bdsm
La casa del killler - parte seconda
di Giobro
16.11.2022 |
2.778 |
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"Quando la scorsi tra gli alberi la porta era chiusa, questo mi sollevò..."
Il taglialegna, ignorandone il nome lo nominavo così, aveva avuto ragione. Mi trovavo per la quarta volta davanti al cancello, proprio quello, il cancello della casa del killer. Si erge al termine di una radura, isolato ed inutile. Da entrambi i lati permette a chiunque di passare non essendoci recinzioni. Grottesco somigliante più che altro ad una installazione artistica. Per la quarta volta durante quei due mesi lo stavo oltrepassando per raggiungere la casa.
“Perché sono qua?”
A volte mi porgevo questa domanda ad alta voce.
Perché insistevo a tornare se la mia speranza era quella di non trovarlo?
Quel posto non mi ricordava certamente un’esperienza felice, soprattutto per gli ultimi istanti che vi avevo trascorso.
Mi guidò verso il bagno. Ero riluttante, lo sapeva bene.
Una volta dentro mi fece inginocchiare sopra il piatto doccia.
“Tranquillo, poi te ne andrai!”
Divertito pronunciò quelle parole.
Teneva il cazzo in mano rivolto verso di me. Disgustato tremavo.
“Guarda la cappella stupido, anzi… baciala!”
Con delicatezza la sua mano mi spinse verso il prepuzio fino a farmi sfiorare con le labbra il cazzo. Ero rigido come una statua, dinanzi a me vedevo la folta peluria circondare i suoi genitali. Terrorizzato aspettavo…
Anche lui aspettava, attendeva il momento propizio.
Non mi toglieva gli occhi di dosso.
Per respirare un po’ meglio aprii leggermente la bocca.
Non perse tempo togliendo la mano esplose.
Un fiotto caldo e ambrato con una forte pressione penetrò in parte tra le labbra, mi ritrassi schifato cercando inutilmente di non deglutire il poco liquido entrato. Il caldo nascondeva in parte l’aroma comunque disgustoso, l’odore mi nauseava, forte e pungente. Non infierì solamente sulla bocca, indirizzò lo schizzo dapprima sul torace per giungere poi al mio cazzo, bagnando bene i peli del pube ed i coglioni. Poi il gettò diminuì e dopo due o tre ritorni di pressione smise. Abbassandomi la testa si pulì sui miei capelli.
Ancora tremavo. Fortemente scosso trattenevo conati di vomito. Umiliato lo ignorai, non volevo dargli questo piacere.
“Bene sei stato bravo” soddisfatto continuò “non mi sono bagnato, da non crederci.”
Si congedò parlando amichevolmente.
“Ora vado sulla torretta, fatti una doccia poi vattene.”
“A rivederci!”
Detto questo chiuse la porta e sparì.
Mi alzai volevo andarmene prima possibile. Dopo la doccia mi vestii per poi uscire quasi di corsa. Fuori, per la gola amara con un retrogusto che non saprei descrivere, mi appoggiai al tronco di un albero cominciando ad avere forti conati. Una nausea intensa mi stava facendo piegare, cercavo di buttare fuori quel poco liquido inevitabilmente ingerito. Mi aveva umiliato con cattiveria. Non so se dalla torretta mi vide ma sicuramente mi sentì.
Non tornerò mai più qua mi dissi.
Invece eccomi tornato.
Perché? Perche?
Per la quarta volta stavo percorrendo di nuovo quel tratto di strada che portava alla casa. Quando la scorsi tra gli alberi la porta era chiusa, questo mi sollevò. Come le altre volte mi accinsi a fare il giro dell’isolato. Le finestre erano scure nessuna luce all’interno. Risalendo giunsi di nuovo al portico. Girato l’angolo raggelai. La porta era aperta. Mi bloccai. Volendo sarei potuto entrare. La porta spalancata era un invito, potevo anche girare sui miei passi ed andarmene. Strane emozioni vibravano tra la pancia e l’inguine. Entrare o andar via. Decisero le mie gambe, varcai la soglia.
“Perché non scappo via perche!”
Ero immobile dentro la stanza. Avevo fatto solo un passo. Nella semioscurità vidi una sedia posizionata al centro. Alle mie spalle sentivo alitare l’aria della libertà.
“Chiudi la porta cosa aspetti!”
La solita voce autoritaria rotolò giù dalle scale.
Mi voltai chiusi la porta sbattendola senza intenzione. Notai che la maniglia era stata tolta, non avrei potuto aprirla di nuovo. Rimasi attonito quando un nuovo ordine mi raggiunse.
“Togliti i vestiti, mettili sulla sedia. Sali le scale e vieni su completamente nudo.”
Più chiaro non poteva essere.
Lentamente obbedii mi tolsi tutto quello che c’era da togliere, compreso l’orologio, solamente gli occhiali rimasero al loro posto. La scala saliva con un percorso ad elle. Svoltato l’angolo fui investito da un chiarore proveniente dalla stanza ricavata nella torretta.
Gradino dopo gradino mi avvicinavo alla meta.
La sua figura si materializzò maestosa, gambe divaricate, nudo, indossava solo un paio di scarpe da lavoro e calzini.
Mi scrutava dall’alto verso il basso.
Ero ancora due gradini sotto il livello del pavimento. Il messaggio era chiaro.
Io ti domino.
Deglutendo giunsi dinanzi a lui mentre si stava facendo da parte.
Ora vedevo bene la stanza. Era molto luminosa, c’erano tre finestre su ogni lato. Malgrado le chiome degli alberi la luce filtrava copiosa, diffusa dalle foglie. I suoi vestiti erano buttati disordinatamente alla base di una parete. Certamente si era spogliato non appena mi aveva visto. Più o meno al centro della stanza c’era un lettino, simile a quelli usati per fare i massaggi forse leggermente più grande, interamente rivestito di un tessuto nero o di pelle, niente affatto rassicurante. Su una delle pareti appena sotto le finestre era poggiato un tavolo stretto e lungo. Sopra c’erano due fruste di pelle nera, una frustino da cavallo, quattro braccialetti di cuoio, catene ed altri oggetti di metallo e plastica che non saprei definire. Trasecolai cominciavo ad intuire qualcosa. A terra uno scatolone conteneva grandi candelotti rossi somiglianti a quelli usati per i centritavola.
Lo guardai con aria interrogativa
“Sei proprio un coglione! Sei tornato!” Rise
“Ricordi? Te l’avevo detto.”
Deglutii.
“Lo sai perché sei un coglione?”
Non risposi.
“Ti ho visto la volta scorsa. Non hai bussato, non ti ho aperto, te ne sei andato. Oggi ti ho fatto il piacere di aprire la porta.”
Fui distratto dalla maniglia smontata poggiata su di una mensola di quelle finestre.
“Ecco perché sei coglione, se la volta scorsa bussavi saresti potuto entrare.”
Se sapessi che le volte erano più di una come mi chiameresti, pensai.
Guardandomi dalla punta dei piedi fin sopra i capelli sentenziò
“Vedi quello scatolone per terra con quelle candele?”
“Si” risposi
“Bene, prendine alcune e mettile sulle mensole delle finestre”
Che cosa assurda.
“Vai, cosa aspetti!”
Feci quello che voleva. Le posizionai sulle finestre nei lati ove non c’era la scala.
Quindi mi voltai guardandolo in modo strano.
“Bene! Non devi pensare, devi eseguire ciò che ti si chiede”
Abbassai la testa come per assentire, ma in realtà non riuscivo a sostenere il suo sguardo.
Mi tolse gli occhiali impartendo un altro ordine.
“Stenditi sul letto, con gli occhi rivolti al soffitto.”
Raggiunsi il letto, mi sedetti e con una torsione mi ritrovai nella posizione supina da lui voluta.
Dopo qualche istante si mosse appoggiandosi con le gambe divaricate sul letto dietro la mia testa. Si piegò obliquamente verso di me.
“Guardami!”
Non sapendo bene come comportarmi piegai la testa indietro, facendola affondare leggermente nel materasso. Da quella prospettiva sembrava gigantesco. Tra le cosce ben tornite il cazzo a piombo pendeva verso i miei occhi. Nuovamente pendeva tra i coglioni pelosi come la volta precedente, la prima volta che l’avevo visto. Forse era proprio questo ciò che mi aveva spinto a tornare, trovavo quell’immagine bella, ipnotica. L’aveva capito e ci giocava. Faceva dondolare quell’arnese sopra il mio naso, inspiravo fortemente per cercare di sentire il suo odore, non c’era sapone a coprire la fragranza della pelle. L’aria attraversava le mie narici portando aroma di sesso e sudore, mi piaceva. Ma quell’attimo finì.
Si diresse verso il tavolo per prendere qualcosa.
Rimasi a guardare il soffitto.
Tornò sui suoi passi, mi prese il braccio, infilandomi al polso uno di quei bracciali di cuoio. Ripeté la stessa cosa per l’altro polso e per le caviglie. Quindi li fissò al letto con le catene. Mi ritrovai immobilizzato con le gambe divaricate in una figura che ricordava l’uomo vitruviano di Leonardo.
Preoccupato esclamai
“Ma cosa vuoi farmi, perché”
Perché ero tornato? Perché ero immobilizzato? Perché sono un coglione! Esattamente come aveva anticipato lui.
Spostandosi verso il fondo del letto, non rispose.
Aveva un’espressione asettica. scrutandomi insistentemente non mi toglieva gli occhi di dosso. Il suo sguardo dal volto scendeva sino all’inguine, benché nudo mi sentivo ancora più spogliato e vulnerabile con l’anima stracciata. Imbarazzato cercai di muovermi, non riuscivo le catene mi trattenevano, ogni sforzo era inutile. Ora una disperazione dalle viscere scendeva verso l’inguine, sensazioni strane circoscritte in quella parte del corpo. Lui rimaneva muto. Alzai la testa per quel che potevo guardandolo. Trascorse più o meno un quarto d’ora, quel silenzio frustrante mi distruggeva, nessuna parola usciva dalla sua bocca, nulla. Una tortura infima peggiore di quella corporale. Infine sbottai.
“Ma cosa vuoi?”
Non mutò espressione, voltandosi con calma accese le candele che avevo posizionato poi le sue natiche ondeggiando scomparvero verso il basso nelle scale.
Rimasi in compagnia del silenzio, solamente il fruscio dei rami interferiva con quella immobilità. Fermo, avidamente respiravo alzando ed abbassando il diaframma con foga. Cercavo di distrarmi, come quando da bambino malato fissavo il soffitto perdendomi nelle geometrie dei travi. Mi ponevo sempre quella domanda, perché ero tornato? Perché il taglialegna era sempre nei miei pensieri comparendo improvviso ed inaspettato? Non mi davo risposte ma quel gioco mi dava un piacere pericoloso perverso e disgraziato.
Era sceso al piano di sotto. Sentivo i suoi passi, l’aprirsi e lo chiudersi di una porta. Lo squillo di un telefonino. Silenzio. Dopo poco uscì dall’abitazione, sbattendo la porta di casa. Guardai verso la finestra, la maniglia non c’era più.
Era uscito! Dove andava? Mi lasciava solo?
Lo sentivo camminare sulle foglie.
Silenzio.
Ricordai di essere nudo. Le emozioni riuscivano a cancellare la mia nudità. Sentivo freddo, anche se si era in giugno. Brividi attraversavano i muscoli facendoli tremare. Il panico con forza si avvinghiava alle mie fibre.
“Se non torna?”
Mi ritrovai a gridare per farmi compagnia.
Era uscito! Mi lasciava solo? Ripetei tra me.
Avrei voluto gridare ancora, preferii il silenzio. Non sentii più nulla, era scomparso. Cercai di muovermi e di strapparmi quei bracciali, tutto inutile. Sudavo nel freddo, respiravo affannosamente guardando in ogni angolo della stanza. Il sudore cementava il corpo su quel tessuto.
Passò altro tempo.
Lo sentii rientrare, i suoi passi raggiunsero le scale.
Ero sollevato, stava tornando, non mi aveva abbandonato.
Rimasi attonito, non era nudo indossava un paio di pantaloni corti di pelle nera molto attillati. Le cosce sembravano scoppiare. Aveva anche una strana imbracatura di pelle e borchie sul torace. Non proferì parola, si sedette sul letto accanto a me. Non smetteva di guardarmi.
Con una mano cominciò a salire dal ginocchio su per la coscia, lentamente, avvicinandosi sempre più all’inguine.
Il mio sguardo era incatenato al suo.
Sentivo la sua mano ormai sotto i coglioni, che solleticava la pelle che li separava dal buco del culo. Poi avvolse lo scroto con quella mano bollente cominciando a massaggiarlo. Non afferravo il senso di tutto ciò, mi stava carezzando. Ero irrigidito ma i massaggi mi rilassavano. Stava risvegliando i miei istinti, mi piaceva ma allo stesso tempo avevo paura. Perché?
Il suo sguardo ipnotico in quel silenzio mi paralizzava.
Ero concentrato sul fuoco che carezzava i coglioni. Salì poi verso il cazzo sfiorandolo. Con uno scatto cercai di divincolarmi. Afferrando con l’altra mano la coscia mi immobilizzò iniziando a masturbarmi.
Il cazzo così stimolato pulsando raggiunse l’erezione.
La sua espressione rimaneva fredda e muta. Tutta quella eccitazione mi sembrava strana, cercavo di reprimerla ma era peggio, si gonfiava sempre più. Lasciò improvvisamente la presa, il cazzo turgido obliquamente si adagiò sui peli del pube.
Si alzò per dirigersi verso una finestra.
Prese una delle candele accese tempo prima.
Tornò tenendola tra le mani, non capivo il suo intento. Nessuna parola usciva dalla sua bocca, parlavano i suoi occhi simili ad una lama. Respiravo sempre più forte, ero annientato psicologicamente.
Voleva proprio quello e ci stava riuscendo. Senz’altro godeva ma lo nascondeva. Seguivo l’avvicinarsi della fiamma. Si sedette di nuovo accennando appena un ghigno. Sempre fissandomi cominciò ad abbassare la candela verso il pube. Sentendo il calore terrorizzato urlai.
“Ma cosa cazzo vuoi fare sei pazzo?”
Mi dimenavo. I Braccialetti però svolgevano egregiamente il loro compito.
La candela obliquamente si stava avvicinando sempre più verso i peli.
Sprofondai nel letto nel ridicolo tentativo di allontanarmi.
Di colpo la ruotò orizzontalmente così la cera cadde copiosa e bollente esattamente sul frenulo, per poi scorrere lungo il pene. Cacciai un urlo per il dolore e la paura, seguito da gemiti intermittenti. La cera, bollente, come mille spilli colpì l’area del frenulo e la cappella. La vista per un attimo sparì, un bagliore colpì i miei occhi. Spinsi in alto il corpo mentre quel fiume caldo scorreva, perdendo calore, verso i coglioni. In pochi secondi si solidificò raffreddandosi. Il cazzo come in un orgasmo nel momento migliore si erse ancora di più per poi cadere e tranquillizzarsi. Il dolore fortissimo e lancinante durò pochissimo.
La calma ritornò, rilassandomi godei di quell’attimo di tranquillità.
Mi fissava sempre non parlando. Era peggiore del dolore fisico quella comunicazione non verbale.
Lo strato di cera discontinuamente ricopriva il cazzo dai coglioni al pube, avvolgendomi in una seconda pelle.
Continuò con le altre candele. Ma il dolore lancinante della prima volta non si ripeté. Ogni tanto gemevo ma non gridai più.
Smise.
Due candele stavano ancora tremolando sul davanzale. Volgendomi le spalle si diresse verso la finestra per guardare fuori. Ero immobile, il cazzo era quasi sparito, ritirandosi la cera si era screpolata avendo meno superficie a cui aggrapparsi. Il turgore esagerato era scomparso. Legato guardavo come sempre il soffitto.
Si avvicinò e chinandosi mi tolse quei bracciali.
“Voltati! Mettiti a pancia sotto”
Ruppe il silenzio.
Interrogativamente lo guardai ma obbedii. Alzandomi per voltarmi il corpo indolenzito fece un strano rumore staccandosi dal letto. La cera, copiosamente, cadde riversandosi sul letto e sui mattoni del pavimento. Mi sistemai come voleva.
Qualche attimo dopo un bruciore intenso investì la mia schiena mentre quel liquido scendendo raggiunse la rotondità del culo. La sorpresa aveva fatto inarcare violentemente il corpo. Gridai respirando goffamente. Versò l’ultimo scampolo di cera liquefatta tra le natiche. Aveva svuotato in un solo istante contemporaneamente la cera delle ultime due candele. Mi venne da piangere affondai la testa nel materasso, per nascondere le lacrime. Il silenzio come sempre ritornò.
Passarono altri minuti. Parlò
“Riposati ora, te lo meriti,”
Dopo una lunga pausa seguitò.
“E’ tardi devo andare via. Tu resta quanto vuoi. Puoi farti una doccia, non mi interessa, puoi anche dormire qua, fai come ti pare. Basta che quando esci chiudi la porta.”
Dirigendosi verso le scale disse un’ultima frase.
“Prima di andartene ripulisci il letto ed il pavimento. La scopa è là vicino le scale.”
Se ne andò.
Sentii sbattere la porta ed il rumore dei suoi passi allontanarsi tra le foglie.
Rimasi sul letto non so per quanto tempo.
Mi distolse il suono del mio cellulare sulla sedia al piano di sotto.
Non scesi.
Alzandomi con le mani cercai di togliermi la cera solidificata, che cadeva copiosamente a terra. Togliendola come potevo dai peli del pube tanto si era aggrovigliata. Ripulii il letto per poi raccoglierla con il porta mondezze. Le candele erano ammucchiate da una parte, le raccolsi rimettendole nella scatola. Riguardai la stanza con il suo contenuto, fortunatamente non aveva usato quelle fruste e quegli strani oggetti di metallo.
Perché avevo sentito il bisogno di tornare, stavo perdendo il lume della ragione.
Mi avviai per le scale, sentivo i coglioni strusciare tra le cosce. Ero nudo, l’avevo dimenticato ancora. Giunsi alla sedia, presi il telefono, numero sconosciuto. Andai in bagno lavandomi solo il viso, altro che doccia e dormire in quella casa, fossi matto una notte qua dentro… da solo… con il pericolo che lui tornasse. Volevo scappare via. Ritornai alla sedia per vestirmi quando il telefono squillò. Numero sconosciuto. Ero indeciso se rispondere, tentennai.
“Pronto?”
Dopo un silenzio finalmente qualcuno parlò.
“Hai finito di pulire?”
Mi si gelò il sangue. Come aveva il mio numero, come l’aveva ottenuto?
“Cazzo! Come fai a sapere il mio numero?” Gridai.
Riagganciò.
Ora poteva trovarmi sempre. Non mi capacitavo.
Mi vestii frettolosamente. Volevo andarmene lontano.
Avviandomi verso la porta mi fermai. Mi tornò in mente che quando scese squillò un cellulare senza che lui rispondesse. Si era chiamato con il mio e aveva memorizzato il numero. Dannazione se l’avessi spento senza pin sarebbe stato inutilizzabile. Proprio vero sono un coglione come aveva ripetuto più volte. Controllai ma il numero della chiamata non compariva, l’aveva cancellato, bastardo!
Sbattendo la porta uscii velocemente per raggiungere la macchina.
Chissà forse stava nascosto tra gli alberi a godersi la scena.
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Vi invitiamo comunque a segnalarci i racconti che pensate non debbano essere pubblicati, sarà nostra premura riesaminare questo racconto.
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