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Il Telecomando


di Blacknoble
08.12.2021    |    16.891    |    9 8.9
"Serena, appoggiò la testa sulla mia spalla, e rimanemmo a guardare il sole sparire nel mare..."
l telecomando

La stanza era molto piccola. A dire il vero, minuscola. Tre metri per due. Con un piccolo bagno affianco. Ovviamente, per ragioni di spazio, c’erano un divano letto, un televisore attaccato alla parete, una cucina piccolissima incastrata in un angolo, ed una finestra che guardava in un vicolo buio mai esposto al sole.
Ero stanca. Avevo passato la notte a lavorare ed ero tornata più tardi del previsto. Lavorare… Ci ripensai un attimo e scossi la testa. Per settecento euro al mese, sei giorni a settimana, e turni che andavano dai dieci alle dodici ore.
Pensai un attimo ai miei grandi progetti passati, al desiderio di andare altrove, di lasciare Napoli ed il Sud Italia abbandonati a sé stessi, un luogo dove crescere era solo un’illusione per chi come me non aveva le basi. Già, le basi. Figlia di migranti provenienti dall’Africa, col titolo di terza media in tasca, in una città dove il lavoro serve a non indebitarsi troppo quando si è nelle mie condizioni.
Guardai il piede di Serena che si stava muovendo. Si stava svegliando. Sorrisi dimenticandomi per un attimo i miei problemi.
Sopra il letto, c’era una foto enorme dove ci baciavamo con scritto sotto: “Esserci per amarsi”. Con i nostri nomi legati da un cuore. Marilena e Serena.
Serena cacciò fuori il braccio dalle lenzuola verde acqua e successivamente anche la testa. Mi sorrise, e sentii il mio cuore sobbalzare. Le sorrisi, mi alzai, ed andai a baciarla. Mi tirò a sé e mi obbligò a stendermi su di lei.
I nostri seni, premevano l’uno contro l’altro con dolcezza. Le nostre pelli, diverse, si mischiavano al chiaro delle lenzuola illuminate dalla fievole luce che arrivava da fuori. La baciai nel collo, e poi mi alzai a preparare il caffè. Ripromettendomi dopo di ricominciare da dove avevamo lasciato.
L’odore di Serena mi seguì, attaccata alle mie narici.
Ci amavamo davvero tanto, eravamo la ragione d’essere l’una per l’altra. Ripensai al percorso di entrambe con le nostre famiglie, le difficoltà legate alle nostre scelte, i problemi che ne derivavano. Serena lavorava come segretaria in un studio legale. Era stata fortunata rispetto a me. Non era laureata, ma diplomata, ed anch’essa, veniva da una famiglia molto povera. Il paradosso con la povertà, è che coloro che affligge, possiedono patrimoni di valori. E dunque, rinnegate all’inizio, c’era voluto tanto prima che fossimo accettate. Accettate poi era una parola grossa, ma l’ipocrisia delle famiglie non ha fine. Il sangue lega indubbiamente. Comunque. Feci il caffè e lo portai al letto sdraiandomi affianco a Serena. Le nostre gambe erano l’una affianco all’altra. Una nera, una bianca. Un’immagine così sensuale da distrarmi mentre Serena mi diceva qualcosa a proposito dell’affitto e di certe spese. Amavo il suo corpo. Avevo rinunciato al resto proprio per esso. Forse Serena non era bella, ma era vera. Ed in quella realtà trasparente, limpida, ero riuscita finalmente a vedere il riflesso di me stessa. Mi aveva dato forza per andare avanti, oltre le avversità, le difficoltà. La realtà é ardua, a volte insopportabile. Ma da quando c’era lei, era tutto meno nero.
Affianco a noi, c’era il telecomando. Nero, con i pulsanti bianchi. I contrasti che riuniscono. Come noi due.
La mia mano scese dalla sua coscia fino alle caviglie. Cominciai ad accarezzarle delicatamente il collo del piede. Poi, la mia mano risalì fino al ginocchio, raggiunse l’incavo dietro sfiorandolo. Serena trasalì e mi guardò. Si girò ancora pigra di sonno, e mi baciò a lungo. Noi non ci costringevamo. Eravamo povere entrambe, ma ricche di amore. Pur avendo un stipendio non male per Napoli, Serena vedeva il terzo del suo stipendio andare direttamente allo stato per delle truffe che il padre aveva combinato usando il suo nome per una delle sue società che non erano mai state fruttuose. Anzi. Serena avrebbe dovuto ripagare a vita un debito contratto per l’incapacità del padre. Col resto del suo stipendio ed il mio, cercavamo di cavarcela. L’amore abita, vive in ciò; l’essenziale. Quello sanguigno, che nasce dal cuore, attraversa l’anima, lambisce lo spirito, e coinvolge le carni. Ci baciammo dolcemente prima che scivolassi giù prendendole le dita del piede in bocca. Tenni la sua gamba con tutte e due le mani guardando il nostro riflesso nello specchio. Serena aveva gli occhi chiusi e gustava la sensazione del calore della carezza della mia bocca sul piede. Poi, risalii fino al suo ombelico che torturai dolcemente con la lingua mentre la mia mano cercava il pube. La mia bocca poi si impadronì di uno dei suoi capezzoli mentre la mia mano destra si infilava nella sua vagina poco depilata. Io invece lo ero totalmente. Anche tra le nostre cosce, contrasti. Avevamo fatto l’amore la notte quando ero tornata, ma la stanchezza ci aveva precluso quel piacere che solo i nostri corpi sapevano darci. La voglia era rimasta, e ci colava dalla vagina, ci teneva in sospeso, era brace con la legna appena aggiunta sopra. Il pube di Serena era un fuoco. La mia mano appiccicata sentiva il sangue battere sulla vulva.
In quello stesso momento, l’altra mia mano scese sul mio pube e cominciai a masturbarmi con lo stesso movimento circolare e la stessa pressione. Lei si toccava i capezzoli e teneva gli occhi aperti. Amavo quegli occhi verdi che uscivano fuori da un viso troppo piccolo. I suoi cappelli biondi sparsi sul cuscino le conferivano un aspetto davvero angelico.
Durò per molti minuti prima che Serena mi scostò la mano, mi sali addosso, ed iniziò a sfregarsi contro di me. La sensazione di un clitoride su un altro clitoride è meravigliosa, sensazionale. L’amore saffico è infinito, sa prendere direzioni totalmente diverse, emulare il rapporto etero, rimanere prettamente omosessuale, o ancora, essere parte dei due in proporzioni variabili. Ci sono un’infinità di fattori che lo determinano. Il nostro, era Amore, quello con la grande A. Serena continuò a sfregare il suo clitoride sul mio per lunghi minuti mentre ci accarezzavamo guardandoci e baciandoci. Poi, la sua lingua scese sui miei capezzoli mentre la sua mano si infilava nella mia figa cosi entusiasta da versare lacrime di piacere. Invasa da tremori, sentivo la punta della sua lingua girare attorno al capezzolo mentre le sue dita scivolavano tra i miei umori. Venni quasi subito mentre Serena intensificava il movimento sia della sua lingua che delle dita per spingermi al massimo. Rimasi cosi, tremante, con la sensazione di lei ancora dentro me, e per parecchi minuti, continuai ad avere orgasmi mentre lei andò a versarsi un po’ di caffè. Quando tornò, la adagiai esattamente così com’ero io prima. E pressappoco nello stesso modo, la feci arrivare.
Dopo un po’, eravamo sdraiate al contrario. Le nostre teste, infilate tra le nostre gambe, le nostre lingue, nelle nostre
intimità. Ci procuravamo lo stesso piacere. Allo stesso modo. I ritmi delle nostre lingue sui nostri clitoridi erano uguali, la pressione anche. Era come baciare una lingua. Ogni bacio, un sussulto, quasi sussurro, promessa di piacere, di bene. Venimmo insieme.
“Dai vai!”. Era Serena che mi spronava ad andare al lavoro. Avevo fatto tardi. Non avevamo un’auto. E con i mezzi a Napoli, bisognava muoversi con largo anticipo. Ma avevo perso quel margine e dovevo solo sperare che il pullman passasse in orario.
“Ciao amò”. E le stampai un bacio in bocca cercando di abbracciarla ancora.
“Corri!” Disse respingendomi.
Arrivai al lavoro fortunatamente in orario.
“Marilena vuoi venire qui un attimo?”. Era Roberto. Il mio capo. Un uomo sulla cinquantina. Difficile da descrivere. Diciamo che probabilmente, se fosse nato in condizioni diverse, sarebbe stato onesto.
“Guarda qua! Vuoi spiegare a stu sciem e Mustafa che o man via se continua a lava stu cess accussì!! Manco in Africa! E che cazz!!”
Aveva aperto la porta del bagno e mi mostrava delle macchioline sul muro a destra. A parte ciò, il resto, era splendente.
Lo guardai reprimendomi.
Il povero Mustafa veniva dal Marocco ed aveva oltre settant’anni. In Italia da trenta, sopravviveva facendo il parcheggiatore fuori al bar e vendeva sigarette di contrabbando.
Il mio capo gli faceva fare i bagni, lavare e tenere fuori tutta la parte esterna del bar. In compenso, gli dava … dieci euro al giorno. Mustafa doveva tornare a pulire il bagno in pratica ogni ora, dalla mattina quando aprivamo a quando chiudevamo. Lui la prendeva con filosofia e sempre con un sorriso. Ma il nostro capo era ciò che si può definire un vero schiavista oltre che un despota. Per non dire stronzo.
La sua allusione all’Africa mi offendeva. Ero più nera di Mustafa, e ciò era chiaro indice della mia provenienza. Il tatto però, non è acquistabile. Nemmeno la classe. O semplicemente, l’empatia. Non è un fatto di soldi ma di persone. Stavo per rispondere a Roberto quando il mio cellulare squillò in tasca. Sapevo che era Serena. Pur non rispondendole, mi quietò questa sua telefonata. Per cui risposi a Roberto:
“Non si sarà accorto di questo. Per il resto, è tutto pulito”.
Mi faceva rabbia. Non acconsentivo sempre, ma il capo era lui. Era ingiusto e duro, e lui lo sapeva. Le persone si conoscono intimamente. Perciò, molti, scappano da loro stessi. Alcuni, pochi, cercano rifugio in altri. In noi, Roberto cercava conferme di sé stesso. Lo avevo classificato come cattivo già da tempo, ma il lavoro mi serviva.
Eppure, le proposte di lavoro non mancavano. Una giovane donna nera e bella non passa inosservata. Ma la considerazione per le nere va oltre ogni immaginazione. Puttane. Tutte noi, senza eccezione. Non esiste donna nera, che sia dottoressa, medico, astrofisica o operaia, che non abbia mai sentito dirsi: “Quanto prendi?”. Si, ce ne sono, sparse come granelli di sabbia sulle dune del deserto, invisibile perché poche, ed anch’esse, vittime.
“Quanto prendi?” Non é riservato alla prostituta, ma ad ogni donna nera, forse anche ad ogni donna, ma in forme diverse.
Una parola che brucia il cuore e lacera l’anima. Spoglia il nostro essere di donne, madri, figlie, per ridurci ad un mero oggetto di piacere. Qualora sei assunta da un uomo, ti chiedi sempre quando ci proverà. Perché ne hai la certezza. Sei nera, e quindi, per lui, sei facile. E tu vivi come una fanatica musulmana. Ti copri di panni troppi grandi e quasi ti metti il velo per nascondere il tuo sguardo. Non sei vittima dell’essere donna, o migrante, o musulmana, ma di essere nera.
Chiamai Serena. Un minuto dopo, stavo sorridendo. L’amore è cura.
Avevo il turno di giorno. E quindi, andai a prendere Serena al lavoro dopo aver finito. Andammo al lungomare a fare una passeggiata. Eravamo mano nella mano. Insieme, non avevamo paura. In realtà sì, ma eravamo la corazza l’una per l’altra. Un paio di ragazzini ci diedero della “lesbica” mentre passeggiavamo. Non badammo a loro. Quando sei sotto pressione, quando sei braccato, per una ragione o per un’altra, impari a scomparire, a stare in una bolla che cerchi di mimetizzare per essere invisibile. L’amore non ferma gli schiaffi, ne gli idioti. Noi ci amavamo, non ci vergognavamo di quel che eravamo, ma non viviamo soli, e nemmeno siamo uguali. Umani, si, ma non identici. E di conseguenza, vivere vuol dire camminare in equilibrio. Avere un atteggiamento che vada di concerto con quello degli altri o che perlomeno non li turbi. Ma la gente è turbata. Convinta. E si riversa su chi lo circonda. Chi, come me, vive condizioni in cui è stato categorizzato, messo al bando della
considerazione umana, non è sempre facile da gestire. Sia intimamente che esternamente. La rabbia e la paura si mescolano, si valgono, ci vuol un soffio per far precipitare l’un o l’altro. Una volta, dovette intervenire la polizia per un uomo che ci aggredì perché secondo lui era immorale che ci baciassimo davanti ai suoi figli. L’Uomo era indemoniato e ci urlava addosso agitando fortemente le braccia. Lui, non credeva che l’omosessualità fosse una malattia. O anche l’opera del demonio. Semplicemente, lo trovava aberrante. E noi, tutto questo, lui compreso, lo trovavamo aberrante.
Scavalcammo il muretto che divide il mare dalla strada ed andammo a sederci sugli scogli. Il sole, stava tramontando. Mettemmo una sciarpa stesa sulla roccia, e ci sedemmo fianco a fianco. Serena, appoggiò la testa sulla mia spalla, e rimanemmo a guardare il sole sparire nel mare. Il cielo era pieno di rumori. I gabbiani facevano da coro alla risacca. Dopo, andammo a mangiare in un ristorante Sri Lanchese due Kebab di falafel ed andammo a casa. Ci addormentammo abbracciate col sorriso in bocca.
“Marilena vieni a vedere”. Ero in bagno a lavarmi i cappelli.
“Non posso venire, dimmi” le dissi.
Stava passando un documentario in Tv sulle Maldive. Era il suo sogno. Difficilmente raggiungibile, ma un sogno è un rifugio sicuro per la mente. La realtà invece, carcere. Potevamo al massimo andare a Caserta a fare una gita viste le nostre condizioni economiche. Ma con la mente, potevamo fare il giro del mondo. Abbracciate, e ridenti. Quest’aspetto di Serena non aveva fatto che aumentare il mio amore nei suoi confronti. Ma allo stesso tempo, la frustrazione.
Chi ama e si sente impotente sente doppiamente la frustrazione. Chi ama non vuole essere la divinità dell’amato, ma piuttosto suo servo. Dedicarsi a colmare ogni sua mancanza, assemblare di continuo il puzzle del suo sorriso, costruire i ponti sotto suoi piedi, abbattere ogni muro che gli si pone davanti. E quando non ci riesci, ti senti tradito, abbandonato dalla sorte, lo ritieni profondamente ingiusto, poiché si ha l’intima convinzione che l’amore dovrebbe farcela su tutto. Ma non è cosi, e ciò, fa nascere tanti dubbi. Avrei voluto portare Serena con me ovunque volesse andare. Avere ali, o un aereo, o anche i soldi per i biglietti. Era un continuo rimettersi in causa. Dal suo canto, Serena si districava tra quel che restava della sua famiglia disastrata, i suoi sogni di viaggio sfumati nel futuro, e l’amore per me. Spesso, il suo sguardo si perdeva e rimaneva prostrata per molto tempo pensando a chissà cosa. In quei momenti, anche se stavo facendo qualcosa, mi fermavo a guardarla. La mia statua vivente.
Il citofono squillò mentre i fagioli erano cotti quasi a punto.
“Marilena vai tu?” Chiese Serena mentre rimescolava il tutto e si preparava a calare la pasta. Mi alzai e dopo due passi presi il citofono aprendo senza chiedere.
Erano Paolo e Marco. Due nostri amici omosessuali. Erano una coppia da parecchi anni ed erano davvero belli da vedersi.
I mondi omosessuali sono vari. La gente comune pensa che si tratti di un gruppo omogeneo e basta. Ma non è cosi. Ci trovi le stesse differenze che nel rapporto eterosessuale. Chi è dolce, chi non lo è, chi piace la frustra, chi no, chi gli oggetti, chi le orge, insomma, c’è davvero di tutto.
Ed anche ed ovviamente, fazioni opposte. Un po’ come i neri. Disprezzati, tra di loro, si disprezzano. La natura umana va oltre ogni colore. Per tante ragioni, io e Serena non seguivamo il movimento LGBT. Troppe guerre, quando noi desideravamo un’oasi di pace. Paolo e Marco avevano pressappoco la nostra stessa opinione sulla questione. Ci eravamo conosciuti ad una mostra di Picasso e subito avevamo fatto amicizia. Ormai, erano sei mesi che ci frequentavamo ed ogni settimana mangiavamo assieme almeno una volta. Quando sei con gente normale, e lo sei anche tu, la naturalezza diventa magia. Parlavamo di libri, di viaggi, di poesia. Molto più istruiti di noi, ci fecero scoprire un sacco di artisti nuovi. Dopo mangiato, rimasero a lungo e giocammo anche a carte. Poi, se ne andarono. Rimettemmo tutto a posto e ci sdraiammo l’una accanto all’altra.
Mi girai, e presi il telecomando. Nero e bianco. Serena si addormentò quasi subito. Girai i canali senza fretta, non avevo sonno. Giravo i canali l’un dopo l’altro senza nemmeno sapere di preciso cosa stessi cercando. Passai più canali arrivando a quelli di televendita, che spesso e volentieri a tarda ora erano prettamente erotici. Non era ciò che cercavo ma ad un cero punto mi sembrò di riconoscere una sagoma familiare tra più corpi stretti in un orgia. Tornai subito indietro maledicendo il telecomando che stentava a rispondere ai comandi. Finalmente, ci riuscii, e mi avvicinai al televisore per vedere meglio.
Serena. Era propio lei. Con una lunga parrucca nera che le scendeva quasi sino al sedere. Il pube perfettamente riconoscibile, i suoi modi, i suoi atteggiamenti, uguali.
Rimasi paralizzata a guardarla. Si muoveva tra diversi corpi, diversi peni. Ne prendeva qualcuno in bocca mentre un altro glielo infilava dietro, leccava passere ed infilava le sue dita nell’intimità di donne. Di sé per sé, la scena era quasi bella. Un quadro dinamico di piacere che dava forma alla stanza tetra e senza vita. Serena era naturale nelle sue movenze, non costretta. Lo vedevo dal suo sguardo languido che ogni tanto la telecamera riusciva a catturare. Non so dire se godesse, ma di certo, non era costretta. In cuor mio, speravo lo fosse stata. Eravamo cosi intime che non avrei mai potuto immaginare che avesse una vita doppia. Pur in stato confusionale, i miei occhi rimanevano fissi sull’immagine di lei. Un immagine sublime, il suo corpo scivolava da una parte all’altro, il suo erotismo bucava lo schermo e confondeva ancor di più la mia mente. Le mie emozioni erano indescrivibili mentre la guardavo. Allungando la mano, avrei potuto svegliarla, ma non avrei nemmeno saputo cosa dirle. Cosa c’era mai da dire in questo caso. Arrivai fino in fondo al film cercando di leggere i titoli di fondo per capire quando fosse stato girato.
“Alice e le sue amiche”. Cosi si chiamava il film. Sfortunatamente, tagliarono i titoli di coda e non riuscii a leggerne la data di produzione. In modo febbrile, mi alzai ed andai a prendere il mio cellulare rimasto sul tavolo a pochi passi. Serena si mosse e grugnii un pò. Era una sera fresca, ma stavo sudando come una fontana. Il mio mondo crollava. Avevo una sicurezza, ed era Serena. Era la mia alba, il mio tramonto, era la ragione per cui nulla mi toccava e tutto mi scivolava addosso. Il solo pensiero di lei alleggeriva il peso del presente e toglieva le preoccupazioni per il futuro. Serena era tutto per me, ma guardando lei in Tv, capii che non era lo stesso per lei nei miei confronti. Lentamente, delle lacrime mi scesero sulla guancia. Erano calde, reali, e mi cadevamo addosso ad una frequenza regolare. Non so per quanto tempo piansi, ma non smisi mai.
Serena si svegliò all’alba. Nel buio, andò in bagno a prepararsi per andare al lavoro. Ero rimasta nella stessa posizione, lei non si accorse di niente quando al volo passò e mi diede un bacio in bocca.
Volevo parlare, ma la mia bocca era asciutta, il mio cuore, tremolante. Le parole non uscivano, forse perché non c’erano. Che cosa avrei dovuto dirle? Ero forse responsabile della sua vita? Ero la sua compagna però, parte della sua vita, avrei avuto il diritto di sapere. Ovviamente, durante la notte, quando presi il cellulare, trovai il film e scoprii che era stato girato sei mesi fa. Mentre noi eravamo insieme, nella stessa casa, mentre avevamo sicuramente fatto l’amore il giorno prima, il giorno stesso, ed anche il girono dopo. Facevamo sempre l’amore, quasi tutti i giorni, tranne quando avevamo le nostre necessita biologiche. Era crudele il modo in cui lo avevo scoperto, ingiusto e lacerante. Avevo ancora il telecomando in mano. Un oggetto inanimato, nero, con i tasti bianchi. Mentre lei, Serena, era qui, in carne, ossa, e cuore.
Una domanda. Avrei voluto farle una domanda che implicasse tutte le domande. Una sola domanda che racchiudesse l’insieme dei miei dubbi, del mio dolore, del mio scetticismo. Lei si muoveva nel nostro piccolo appartamento. Radiosa come sempre. Continuai ad osservarla fino a quando non fu pronta ad andarsene.
Quando se ne andò, mandai un messaggio al mio datore di lavoro scusandomi per il fatto che non sarei andata al
lavoro. Oltre a non aver dormito, avevo un mal di testa che mi comprimeva il cranio quasi facendomelo esplodere.
Serena aveva notato comunque che qualcosa non andava bene. Quando squillò il mio cellulare, non le risposi. Ero bloccata. Non ce l’avevo con lei, ma nemmeno con me. Non comprendevo e sapevo che qualunque fossero state le risposte non mi sarebbero piaciute. Per cui, ero in crisi. Prostrata, a piangere.
Serena mi chiamò altre volte in modo insistente senza ottenere alcuna risposta. Mi mandò un po di messaggi preoccupati che aprii leggendo senza darle risposta. Verso mezzogiorno, mi alzai finalmente dal letto ed andai sotto la doccia. La feci tutta vestita, piangendo come una disperata.
Uscii dalla doccia e meccanicamente cominciai a mettere le mie cose in varie borse. Ogni cosa che toccavo mi ricordava Serena. Molti oggetti erano intrisi del nostro passato in comune. Non sapevo nemmeno cosa portare via. Molte delle mie cose erano regali suoi, e tra le mie lacrime, sapevo che era la fine, e non avrei voluto portare con me dei ricordi dolorosi.
Verso il pomeriggio, avevo finito di preparare le mie poche cose. Una mia amica aveva un appartamento che condivideva e fortunatamente c’era posto da lei. Un altro mio amico, ex collega, che aveva la macchina e con cui ero rimasta in buoni termini mi venne a prendere poi e mi ci portò.
Volevo lasciare un messaggio a Serena, ma nulla mi veniva da scrivere. Alla fine, riesci a scribacchiare pochi caratteri. Solo il nome del film, il titolo del canale, e sul foglio, lasciai il telecomando.















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