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la casa del killer


di Giobro
10.11.2022    |    4.289    |    8 9.8
"“Ma cosa fai, mi fai male!” Cercavo di divincolarmi mentre farfugliavo quelle parole, era troppo forte e grosso, la doppia presa mi bloccava saldamente..."
L’ultima volta che avevo percorso quei sentieri era lontana nel tempo, circa una quarantina d’anni, il lockdown di quei giorni mi aveva portato a ripercorrerli e, anche se sbiadite, le vecchie immagini impresse nella memoria tornavano reali.

Le campagne intorno al mio paese sono ricoperte di boschi più che altro di leccio, le conosco abbastanza bene, le avevo attraversate un po’ dappertutto inizialmente da bambino con mio padre, con qualche amico o in solitudine. Di solito non ho una meta precisa, seguo i sentieri ma anche no, se voglio arrivare in un luogo a volte lascio la via intrapresa per immergermi nel bosco, risparmiando cosi tempo e a volte chilometri.
Ho un innato senso dell’orientamento difficilmente mi perdo, la posizione del sole mi guida inconsciamente nel dedalo intricato dei rami. In quel momento stavo percorrendo un stradina che rasentava un bosco, sapevo che qualche centinaio di metri oltre quegli alberi con certezza avrei trovato una strada sterrata.

Mi immersi nella boscaglia inizialmente amica ma procedendo man mano sempre più intricata. Notai subito la differenza di età rispetto a quando ero ragazzo. Nei tempi giovanili incurante degli ostacoli sarei avanzato abbassando la testa come un ariete forzando così la sterpaglia inaccessibile. Ora trascorsi gli anni quel metodo risultava inefficace, restavo impigliato nel groviglio dei rovi spinosi del sottobosco, ero costretto continuamente a cambiare direzione per poter proseguire, tornando indietro sui miei passi. L’istinto comunque mi rassicurava che il bosco stava per terminare. L’istinto ne era a conoscenza ma la vista si fermava alla barriera di quella selva oscura che forse nemmeno Dante vide all’inizio della sua Commedia, ma Dante aveva Virgilio.
La tecnologia pensai approfittiamone.
Presi il telefonino e con la mappa vidi che a pochi metri da me il bosco proseguiva ma più rado. Riuscii ad attraversare quell’ostacolo, ora la macchia era ampia e curata, il sottobosco era scomparso, fui rinfrancato da tutto quello spazio riconquistato che facilitava il mio cammino. Un senso di libertà mi regalò una rinnovata energia.

A volte incappavo in luoghi sconosciuti, questo era tra quelli.

Salii per un leggero pendio calpestando rumorosamente il tappeto di foglie, respiravo tranquillamente e beatamente quando fui distratto da qualcosa. Tra i tronchi si materializzò una casa. Non l’avevo mai vista. Non faceva parte, a meno che non fosse stata ristrutturata, dei vecchi edifici costruiti per la caccia dei tempi andati. Ne conoscevo tre nelle vicinanze, una diroccata e due ben mantenute. Questa era diversa era proprio una abitazione, non un cubo o parallelepipedo come le altre. Avvicinandomi mi assalì una certa ansia mista a curiosità.
La casa si svolgeva solamente su un piano, aveva un piccolo portico ed una torretta, c'era anche un piano sottostante parzialmente interrato. Completamente immersa nel folto della boscaglia gli alberi ovunque la sovrastavano, invadendo con le loro branche gli spazi sopra il tetto, sinistra non riceveva mai la luce diretta del sole. Una casa nella eterna penombra.
In che modo si può vivere una casa così! Il rifiuto della luce. L’ansia scaturiva proprio da questo.
Ero giunto sotto il portico, la porta era chiusa, le mura ben tenute, non era in stato di abbandono. Sbirciai dalle finestre, impolverate e trascurate. Le stanze erano vuote non c’era nessuno, come avevo immaginato. Alcune avevano delle tendine, che lasciavano vedere confusamente l’interno, solamente una ne era sprovvista, intravidi così un tavolo, delle sedie ed in fondo un lavello con delle mensole e dei barattoli appoggiati. Completai il perimetro rasentando il piano sottostante con altre finestre ed una porta, posizionate solamente da un lato essendo l’altro interrato.
La soprannominai la casa del killer.
Mi ritrovai di nuovo sotto il portico, dove una panca polverosa era appoggiata al muro. Voltandomi, tirai un sospiro tornando sui miei passi per raggiungere la strada sterrata.
“Che ci fai qui!”
Trasalii, quella voce improvvisa mi fece fare un balzo, esterrefatto mi voltai.
La porta sotto il portico ora era spalancata, un omone con folti baffi mi scrutava con uno sguardo tutt’altro che rassicurante. Era vestito come un tagliaboschi o un cacciatore, una grande camicia a quadri ed un paio di pantaloni con fantasia mimetica, muscoloso ma non palestrato, forse veramente faceva il taglialegna. Mi osservava con sguardo serio ed inquisitorio.
“Perché sbirciavi? ti ho visto sai!”
Ma la casa poco fa era vuota, pensai. Non riuscivo a rispondere. Lo guardai, balbettai qualche parola di scuse. Irremovibile continuò.
“No lo hai visto che il cancello è chiuso?”
“Non vengo dal cancello” replicai “nemmeno so dove si trova. Provengo da laggiù” indicai con la mano la direzione “dal fondo del bosco.” Guardando anche lui da quel lato si stizzì ancora di più.
“Non prendermi per il culo, nemmeno una volpe riuscirebbe ad infilarsi là dentro per quanto è intricato.”
Insistei nella mia tesi.
Non so come dopo poco cambiò atteggiamento cominciando ad essere più conciliante.
Dalla mia mente sparì l’dea del killer.
Dopo qualche altro scambio di parole mi invitò ad entrare.
Varcata la soglia mi avviai verso il tavolo che avevo visto pochi istanti prima, alle mie spalle sentii la porta chiudersi con dei giri di serratura, mi parve strano sentire quella chiusura. Stavo per voltarmi quando violentemente mi afferrò la nuca e con la stessa veemenza fui sbattuto sul tavolo. Nell’urto gli occhiali volarono via per poi fermarsi sul bordo all’angolo opposto a pochi centimetri dal vuoto.
Dalla vita in su mi ritrovai completamente steso sul piano con la faccia schiacciata sul legno rugoso, sentivo l’odore acre della polvere. La guancia mi faceva male ma la mano forte e callosa mi teneva fermo ed immobile. Ansimavo, a fatica vedevo la parete, lui mi stava sopra, respirava con affanno, chinandosi su di me, con il suo alito caldo, all’orecchio mi disse:
“Non mi piacciono i bugiardi, che cazzo ci fai qui, non mi freghi!”
Avevo paura, non trovavo le parole per rispondere, la verità non sarebbe stata creduta. Continuava a spingermi sempre con forza sul piano del tavolo, il suo respiro sapeva di sigaro, rimase così un po’ di tempo. Restai silenzioso. Finalmente si alzò ma la presa rimase ferrea.
“Non rispondi?”
Gridando mi scrollò con violenza, infilò l’altra mano tra il mio corpo ed il tavolo stringendo con forza l’inguine.
“Ma cosa fai, mi fai male!”
Cercavo di divincolarmi mentre farfugliavo quelle parole, era troppo forte e grosso, la doppia presa mi bloccava saldamente.
“Questo è niente, vedrai!” con rabbia allentò la presa, i testicoli mi facevano male. “te li faccio scoppiare i coglioni se non stai fermo.”
Con la mano salì lungo le cosce, slacciò la cintura e sfilandola la gettò in terra non senza difficoltà. La nuca era sempre avvolta dall’altra mano, a seguire i pantaloni tirandoli a terra così lo slip. Cercavo di opporre un minimo di resistenza ma era del tutto inutile. Mi dette uno schiaffo violento sui glutei che mi tolse il respiro. Liberando il collo dalla presa della mano fece un grande respiro.
“Non ti muovere. Hai capito? Non ti conviene!”
Altro respiro.
“Aggrappati con le mani ai lati del tavolo.”
Vomitò quell’ordine con il solito tono gelido, con voce ancora più forte e determinata.
Feci come voleva, non avevo scelta.
Mi allargò le gambe forzando con entrambe le mani all’altezza dell’inguine. Subito dopo mi arrivò una doppietta di sculacciate, una più forte dell’altra. Gridando mi alzai. Non perse tempo, di nuovo mi spinse sul tavolo intimando di non alzarmi.
“Se vuoi alzarti non lo fare, usa le braccia e le mani e stringi il tavolo invece di spingerti in alto.”
Eseguii anche quest’ordine.
Stringevo talmente forte il tavolo che i palmi delle mani mi facevano male. Sculacciava con violenza, senza un ritmo particolare, si accaniva con forza. Gli occhiali vibravano ad ogni colpo ma non caddero.
Di tanto in tanto smetteva come per riposarsi.
L’aria che circolava tra le cosce divaricate ed i testicoli mi dava un rassicurante senso di refrigerio, contrastando il bruciore delle percosse sul corpo. A volte mi carezzava i glutei con delicatezza, entrando tra le natiche con gentilezza, poi di colpo cambiava infilando violentemente il dito nel culo.
“Hai un bel culo, vedessi come è diventato rosso, cazzo quanto mi ecciti!”
Quando il grosso dito entrò trasalii sia per la sorpresa che per il dolore, stringendo l’orifizio non facevo altro che peggiorare le cose. Contorcendomi gemevo. Ma quel dito rimaneva piantato inesorabile esplorando l’interno.
Chinandosi prese la cintura per continuare a colpirmi. Sentivo sferzare l’aria prima che il colpo secco arrivasse a destinazione. Gettò la cintura a terra ed ansimando mi colpì con altri tre o quattro schiaffi, poi smise. Gli ultimi colpi quasi non li sentii, tanto erano indolenziti i glutei, da ultimo mi dette un colpo sui coglioni.
“Rimani così, non ti muovere. Ora mi riposo un po’.”
Non avevo più parlato, anche i gemiti li avevo ridotti al minimo.
Immobile sul piano del tavolo fissavo la parete contando le asperità del muro, minacciose in quella penombra. Le mie mani ancora stringevano saldamente i lati del tavolo. Non riuscivo a vederlo ma sentivo la sua presenza, il suo respiro, i suoi movimenti.
Non stava fermo, i suoi passi tradivano il suo spostarsi nella stanza.
Mosse una sedia, uscì dalla cucina.
La paura iniziale si era trasformata in una sensazione di impotenza e passività. L’attesa era un miscuglio di emozioni miste di paura e curiosità.
Dopo parecchi minuti, simili ad ore tornò rompendo il silenzio.
“Bravo, vedo che ti comporti bene.”
Usava un tono calmo tutt’altro che rassicurante, seguiva uno schema, il suo gioco.
Chissà se ero il primo, per la sua sicurezza non credo.
Fulmineamente si avvicinò sfiorandomi le natiche doloranti con un dito bollente.
Indietreggiò.
“Alzati! Ma non ti voltare.”
Risposi con un si.
“Non hai perso la voce, bene, stai fermo!”
Mi tolse la felpa e la maglia, lo aiutai come potevo. Strisciò con le dita lungo tutta la schiena per finire sulla rotondità dei glutei sino al retro dello scroto. Rabbrividii quando sfiorò la pelle dolorante.
“Voltati!”
Lentamente girai su me stesso, guardando di fronte rimasi incatenato alla sua espressione. Due occhi scuri e severi mi fissavano fermi e duri.
Era nudo!
Si era spogliato. Accorgendosi del mio stupore ghignò soddisfatto.
“Guardami bene, guarda il mio corpo.”
Con divertimento scandì quelle parole.
Aveva la muscolatura di un lavoratore, si rafforzò la mia idea che fosse un taglialegna, massiccio, una leggera pancia rotonda ma nulla più. Avambracci e polpacci grossi e forti, bei polpacci, peloso sul petto. Affermando con le gambe leggermente divaricate, la sua autorità mi lanciò un altro ordine con stizza.
“Guarda il cazzo, Maledizione!” sempre più incazzato continuò “Non lo evitare, era lui poco fa che ti solleticava il culo. Era sveglio ora si è addormentato di nuovo.”
Ecco perché quel dito era così caldo, pensai.
I peli del pube erano una rigogliosa selva scura che verso l’alto con una striscia più diradata si univa a quelli dei pettorali. Come aveva appena detto il cazzo era tranquillo e forte. Pendendo perfettamente al centro dei coglioni sembrava disegnato. Questa perfezione mi distrasse per un attimo.
“Inginocchiati!” un ordine secco.
“Cosa? Dici sul serio?” di getto quelle parole uscirono dalla mia bocca. Non disse nulla, fece un passo rifilandomi un ceffone così violento che tentennai quasi a cadere.
“Devi obbedire, non l’hai ancora capito?”
Tremando stavo per inginocchiarmi quando di nuovo parlò “Aspetta sfilati le scarpe ed i pantaloni.”
Indietreggiò senza togliermi gli occhi di dosso. Tolsi le scarpe, e tirai fuori le gambe da quei vestiti che lui con rabbia aveva tirato ai miei piedi. Rimanendo completamente libero dagli indumenti mi inginocchiai. Si avvicinò lentamente mentre non riuscivo a distaccarmi dal suo sguardo.
“Guarda davanti a te!” Grugnì.
Abbassai lo sguardo.
Si fermò quasi a sfiorare il mio naso con il grande cazzo.
Sentivo l’odore del suo corpo e del suo sesso misto ad un leggero aroma di sapone, pietrificato quasi non respiravo, aveva fatto una doccia da poco.
Con una mano spinse la mia testa verso di lui, serrai la bocca più che potevo, il mio naso affondò tra i peli del pube, spingeva fortissimo, tentavo di staccarmi ma rimanevo incollato a quel groviglio che solleticava le narici. L’odore era più forte, acre e dolciastro, una mistura tra sapone, orina, tabacco e odore del suo cazzo.
Mi tenne così per qualche istante.
Quel pelo filtrava l’aria che cercavo di respirare. L’odore non era disgustoso. Avevo sempre le labbra e gli occhi fortemente serrati, appoggiati al calore della sua pelle. Sganciò la presa, respirai avidamente l’aria in libertà. Rise.
“Apri quella bocca altrimenti te la faccio aprire io e non sarebbe piacevole.”
Il suo cazzo cominciava ad avere un’erezione palpitando di fronte a me. Ad ogni sbalzo era più eretto e duro.
Con dolcezza spinse la testa e la avvicinò.
Dischiusi le labbra sentendo la superficie semisferica della cappella solleticare i bordi della bocca. La aprii ancora e di colpo mi spinse la testa verso di lui ed i suo corpo verso di me. Entrò completamente sino alla gola! La sua forma si stampava sulle mucose interne del palato. Mi aveva immobilizzato in quella posizione, respiravo avidamente con il naso ed una leggera nausea scaturiva da quell’attrito insolito. Avidamente inalavo aria dal naso mentre la saliva riempiva completamente l’interno della bocca. Stantuffava leggermente. Per non perdere l’equilibrio abbracciavo le sue cosce con forza. D’un tratto liberò la bocca dal suo fallo, respirai forte mentre il suo cazzo si ergeva verso di me. Imponente e sfacciato sfrecciava arrogante contro di me.
“Dai lavora! Fai quello che devi fare. Succhia troia!”
Scagliò quelle parole dall’alto della sua potente figura.
Quella frase e quella parola, troia, mi eccitarono.
Questa volta fui io ad avvicinarmi per ingoiarlo con calma. Cominciai a succhiarlo usando la lingua, nuovamente la sua forma scivolava intermittente tra la lingua ed il palato. Assaporai il sapore acidulo della sua secrezione, il gusto mi piaceva. Continuai a fare quello che voleva senza smettere cadenzando il ritmo.
Carezzando le sue cosce raggiunsi i glutei, solleticando voluttuosamente lo spazio tra le natiche. Questo palpare le sue parti intime mi dava un gradito senso di appagamento. Scendendo ancora con le dita cominciai a massaggiare delicatamente i coglioni rugosi. Succhiavo sempre più rapido e veloce.
Mi stavo eccitando sempre più, la paura precedente si stava tramutando in un piacere che comunque cercavo di reprimere. Stavo avendo un inizio di erezione ma lui non se ne accorse.
Improvvisamente sentii gridare troia!
Subito dopo la bocca si riempì di sperma. Cercai di divincolarmi ma come sempre mi teneva saldamente fermo, costringendomi ad ingoiare ogni sua goccia. Quegli schizzi caldi riempirono la bocca di un sapore forte, salato mentre saliva per il naso il classico odore di quel liquido.
La tensione si sciolse, liberò la bocca dal fallo che, ancora in semierezione, scivolò lentamente sulla mia guancia. Con un dito raccolse qualche goccia di sperma, per poi infilarmelo in bocca. Avido succhiai senza prendere ordini.
Rimasi in ginocchio pensando a quel tentativo di erezione poi fallito.
Statuario rimaneva in piedi a gambe leggermente divaricate. Il respiro era tornato calmo e normale. La pancia si alzava e abbassava ritmicamente. Passò qualche minuto. Avevo le ginocchia indolenzite ma non osavo muovermi.
Lo guardavo.
Al centro di quel corpo il suo organo, ormai tranquillo e fermo, ondeggiava impercettibilmente sul leggero movimento dei coglioni.
“Tra poco sarai libero di andartene, ti vestirai ed uscirai da quella porta. Te ne andrai tranquillamente come sei venuto” ghignando seguitò “Tanto tornerai, ne sono sicuro!”
Scandì quelle parole con tono pacato quasi mellifluo.
Mi fece alzare dandomi un piccolo schiaffo, leggero e gentile, di approvazione. Distratto dai miei vestiti in parte ancora sul tavolo, si fermò come per dire qualcosa.
La sua espressione cambiò tornando verso quella autoritaria dell’inizio della nostra conoscenza. Autoritaria ma non violenta come prima.
“Devo andare a pisciare.”
Se ne uscì candidamente con quella frase. Non sapendo cosa rispondere annuii.
“Stupido! Non hai capito o fai finta di non capire, mi devi accompagnare…” sorridendo terminò così la frase.
“Ti prego questo no.”
Era troppo.
La paura mista a soggezione si impadronì di nuovo del mio corpo facendomi tremare.
“Non puoi negarti al tuo padrone.”
Prendendo delicatamente il mio braccio mi guidò con calma verso una porta semiaperta, da cui si intravedeva il bagno.
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