innanzi al giovinotto. Ci sarebbe ancora tempo per fermarsi, per raccontare al Congresso dell’acceso diverbio, dei toni esplosivi e dei colpi dettati dall’ira che hanno segnato il volto dell’ala massimalista; ci sarebbe il tempo, ma manca la volontà dinnanzi al pomo del peccato. Lo coglie invece con gioia il giovane che frenetico slaccia il bottone d’osso per stringerlo in mano, sopraffatto dallo stupore. È la mano di Turati tra i capelli folti, che con forza l’attira a sé, a toglierlo dall’impiccio e a guidarlo nell’arte che l’anziano più volte aveva sperimentato in bettole da due lire, e l’innaturale unione si consuma tra le labbra secche dall’emozione. Non c’è abilità in Gramsci, e la sua foga appare goffa, fallimentare nel cercar di soddisfare il desiderio di un amante troppo ben abituato per gradire un servizio di quart’ordine; ma nei suoi occhi c’è una passione ardente che mai il fondatore aveva incontrato, al di là della montatura d’ottone due iridi spalancate a cercare il piacere nel suo volto lo spingevano verso l’estasi, gli intimavano di affondare sempre più in quella gola che s’era aperta per lui e lui solo. I socialisti, si sa, eran ben capaci di gridare l’addio alla proprietà, a magnificare la comunione e cercar la nuova società mentre delle lor mogli e puttane rivendicavano la potestà e l’afflato del padrone si prese anche Turati. Fu con un sordido sputo sul volto assorto del sardo che impose il suo marchio, che tradì l’ideale per il richiamo della carne giovane che ora s’affrettava desiderosa a bere la saliva del neonato padrone, a far l’amore con le sue catene. Quella visione perversa era troppo per l’integerrimo deputato del Regno, che con un ultimo rantolo si strinse al pube il volto ormai sfatto del radicale per invaderne il corpo posseduto e violato con la sua stirpe.
Ora lo guardava incredulo, quel corpo sudato gettato sulla ceramica fredda di quella asfissiante toilette, il volto segnato dalle lacrime e dalla sua candida gioia appariva una maschera sfrontata di un carnevale degli orrori da cui solo la fuga precipitosa in cui si lanciò poteva salvarlo. Non lo trattenne la mano di Gramsci salda sulla sua, desiderosa di un ultimo brivido mentre stravolto dal piacere peccava spandendo il suo seme.
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Vi invitiamo comunque a segnalarci i racconti che pensate non debbano essere pubblicati, sarà nostra premura riesaminare questo racconto.
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