Gay & Bisex
Il Gorilla (1)
di Mouselet
08.12.2019 |
1.100 |
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"«Ciao puttanella… Il mio uccellone ti aspetta: passa quando vuoi per la tua dose di crema»..."
«Ehi Gorilla! Come sta il tuo cazzone? Quando mi dài la sborra oggi?». «Ciao puttanella… Il mio uccellone ti aspetta: passa quando vuoi per la tua dose di crema». Lessi il messaggio di filato. Bene, potevo passare quando volevo: e io volevo subito. Quel giorno avevo una voglia più intensa degli altri giorni. Da quando avevo conosciuto il Gorilla, come lo chiamavo io, c’eravamo visti con una cadenza sempre più frequente. Fabio era un uomo calamita: la sua sola visione attirava. Aveva un corpo stupendo: scolpito da anni e anni di palestra, il suo fisico di trentanovenne sembrava quello di un wrestler professionista. Due deltoidi pompati si installavano su due pettorali oscenamente protrusi, i quali ombreggiavano una distesa di dune addominali solide come la roccia. Il torace immenso era affiancato da due braccia perfettamente toniche, le vene in evidenza lungo tutta la loro distesa. Quante volte ero stato su quel torace, quante volte ero stato tra quelle braccia, quante volte ero stato in contatto con quel corpo divino. Anche se forse dovrei usare il femminile: «stata». Perché ormai io ero «la puttanella» e il mio lato maschile non esisteva più. Esattamente come non esisteva più il lato umano di Fabio: lui era «il Gorilla», la bestia primate che rivendicava il mio possesso con i suoi grugniti animaleschi. Del Gorilla volevo soprattutto una cosa. Una cosa di cui, per ogni giorno che passava, avevo sempre più bisogno. Una cosa che il Gorilla pensava di darmi, ma in realtà ero io a prendermi. Perché di fatto era il Gorilla a essere in potere mio, non io in potere suo. Fabio lo sapeva bene, ma si comportava come se non fosse così, perché sarebbe stato umiliante ammettere che la puttanella lo aveva conquistato. Ogni volta che mi ritrovavo seduta sul suo bastone di carne (lui disteso a pancia in su), lo guardavo dall’alto in basso, orgogliosa del mio potere su di lui: il Gorilla teneva gli occhi fissi nei miei, incantato, e da quel momento si esprimeva solo a rantoli, a grugniti, a rauchi sospiri scimmieschi, mentre io mi scopavo da sola sulla sua mazza turgida, gemendo come una cagna in calore e ripetendo con accenti femminei: «Oh sì! Aaah! Dammela, Gorilla! Dammela! La voglio!». Del Gorilla volevo soprattutto quella cosa. La volevo perché mi serviva, ne sentivo il bisogno, quasi per vivere. La volevo su di me: sul mio petto, sui miei capezzoli, sul mio addome, sul mio cazzo, sul mio culo, sui miei piedi, sulla mia faccia, sulle mie labbra, sulla mia fronte. La volevo in me: nel mio ombelico, nell’incavo della mia schiena arcuata, nel solco dei miei glutei, nel mio ano, nella mia bocca, nel mio stomaco, nella mia anima.
Avevo un bisogno estremo di sborra. Era diventata una specie di droga per me. Quella di Fabio poi era di una tipologia superba: pastosa e densa, di un bianco opaco e sincero, risultava al gusto né salata né dolce, pur mantenendo un intenso odore di maschio, anzi di Gorilla. Adoravo studiarla in tutti i suoi aspetti. Una volta ordinai al Gorilla di mettere la mano a conchetta e di versare il suo seme bestiale in quel calloso recipiente. Lui, quasi ammaliato dalle mie parole, non esitò a obbedirmi: mise la mano destra in posizione di ricettacolo davanti allo sfiatatoio del suo cannone e con la sinistra cominciò a masturbare quel candelotto di 22 cm. Era in piedi davanti a me, che stavo seduta sul bordo del letto. Quando si segava ormai da cinque minuti, iniziò a gemere in modo sempre più cavernoso, finché con un urlo finale non liberò quel liquido divino, che scaturì violentemente riempiendo quel piccolo serbatoio manuale con otto abbondanti schizzi. Il Gorilla mi porse la mano fortunata e io avvicinai troiescamente il musetto. Aspirai a piene narici: quello era l’odore del mio Paradiso. Intinsi un dito e me lo portai alle labbra, cospargendomele con quella rugiada, come se fosse burro di cacao. E si sa, una volta che un lupo (o in questo caso una lupa troia) assaggia il sangue, ne vuole sempre più. Tirai fuori la lingua e mi misi davanti a quella mano come una cagna davanti alla bacinella dell’acqua: cominciai a leccare prelevando dose dopo dose finché non ripulii tutto il palmo. Infine ingoiai con soddisfazione.
Avevo sviluppato una vera e propria dipendenza. Quando mi saliva la voglia, non riuscivo a rimandarla di un minuto: dovevo soddisfarmi in quel momento, dovunque fossi. Una sera io e il Gorilla eravamo al cinema: ci andavamo ogni tanto per variare la routine. Quella sera la sala era quasi del tutto vuota: oltre a noi c’erano solo due gruppetti di tre/quattro amici ciascuno, e io avevo fatto in modo di sederci in una delle ultime file in fondo, il più lontano possibile da entrambi i gruppi. Il Gorilla aveva allargato i suoi braccioni sugli schienali delle poltrone accanto alla sua, e con il braccione sinistro mi aveva circondato le spalle. Io apprezzai moltissimo il gesto, estremamente tenero: le pagnotte dei bicipiti del Gorilla erano il mio cuscino preferito, caldo e stabile. Appena, dunque, sentii la sua mano poggiarsi sulla mia spalla, girai la testa verso di lui per sorridergli: il Gorilla, nella sua docile rozzezza, ricambiò il sorriso. In quei due secondi in cui ci guardammo, mi cadde l’occhio sulla manica della sua T-shirt: il gesto di alzare il braccio per posizionarlo dietro di me, aveva fatto scoprire l’ascella del Gorilla. Il suo pelame primordiale fuoriusciva prominente, liberando anche un leggero olezzo di bestia: d’istinto avvicinai il mio musetto cagnesco a quel baratro di lanugine e inspirai profondamente. Era fatta: bastò quel respiro per farmi salire una voglia insopprimibile di lui, e per lui intendevo la sua sborra.
Fui irrefrenabile. In un secondo sgusciai via dal sedile e mi inginocchiai a terra: il Gorilla non fece in tempo ad accorgersene che mi ritrovò in mezzo alle sue gambe gigantesche con il mio sguardo famelico da pre-mungitura. «Cosa fai, puttanella? Non qui, ti prego…», sussurrò il Gorilla, portandosi d’istinto le manone sulle ginocchia per bloccarmi. Non risposi neanche: il mio desiderio era il mio unico padrone. Alzai le mani su quel pacco di Natale e cominciai a scartarlo: abbassai interamente la zip dei pantaloni e allontanai i due lembi della stoffa per liberare quella montagnola di carne coperta da quei fortunati slip pisciosi. Accostai il nasino da troia e presi un lungo respiro: sentivo già l’odore di sborra penetrarmi il cervello. Tirai giù gli slip e lo vidi: il sesso del Gorilla diede un guizzo e cominciò a impennarsi, segno che la bestia non era affatto riluttante al pensiero di svuotare la sua tanica di sborra nella mia bocca. «Puttanella, ferm…», ma io avevo già preso quella lattina carnosa in bocca. Il Gorilla cominciò a godere in silenzio, mentre io percorrevo incessantemente in su e in giù la sua asta, che ormai aveva acquisito la durezza e la lunghezza consuete. Il sapore di quei 22 cm di marmo mi stava dando alla testa: volevo la sborra e la volevo subito. Mi staccai dalla poppata e afferrai quel manubrio con la mano destra, cominciando a segarlo: «Ihihih! Ora ti mungo!», sussurrai. Il Gorilla faceva fatica a non urlare. Tutto quello che poteva fare era mimare con il labiale i peggiori insulti che gli passassero per la mente: «Puttanella maledetta! Frocia succhiasborra! Troia rotta in culo!». Stava per arrivare, la sentivo. Avvicinai la bocca e tirai fuori la lingua al massimo: non volevo sprecarne una goccia. Il Gorilla mimò un urlo primitivo e mi scaricò nove schizzi di prezioso sperma ferino dritti in gola. Pasteggiai sonoramente quella glassa proteica lungo tutta la mia lingua e altrettanto sonoramente la ingoiai in un unico, viscoso boccone.
Dopo episodi come questo, la mia perversione cominciò a non accontentarsi più della semplice bevuta: serviva anche un contesto intrigante. L’azione di bermi un cocktail di sborra al cinema mi suscitò la curiosità di scoprire in quali altri luoghi impensati e in quali altri modi perversi avrei potuto dissetarmi alla cannella del Gorilla. Una sera in cui avevamo cenato a casa del Gorilla, l’idea mi venne mentre lui era disteso sul divano: lo scorsi con gli occhi famelici e mi fermai sui piedi appoggiati sul bracciolo. Cazzo, che piedi aveva! Portava il 47 di numero: le sue fette gigantesche svettavano come pennoni in quella posizione. Mi avvicinai furtiva e mi inginocchiai: il Gorilla fu colto di sorpresa quando la mia lingua cagnesca avvolse l’alluce del suo mastodontico piede destro. «Ehi puttanella, ma abbiamo già cenato: non sei sazia ancora?», mi fece sorridendo. «Voglio il dessert!», risposi perentoria. E mi fiondai stavolta sull’intera arcata delle dita, mettendomi in bocca cinque salsicce di carne scimmiesca. Il Gorilla grugnì: io proseguii la mia ciucciata salivosa, finché non vidi che il suo pacco si era gonfiato a tal punto da rischiare di rompere la cerniera dei pantaloni. Allora lasciai il piedone e mi misi davanti alla mia seconda cena: aprii i pantaloni e liberai la bestia dagli slip. Quella svettò prepotente in tutti i suoi 22 cm, coronata da una goccia di pre-sperma che subito provvidi a suggere con devozione.
«Frocia puttana! Non ti basta mai, eh?». Io feci una risatina femminea e imboccai il cannone. Il Gorilla subito dovette alzarsi dalla posizione distesa e mettersi seduto, tanto potente era la mia suzione. Mi era venuta un’idea perversissima sul modo in cui bere la mia bevanda preferita quella sera, e la sola prefigurazione di quell’apoteosi di perversione mi dava una forza aspirativa immensa: praticamente glielo stavo succhiando come un’idrovora. Intanto il Gorilla mi insultava gratuitamente: «Vacca infame!», e io succhiavo. «Cagna maledetta!», e io succhiavo ancora di più. «Lurida rotta in culooo!», e qui mi fermai perché capii che stava per venire. Lo guardai con occhi di sfida: gli presi il piede destro e lo forzai il più vicino possibile al suo cannolo carnoso. «Che vuoi fare, puttana famelica?». Feci un’altra risatina da donnetta innocente e cominciai a masturbarlo violentemente. Mentre il Gorilla agonizzava di piacere e bestemmiava a tutto andare, si avvicinava il momento della sborrata. Puntai il cazzone sul piede: un’ultima, potente bestemmia e quella lattina di sborra sparò la sua crema sul dorso peloso di quel piedone da gigante. Sette abbondanti schizzi disegnarono un reticolo di proteine che si intrecciò con quello delle vene prepotentemente evidenti su tutta la superfice di quella zampa bestiale. L’odore improvviso mi mandò in visibilio: lasciai il cazzo del Gorilla, scesi con la bocca verso quella glassa succulenta, e con una lingua degna delle migliori puttane da bordello raccolsi in più lappate il mio dessert. Il sapore della sborra appena munta si unì a quello del piede e la combinazione dei due mi scese in gola.
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Vi invitiamo comunque a segnalarci i racconti che pensate non debbano essere pubblicati, sarà nostra premura riesaminare questo racconto.
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