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La Carnefice


di Membro VIP di Annunci69.it vanelsing
08.07.2021    |    412    |    2 8.0
"Giacomo sollevò per un attimo la testa, era strano per lui non risentire il tacco dentro, guardò le budella calde che a contatto con il freddo dell’aria..."
La carnefice

Alla fine la Signora decise per una lettera che doveva confermare il giorno e il luogo preciso. Una lettera quindi sarebbe stata consegnata a mano, per poi essere riportata e bruciata in modo da non lasciare alcuna traccia. La traccia perseguita l’uomo, lo scritto l’inter-testo.

Quando arrivò il messaggio Giacomo era al Pc. Inviava spesso dei messaggi alla Signora D. e la cercava continuamente, ovviamente su dieci messaggi che le inviava lei rispondeva a tre, ma era stata incuriosita da subito dalla propensione al martirio del ragazzo. Un martire si inginocchia di fronte al proprio guasto, e quando crede di riconoscere un sistema eidetico, trova solo se stesso. Lui era completamente ammaliato e affascinato dalla Signora D. , le sue foto, le sue scarpe, i suoi tacchi agivano come droga, come estasi, come l’immagine che aveva sempre sognato della carnefice ideale. Lei aveva la pelle e la bellezza di una ragazzina, una mente superiore e affilata come un rasoio. Aveva giocato con lui, discusso e fiutato la propensione alla morte del ragazzo fin dal primo messaggio, fin dal primo contatto, si era acceso subito qualcosa e Giacomo lo aveva sentito da subito, aveva percepito la crudeltà della Signora D. la quale anche senza dare mai una risposta definitiva dimostrava tutt’altro interesse rispetto alle ordinarie dominatrici nel mondo del sadomaso. Il ragazzo si era avvicinato a questo mondo scavando dentro di sé i limiti di questa sua tendenza, ma aveva subito solo delusioni: tutto limitato, tutto schematizzato, codici, regole, tutto puzzava di morale e di amor-facchino, nessun delirio bacchico, nessuna orgia della carne, quando gli altri parlavano di frustate o di mollette sui capezzoli, lui immaginava di essere legato a testa in giù e sventrato come un maiale, con il sangue fumante che schizzava via dal suo corpo, con le mani di una donna che scavavano dentro di lui facendosi strada tra i suoi organi e lui che dava i suoi ultimi impulsi di vita alla carne rantolando e vibrando ai piedi di una Dea crudele e bella che gli camminava attorno bagnando i tacchi nel suo sangue.
Il giovane si annoiava e passava le giornate disperandosi sulle varie immagini, fantasticando sul suo corpo, sul dolore che avrebbe provato, su quanto sarebbe durato, sulla morte, sugli occhi di lei, parlando con la Signora D. erano venute fuori diverse sfaccettature alle quali lui non aveva mai pensato, così il cumulo di sogni era aumentato; la Signora aveva portato nella sua giovane testa una ventata, un ventaglio di particolari che lo elettrizzavano e lo spaventavano nello stesso tempo. Erano ormai quasi due anni che ne parlavano e avevano affrontato tutti i punti possibili e incrementato di non poco i loro desideri perversi. Ma la Signora D. era troppo razionale per lasciarsi andare ad una storia così pericolosa per la sua immagine e per le conseguenze legali e quindi spesso richiamava Giacomo alla realtà, ma lui insisteva, e insisteva così tanto che quando si presentò l’occasione alla donna di poter realizzare il rituale di morte decisero di incontrarsi, o meglio… decise lei.
Fu in seguito a contatto molto intimo nella magistratura che lei ebbe la sicurezza di poter depistare le tracce da un omicidio doloso e premeditato in una persona scomparsa e mai ritrovata, senza sapere perché, forse un sequestro, forse altro. Non ci sarebbero stati problemi perché non ci sarebbe mai stata autopsia, indagine sul cadavere e altro. Niente sarebbe mai stato trovato, niente di niente. Giacomo sarebbe semplicemente scomparso. Così le disse il suo alto contatto nella giustizia. Un cadavere di fondo non può avere un senso, la direzione che prende è già quella della rassegnazione, sarebbe opportuno lasciare un cadavere alla decomposizione imminente, non violare la sua sacratilà muta, ma tutte queste sono chiacchiere per un incubo.

Bussarono quindi alla porta e Giacomo si spaventò, ma poi pensò che poteva essere semplicemente qualche venditore ambulante, invece aprendo si trovò un uomo sulla trentina con un biglietto e che disse in modo deciso – La Signora vuole che tu lo legga subito e mi dica sì o no.
Fu come se il pavimento si aprisse sotto di lui e precipitasse in una baratro di lame e di terrore, sbiancò in volto, per qualche secondo non respirò nemmeno, era immobile e guardava l’uomo in volto quando questi disse – Forza ragazzo!
Aprì il biglietto tremando, non aveva più forza nelle gambe e dovette sedersi. Il biglietto era freddo e laconico come di solito erano i messaggi della Signora, solo che questa volta non era più un delirio di fantasia, non era più solo un sogno, era la realtà e lui sentiva freddo, molto freddo. Il biglietto diceva:
“Si farà tra una settimana, venerdì, devi venire a M… ci vedremo al Ristorante F. di Via *
Non contattarmi più, non cercarmi più, si parlerà di tutto a voce e avverrà come descritto l’ultima volta.
ps
Spero tu non sia solo un chiacchierone.
Addio.”
Gli mancò il fiato, si gelarono le mani, tremava tutto, non riusciva a parlare. L’uomo alla porta un po’ scocciato disse – Allora? Che facciamo ragazzo? Sì o no?
Giacomo in uno stato di totale incoscienza, a bocca aperta, annuì con la testa, l’uomo disse – Bene! - , e se ne andò.
Si alzò di scatto e andò al computer e senza sapere perché lo spense mentre gli ritornava alla mente quella parte del biglietto “avverrà come descritto l’ultima volta”… si bloccò e ripensò a quell’ultima volta, ma un forte conato di vomito gli salì in gola, si piegò in due su se stesso, cadde a terra in ginocchio e vomitò, ma non c’era niente, era solo saliva e succhi gastrici non altro. Respirava a fatica e si distese a terra quando gli ritornava nella mente “avverrà come descritto l’ultima volta”.
Nel corso del tempo infatti avevano discusso di svariate situazioni, di infiniti rituali, ma Giacomo mostrava una fortissima attrazione per i tacchi, ne era attratto e li vedeva come lo strumento giusto attraverso i quali ricevere la morte e si erano come spontaneamente accordati su una sorta di sbudellamento con il tacco. Lei lo avrebbe legato a pancia in su e lentamente, come lei ha sempre immaginato di farlo, molto lentamente in modo da aumentare il supplizio e il dolore avrebbe appoggiato il tacco nell’ombelico e da lì sarebbe entrata dentro, lo avrebbe bucato, avrebbe spinto fin quando il tacco non sarebbe sprofondato nelle sue viscere calde e poi lo avrebbe sventrato facendole uscire tutte le budella, tra i sussulti e i gemiti, tra il dolore e la paura. Fin quando lui non sarebbe morto.
Ma questo Giacomo lo viveva nel pensiero, nella fantasia e si eccitava, si masturbava su quella scena. Immaginava di addormentarsi di fronte alla bellezza del tacco della Signora D. che lo sventrava, e poi magicamente si sarebbe svegliato e tutto tornato come prima, mentre ora, ora al solo pensiero di doverlo fare era prostrato a terra dal terrore e non aveva forza per respirare. Era confuso, pensieri si susseguivano, pensava alla madre, pensava al cinema, immaginò una tavola apparecchiata e delle sedie rotte.
Una folata di vento fece battere con violenza la finestra e si svegliò, erano le 6 del mattino, lui era tutto sudato tremava ancora, era tutto buio in stanza e pensò di essere già morto, poi si rese conto che la morte era il nulla, che forse nella morte c’era pace, lui soffriva, aveva paura, tremava: era vivo. E la prima cosa alla quale pensò fu “avverrà come descritto l’ultima volta”… si alzò risoluto e si disse “Scapperò, andrò via e non saprà mai più nulla di me, mi cancellerò dal sito e non dovrò mai affrontare tutto questo, sì non morirò, io non morirò” si disse, ed era deciso a scappare, ma per andare dove? Lei non lo avrebbe rincorso, né mai andato a cercare, perché doveva scappare?
Era lui che lo voleva, lei gli offriva solo il modo per uscire dall’inferno che è la vita secondo i suoi desideri, secondo quello che aveva sempre immaginato. Alla fine come preso da un atto di eroismo verso se stesso disse “va bene, cosa sarà mai, tutti alla fine dobbiamo morire. Io lo farò in un modo elegante, ucciso da una bella donna, da un tacco, sarà più facile.” e si preparò mentalmente per andare.
La Signora D. era seduta alla scrivania in legno massiccio che aveva nello studio. Si divertiva a leggere cose al computer e si rilassava immaginando gli occhi di Giacomo all’arrivo del suo biglietto quando improvvisamente bussò alla porta il suo servo. Lo fece entrare e gli chiese in modo risoluto – Allora? - , il servo rispose in modo altrettanto risoluto – Ha detto di sì Signora. – Lei si alzò dalla sedia – Il biglietto?
Il servo porse il biglietto e non riuscì a non squadrarla da capo a piedi.
La Signora D. era bellissima, alta slanciata, con un seno grande al punto giusto e sodo, aveva spalle da adolescente, una pelle di un opaco nitida e liscia come porcellana, folti capelli biondi, magnificamente striati. I tratti del suo viso erano miracolosamente regolari non avevano perso quell’espressione naturale che è tipica della giovinezza, un collo flessuoso e lineare. Quella stessa linea perfetta che si ritrovava nelle labbra sottili, appena sorridenti, maliziose, crudeli sotto il piccolo naso pronunciato e maestoso che mostrava nello stesso tempo qualcosa di spavaldo e appassionato, qualcosa di pericoloso per lei stessa e per gli altri. Ma stupefacenti, veramente stupefacenti erano i suoi occhi, di un grigio cupo con riflessi verdastri, velati da un’ombra di malinconia e di crudeltà, occhi grandi, ma allungati come quelli di una divinità egizia, con ciglia simili a tanti raggi e sopracciglia fiere nella loro linea arcuata.
Prese il biglietto e fece un cenno al servo di andare, lui sparì subito. Quel biglietto che era stato nella mani di Giacomo, ne sentì la paura attraverso la carta e con un sorriso maligno lo gettò nel camino. Camminava lentamente, con lo sguardo fissava il soffitto e mentre il biglietto ardeva contorcendosi tra le fiamme lei camminava in stanza lentamente, i tacchi risuonavano come musica e si adagiò in poltrona. Accavallò le gambe e al contorcersi del biglietto tra le fiamme strinse le labbra quasi a morderle e puntò il tacco a terra facendolo roteare, il biglietto ardeva e le sue unghie affondarono nella pelle della poltrona mentre saliva in viso un sorriso maligno, mosse ancora il tacco a terra e i suoi occhi, i suoi occhi in quel momento ardevano più delle fiamme.

Arrivò il giorno dell’incontro, era sera e lui arrivò al ristorante e si sedette in un angolo, ordinò giusto un bicchiere di vino, aveva bisogno di rilassarsi un po’, e immaginava la Signora D. assieme a quello che sarebbe successo, assieme a quello che gli avrebbe fatto.
La Signora arrivò, era vestita in modo elegantissimo, e aveva un passo talmente deciso che lui si spaventò due se non tre volte per la fermezza che mostrava. Si alzò e fece come per baciarle la mano, ma lei non se ne curò proprio e gli fece cenno di sedersi. Lui accennò balbettando qualcosa, lei rispose con un freddo – Non pensavo fossi così sciocco da venire – E i suoi occhi lo fissarono, quegli occhi così belli dove Giacomo si perdeva, ma nello stesso tempo così cattivi e crudeli, per un attimo fu come se si trovasse legato ai piedi di una piramide in piena notte con lupi ululanti attorno e coccodrilli gli parlavano raccontandogli di Dio, lei veniva portata dal vento e al suo cammino gli uomini si inchinavano, riguardò ancora gli occhi e Giacomo rabbrividì.
Balbettò in modo confusionario un – Signora sono così onorato…-
-Onorato? – disse lei sorridendo in modo malizioso – Tu non sei venuto qui per essere onorato, non siamo ad una cena di piacere, tu sei venuto qui per morire – Giacomo strinse le mani sulle proprie gambe – E voglio che tu ne sia ben consapevole perché il mio piacere così sarà maggiore. –
Il ragazzo non sapeva dove guardare, vedeva delle persone sedute in lontananza al ristorante, le vedeva ridere, scherzare, per lui tutto questo non ci sarebbe stato, pensava che… ma lei interruppe il suo pensiero. – Ascolta, sarò breve, dovrai venire domani mattina alle 7, scenderai con il pullman N* in via* e camminerai a piedi per un’ora verso la contrada *. Ad un certo punto ti troverai di fronte un villetta con un giardino e delle alte piante di quercia, quando arriverai lì aspetterai fuori al cancello, io sarò lì – Lo fissò, vedeva il suo volto spaventatissimo e poteva solo immaginare quello che sarebbe stato quel volto il giorno successivo. Lui riusciva a stento a muoversi, disse solo in modo automatico, quasi ricordando le tante conversazioni in chat – Ma come avverrà?-
Lei disse – Come abbiamo detto l’ultima volta, ulteriori cose le saprai domani… o meglio, le subirai direttamente. Queste sono le regole. – e sorrise fissandolo in volto. Lui la vide così bella.
-Ma posso solo sapere…-
-Abbiamo parlato anche troppo – disse lei – Se domani non sarai alle 7 al posto che ti ho indicato, me ne andrò e non ci rivedremo mai più. Buona cena – disse e si alzò, ma lui fece come per parlarle – Signora… - ma lei era già arrivata alla porta d’uscita.
Restò solo con il bicchiere di vino, non aveva più forza di bere, non aveva forza di fare nulla. Sarebbe dovuto uscire, andare in albergo, prenotare una stanza, cercare di dormire. Riuscì solo a pagare il bicchiere di vino e uscire, gli sembrò un sogno l’averla vista, i suoi occhi l’avevano gelato, ricordava solo quelli, non aveva guardato i tacchi, lui che era così fissato. Non si spiegava come avesse potuto non notarli e nel pensare questo camminava in strada, era dicembre e faceva freddo, ma lui non sentiva niente, solo pensieri su pensieri e si domandava ancora come aveva potuto non notare i tacchi, ma solo quegli occhi così freddi e decisi, quegli occhi che sarebbero stata l’ultima cosa vista. Girò senza meta e senza accorgesi del tempo fin quando non iniziò a spuntare il sole, erano le 5 e doveva prendere il pullman.
Arrivò alla fermata scese e si incamminò per la strada indicata dalla Signora D. al cancello si fermò, erano le 6:30 e restò in piedi, come un ebete. Poteva sedersi o appoggiarsi da qualche parte, ma non le fece, forse perché immaginava fossero i suoi ultimi istanti in cui poteva reggersi con le sue gambe. Pensò ad una lezione di latino quando il professore parlando degli equilibri fece riferimento al beccheggio tipico di piccole imbarcazioni, poi penso a Seneca e ad un certo punto disse tra sé “Tanto prima di questa sera sarà tutto finito”, il pensiero che di lì a poco sarebbe morto lo confortò per un istante. Alle 7 precise il cancello si aprì, lui entrò e barcollando vide in lontananza la Signora che lo attendeva. Era vestita di nero, i capelli sciolti e indossava degli stivali neri con un tacco altissimo, ora il tacco lo notò subito, quel tacco che presto doveva accogliere nel suo corpo, lo guardava mentre si avvicinava, all’inizio gli sembrava un tacco 12, poi si rese conto che forse era di più. Un tacco sottile e cattivo. Probabilmente un 14. Vicino stava per salutarla quando lei disse – Spogliati completamente e stenditi di in questa buca. – Lui guardò quella buca che gli era sfuggita misteriosamente, ed ebbe un brivido. La vedeva fredda ed era coperta di rugiada, doveva essere stata scavata da qualche giorno, ancora si notava la terra smossa. Meccanicamente iniziò a spogliarsi. – Metti i vestiti in quella busta, documenti, tutto quello che hai. – Mentre si spogliava tremava per il freddo e la tensione, ma uno stato di confusione lo aveva assalito, si muoveva come un automa. Il suo corpo nudo a contatto con il freddo mattutino sembrava quasi bagnato, cercava di sollevare i piedi da terra perché gli faceva freddo, respirava a fatica, l’emozione e il terrore salivano, vibrava e una volta nudo mostrò tutto il suo corpo esile. Era di costituzione magra, ma dopo la settimana che aveva passato aveva perso almeno altri 4 o 5 chili. Aveva le spalle larghe, un petto ampio, la pancia piatta, magra e gambe snelle, si stringeva le braccia attorno al corpo e saltellava quasi sul terreno mentre la Signora stava preparando con il suo servo uno strano impasto che lui non capiva. – Metti nella busta i vestiti ti ho detto–. Lui li prese e li fece entrare nel largo sacco che poi lasciò a terra. Si avvicinò meccanicamente alla buca scavata e la guardò. – Aspetta – gli disse la Signora D. – non avere fretta – e sorrise. Lui la guardò era bellissima. Pensava che una settimana fa era nel caldo di casa sua, a fantasticare sulla sua vita futura, aveva sogni, ecc… e ora stava finendo in una fossa. Si fece di nuovo coraggio e si disse “Qualche ora e sarà tutto finito, alla fine è quello che ho sempre voluto, morire per mano di una bella donna.” In quel momento fissava gli stivali della donna, erano stupendi, alti al ginocchio, di pelle elegantissimi e quel tacco che si slanciava in modo aristocratico su tutto l’ambiente che la circondava, gli faceva male al solo guardarlo. Non era più come vederlo in foto, quel tacco era lì, reale e gli sarebbe entrato dentro. Ancora non si spiegava di preciso come, ma lei lo avrebbe spinto fino a entrare nel suo corpo.
Passò un po’ di tempo poi la Signora disse – Inizia a stenderti e metti le braccia e le gambe precisamente dove ci sono i buchi più profondi. – Lui si destò come da un torpore, stava iniziando il vero supplizio, fino ad ora erano state ancora fantasticherie, ma ora lo stupore per quello che stava facendo cresceva e lo spaventava il contatto con quella fossa così fredda a vedersi.
Si adagiò lentamente aveva brividi e si bloccava, cedeva, si rialzava, non sapeva di preciso cosa stesse facendo. – Fa con calma, non c’è fretta – disse la Signora.
Lui disse timidamente – Signora mi stendo proprio? - , lei non rispose, non lo guardava se non di sfuggita. Lui si fece forza, lentamente abbassò la schiena si stese e emise un gemito dovuto al brivido di freddo che gli salì per tutto il corpo. Aveva ancora le gambe piegate. Allungo le braccia lungo i punti più profondi che erano messi sopra la sua testa, emise ancora un gemito e allungò le gambe.
La Signora si voltò e lui vide che il tacco affondava leggermente nel terreno e tremò, vide quel tacco così sottile a alto, ebbe un momento di paura fortissima e se avesse avuto più forza avrebbe accennato a scappare. Ma non era determinato, Giacomo si lasciava trasportare dalle cose, mentre pensava a se stesso sentì – Allungati meglio, stendi le gambe – gli disse. – Così va bene – fece cenno al servo
–Inizia a versare qui sulle braccia. –
Dire che in quel momento gli occhi di Giacomo erano terrorizzati sarebbe dire poco, ma quando vide colare quella calce a presa rapida sulle sue braccia, il freddo, la paura, lo fecero balbettare – Ma Signora, che significa?, balbettò ancora di più – La prego, ma…-
-Zitto – fece lei – e cerca di muoverti il meno possibile altrimenti rovinerai tutto. –
-Signora, la pre… -
-Zitto ho detto, mi ascolti quando parlo, non è niente, stai tranquillo! –
Emise solo dei leggeri gemiti per il freddo, ma emetteva paura da ogni poro, vibrava leggermente e quando il servo aveva ormai finito lui era completamente coperto di calce dai gomiti fino alle mani sopra la sua testa, e dalla gambe fino ai piedi. Ebbe un leggero conato di vomito per il terrore, ma non uscì proprio niente, solo una vibrazione su tutto il corpo. La calce aveva ormai preso, la Signora tastò la sua consistenza salendo sopra con i tacchi, era durissima. Praticamente il fosso era fatto in modo tale da risultare poco profondo nel terreno e molto stretto, in modo che Giacomo non poteva muoversi già naturalmente, la calce faceva il resto. La Signora poteva camminarci sopra normalmente come fosse parte del terreno. Fece un cenno al servo e gli disse – Brucia tutto come pattuito. Ti richiamo io quando sarà morto, ora vai. –
Giacomo rabbrividì, quella frase “quando sarà morto” rimbombava nella sua testa come una campana infinita, si immaginò morto, cadavere, gli venne da piangere, guardò la Signora e voleva pregarla di lasciarlo andare, ma non ebbe la forza di parlare e respirava a fatica per il terrore. Era steso a terra per quel minimo di movimento che gli restava si contorceva, disse in modo del tutto soffiato e come se gli mancasse l’ossigeno – Signora, ho troppo freddo, la prego non respiro – Ma ammutolì quando lei lo guardò. Era fredda, non disse niente, si limitò a fissarlo e per lei era ormai solo un oggetto, non altro. Giacomo capì che non sarebbe servito più a niente parlarle, ma la situazione era troppo assurda e disse ancora con le lacrime agli occhi – Signora, la supplico – scoppiò a piangere e pianse un bel po’. Lei si avvicinò, lo guardava mentre piangeva e mentre si contorceva respirando in modo affannoso. Giacomo non riusciva a fermarsi, implorava, la pregava, lei era ferma, immobile, di ghiaccio e lo guardava fisso negli occhi, il ragazzo pensava a casa sua, al suo letto caldo, aveva paura, tremava e lei godeva di tutti questi attimi, di tutti questi rimpianti di questa vita che stava per prendere. Alla vittima venne una sorta di crisi isterica, piangeva e urlava, e gridò anche aiuto un paio di volte. Sperava qualcuno potesse sentirlo, gridò forte, sempre più forte, e poi un urlo disperato di quello che partono dalla pancia. Sentiva freddo e non voleva più finire così, diceva che voleva tornare a casa, e urlava, iniziò a dire di no, diceva che non lo voleva, che non lo voleva più e poi un no prolungato e coperto dal pianto. E ogni volta che la fissava lei era lì immobile, lo guardava, era una statua, non sembrava umana. Giacomo ripensava a casa sua, a dove si trovava solo ieri e piangeva quando improvvisamente sentì un freddo all’ombelico. Un gelo improvviso che bloccò il pianto. Il volto era coperto di lacrime e la pancia vibrava per i singhiozzi, quando guardando vide precisamente il tacco che puntava nell’ombelico. La suola della scarpa era appoggiata sul lato della pancia e il tacco preciso nell’ombelico, puntava dall’ombelico verso l’inguine, iniziava a premere e la pressione si sentiva sempre di più. Si gelò, e di istinto provo a muovere le braccia, voleva liberarsi, ma era come avere un macigno che gli impedisse i movimenti. – Signora la supplico, non lo voglio più la prego – Lei iniziò la pressione, scendeva lentamente facendo scendere il tacco verso l’inguine di Giacomo che non urlava più, ma era come fosse paralizzato e gli occhi si aprivano sempre di più dal terrore, digrignava i denti.
Sentiva il tacco premere, arrivava quasi al limite del dolore e poi leggermente la Signora tornava indietro, per poi premere di nuovo in modo più deciso e più a fondo. Giacomo non aveva forza, ma quando il tacco premeva emetteva un suono rauco, un deciso rilascio vocalico e sentiva ogni volta come entrasse dentro. Lei lo guardava in modo fisso e deciso e spingeva lentamente ma sempre di più. Giacomo ad un certo punto aprì la bocca e la guardava tutto tremante in viso, era ormai rosso per il dolore, il tacco spingeva al limite, e in alcuni momenti avrebbe voluto entrasse dentro, forse avrebbe sentito meno dolore. La pelle era contratta al massimo, tesa come un palloncino e lui tra la mancanza di ossigeno e il dolore era confuso. Si rese conto che era al limite, lo stivale vibrava, anche la Signora spingeva sempre di più e affondava ormai aumentando e poggiando quasi tutto il peso. Giacomo spalancò la bocca e pronunciò delle parole – Signora… tacco, fa… den… - Un urlo strozzato e si sentì come uno strappo, come quello di un vestito: il tacco era dentro.
Giacomo guardò la Signora con la sorpresa e lo stupore di chi vede un mostro, gli occhi erano spalancati, tremolanti, le sue labbra vibravano, pochi secondi dopo un grido sordo. E poi di nuovo silenzio. Non era come lo aveva immaginato, non sentiva quasi niente e poi come un fuoco gli bruciava dentro. Lui immaginava un tacco che entrava come una penetrazione, mentre ora provava solo un dolore sordo e un fuoco dentro, e sentiva i suoi organi che impazzivano per l’intrusione di questo corpo freddo e duro. La Signora D. assaporava ogni istante, succhiava quegli attimi come un vampiro, sollevò leggermente il tacco che era scivolato dentro, gli diede un attimo per prendere aria e Giacomo respirò di nuovo quando subito giù, fino in fondo. Giacomo urlò e butto gli occhi indietro dal dolore e appoggiò la testa al terreno e gridò, un urlo lungo e doloroso, vibrava tutto e il sangue iniziò a sgorgare dalla ferita. Erano passate due ore e lui sembrava già sfinito.
Ancora un sussulto e delle parole smorzate – Sign…- si alternavano a contorcimenti, a volte dimenava la testa a destra e sinistra. La pancia era ancora tesa, lui era magro, la carne aveva retto bene al trapasso, avvolgeva il tacco in modo elastico, fuoriusciva del sangue dal lato che pulsava leggermente, probabilmente non erano state incisi vasi principali, ma se all’esterno il danno sembrava minimo all’interno il tacco si faceva strada come fosse burro, le budella si contorcevano per l’infiammazione, e vibravano e in tutto quel gelo Giacomo sentì il calore del suo sangue come un conforto. Conforto che subito svaniva quando guardava gli occhi della Signora D. che erano freddi come ghiaccio.
La carnefice entrava con gioia dentro e sentiva le contrazione delle viscere attorno al suo tacco, ne sperimentava i possibili movimenti, muoveva il tacco, e la contrazione delle budella la portava a farlo roteare nella pancia della vittima che si contorceva e quando estraeva iniziava a tirarsi via dei pezzi di budella che venivano lacerati dall’affondo e si staccavano. A volte andava così a fondo che il sangue bagnava anche il tallone dello stivale e degli schizzi salivano sulla parte superiore dello stivale, lei ne gioiva e ritornava dentro solo per vedere come gli occhi del ragazzo avrebbero reagito ad un nuovo affondo.
Giacomo era inerme, si lamentava si contorceva, ma non poteva far altro che subire l’affondo e lo sventramento, sussultava ogni volta che la Signora spingeva e si sentiva come svuotato quando il tacco usciva fuori e si portava pezzi di budella, gli organi si muovevano tutti come fossero collegati e quando le budella iniziarono ad uscire in blocco attorcigliate al tacco, assieme ai rantoli e al dolore, il vedere venir fuori dalla sua pancia le sue interiora lo portarono a piangere. Non era quello che aveva sognato, non era come l’immaginava. Gettato e cementato in una fossa fredda di fango, in una campagna deserta. Solo e sventrato da una donna-demonio che tirava fuori il suo intestino, aveva paura, piangeva, aveva pena di se stesso e uno sfogo forte lo portò a piangere a singhiozzo, ma aveva neanche forza per piangere in modo pieno, Dio gli negava le lacrime e soffriva, si contorceva quando improvvisamente un affondo deciso della Signora D. andò giù, incurvò la caviglia e mise il tacco come in obliquo contraendo al massimo, le budella vibravano, e con la caviglia incurvata estraeva il tacco lentamente non in modo verticale, ma obliquo e la pancia di Giacomo era come gonfiata, si contorceva e urlava ora in modo più deciso e guardava terrorizzato quello che stava accadendo quando un blocco di budella fumanti uscì attorcigliato attorno a tacco che le aveva strappate per bene. Un sussulto forte del ragazzo si accompagnò ad un urlo secco, poi si lasciò andare a testa indietro assaporando per un attimo il calore delle budella che la Signora aveva deposto sul suo petto. Non ritornò più dentro con il tacco, il supplizio durava da ore e si era stancata.
Giacomo sollevò per un attimo la testa, era strano per lui non risentire il tacco dentro, guardò le budella calde che a contatto con il freddo dell’aria fumavano e riversò nuovamente la testa all’indietro rantolando e sentendo crescere l’infiammazione nella viscere come fuoco, il dolore era immenso, un paio di volte ebbe problemi a respirare, deglutiva a fatica, fece un tentativo di muovere le gambe, ma poi si ricordò di quello che era successo, lui stava mezzo sventrato in un fossa fredda e gli organi bruciavano come se gli avessero riversato della lava.
La Signora D. come se niente fosse stato entrò in casa, lo lasciò lì e questo stupì Giacomo, che cercò di chiamarla, ma la sua voce era soffiata, non aveva forza. Solo iniziò a rendersi conto che forse non sarebbe tutto finito così presto come aveva immaginato, era sfinito e rivide comparire la sua carnefice da un’enorme vetrata che dava proprio nel giardino dove lui era mezzo seppellito. Lo guardò per un po’ dalla vetrata e poi si diresse in casa, Giacomo non la vide più, ma si rese conto che era quasi sera. Era stato un giorno intero sotto i colpi del tacco, forse a volte si erano fermati, ero tutto confuso, sfinito, ricordava solo con estremo dolore l’estrazione del blocco di budella finale, quelle budella che erano ancora calde sul suo petto. Appoggiò la testa al terreno e cercò di chiudere gli occhi, sembrava che per un attimo il dolore si stesse attenuando. E riprese a sentire molto freddo. Vedeva come i liquidi un tempo lucenti come specchi e mari e oceani in tempesta dove mostri che ridono lanciano occhi su frecce di fuoco per trafiggergli il cuore. Pensava a una ragazza che baciò una sera in auto mentre pioveva a dirotto, lei si era sposata, amava suo marito, forse in quella notte fredda immaginava ai regali che avrebbe ricevuto. Giacomo avvertì una fitta nella pancia ed emise un gemito, provava a chiamare la Signora, ma invano, non aveva forza.
La Signora D. era in estasi, anche se mostrava estrema freddezza. Andando a casa si fece una doccia, cenò mangiando cose prelibate. Era sola in una casa caldissima, lei così bella e con la sua vittima mezza sventrata fuori al freddo. Un ragazzo che non aveva neanche la minima idea di quello che gli sarebbe capitato, terrorizzato fino alle ossa e che stava rimpiangendo tutto, ogni attimo, che aveva pianto come un bambino mentre lei godeva di ogni suo sussulto, di tutta la sua agonia.
Si rilassò nel suo letto caldo e si abbandonò al sonno, era così felice della sofferenza che aveva causato della vita che stava prendendo a poco alla volta, delle lacrime di quel ragazzo e del terrore, si sentiva come Dio. Il male deve essere fatto senza motivo, dentro di sé la Signora non aveva mai tollerato la vendetta, l’odio, per lei il dolore era potere. La vita non valeva niente e al di fuori delle leggi non c’è nessun limite a quello che un uomo deve fare, non esiste nessun imperativo, solo il piacere. Se il piacere l’avrebbe portata a sventrare un bambino appena nato di fronte agli occhi impietriti della madre, cosa avrebbe potuto impedirlo? Perché fermarsi di fronte alle lacrime, al dolore, all’innocenza? La sola parola le causava rabbia. L’innocenza andava punita, la vita doveva essere offesa, e quanto più erano innocenti tanto più si sarebbe eccitata a punirli e ucciderli come vermi. L’umanità per lei non era niente, solo individui a suo disposizione e dei quali poteva fare quello che voleva sfruttando la sua bellezza. Bellezza che la natura le aveva concesso come a voler fare di lei il suo strumento. La natura era crudele diceva, lei lo sarebbe stata di più. Nessuna pietà, avrebbe piegato anche Dio, ma non potendo si divertiva almeno a torturare i suoi figli che non meritavano alcuna indulgenza. Era così rilassata, il caldo del camino le allietò il sonno, e abbracciò il cuscino.

Giacomo era tra la veglia e il sonno, probabilmente aveva la febbre, ma tutto era come prima con la differenza che le sue budella si erano raffreddate e ora le sentiva fredde e viscide sul petto. Solo il dolore gli sembrava diminuito quando sentì come se il tacco si stesse muovendo dentro il suo ventre e si stupì di come non avesse percepito la Signora avvicinarsi. Ma lei non c’era, tra il tormento e il dolore che stava risalendo pensò che fossero delle contrazioni addominali dovuto allo sbudellamento, ma sentì proprio in modo vivo agitarsi qualcosa dentro il suo corpo. Cercò di nuovo di non pensare ma improvvisamente qualcosa gli camminò sul viso, girò la testa improvvisamente e sputò, era un verme, ebbe un attimo di paura, quando ne sentì un altro che gli passava sul petto e si sistemava vicino alle sue budella e poi sentì di nuovo scavare dentro il suo ventre, quando di nuovo sentì qualcosa sul viso, provò a farlo cadere, ma il movimento era troppo esiguo e preso dalla disperazione diede un morso. Pianse. Sentiva di nuovo qualcosa nel suo ventre e vide come se ne entrasse un altro, probabilmente per gli insetti il suo corpo era caldo ed era una buona tana, lui si chiedeva cosa ci facessero ma loro avevano più diritto alla vita di lui, perché loro lottano per sopravvivere, lui aveva implorato anni una donna affinché lo uccidesse, e ormai per lui non c’era altra via.
I vermi iniziavano a mordere all’interno della pancia e faceva male, per Giacomo non c’era un attimo di riposo, mentre la Signora dormiva comodamente e al caldo, cullata dalle sue lenzuola e dal calore, lui era steso in una fossa al gelo fuori casa sua, sventrato e stuprato da vermi che stavano divorando il suo interno, prese un respiro ed emise un grido. Gridò con tutta la sua forza e il grido si ruppe in pianto, in un pianto disperato. La Signora dal letto sentì l’urlo, sorrise, si tolse i capelli dal volto come se le dessero fastidio, girò la testa e riprese sonno.
Giacomo si disperava, provò ad urlare di nuovo, ma non ebbe forza e poi non sarebbe servito a niente, disse tra le labbra pietà, ma non si sentiva, non si sarebbe sentito neanche a pochi metri e poi chi poteva aiutarlo. Pianse ancora.
La ferità peggiorava, si era infettata e bruciava, parti di pus si alternavano a zone dove il sangue si era indurito, e le budella strozzate avevano spasmi freddi. Si sentiva sempre più debole. Era in delirio, parlava tra le labbra e diceva mamma più volte, vibrava e sentiva i vermi dentro di lui.
Arrivò l’alba, sentì dei rumori in casa ed alcuni vermi come infastiditi dalla luce sparirono, sentiva solo un movimento all’interno dell’addome che lo portava a rantolare, quando attraverso la luce vide la ferità restò impressionato, era infiammata e la pancia si era gonfiata, il suo ventre piatto si era ingrossato e sembrava pieno di pus e acqua. Tentò di scuotersi, ma la sola cosa che ottenne fu un pizzico all’interno, nelle budella. Respirava a fatica quando vide la Signora D. avvicinarsi era bellissima, forse più di ieri, era riposata, era il simbolo dalla vita e del trionfo.
Al suo avvicinarsi quel qualcosa dal ventre uscì, e non era un verme come gli altri, era un vero e proprio scarafaggio, enorme, forse della razza degli scavatori, era grosso almeno quanto due noci e aveva divorato al suo interno la carne per tutta la notte, probabilmente al sentire il rumore dei passi di un vivente era uscito e aveva mostrato tutto il suo schifo, era nero, sporco di sangue e si muoveva come a scatti, aveva della zampe pelose e vibrava tutto, Giacomo quando lo vide emise due sospiri lunghi e si chiedeva come quell’essere ripugnante potesse essere stato tutta la notte dentro il suo corpo, guardò la Signora sperando che lo avrebbe schiacciato, ma lo scarafaggio si era allontanato velocemente.
La Signora D. non poteva che essere contenta del fatto che gli insetti avessero continuato di notte il tormento che lei gli aveva inflitto il giorno.
Quando Giacomo la vide voleva chiederle pietà in qualche modo, ma riuscì solo a farfugliare cose sconnesse. La Signora guardò per bene la ferita e le budella e si rese conto del dolore che doveva aver patito per come si era infiammata e peggiorata ovviamente dagli insetti che avevano scavano all’interno contribuendo all’infezione.
Lo guardò negli occhi, Giacomo provava a dirle che voleva bere, ma non emetteva che suoni sconnessi, cose del tipo - …qu.. a.. .. .a.. a. c. c. c.-
La Signora disse – Devi mangiare qualcosa - , quelle parole gli diedero coraggio, voleva ringraziare, anche se ormai senza forze e pronto alla morte, pensava che assaggiare qualcosa di gustoso gli avrebbe ridato un attimo di gioia, e si sentì felice. La Signora puntò con decisione il tacco nella ferita, nel buco dove aveva penetrato il giorno precedente e affondò, Giacomo ebbe un sussulto fortissimo, lanciò dei rantoli strozzati. La carnefice arrivata a fondo con il tacco, lo mise per bene dentro fino al tallone, prese a girare, Giacomo si fece rosso dal dolore, e gli occhi lacrimavano, gli salì la saliva alla bocca, i vermi non erano niente al confronto di quell’affondo. Il sangue schizzava su per lo stivale, e prese a pulsare, la Signora girò ancora dentro e poi tolse il tacco. Giacomo emise un sospiro profondo, come a prendere ossigeno dopo un’immersione prolungata. Così lei prese un bicchierino lo avvicinò alla ferita e stringendo con le dita fece spruzzare il sangue all’interno. Giacomo riprese a vibrare, sentiva un dolore diverso, ma altrettanto profondo. Subito gli porse il bicchiere sotto le labbra. Giacomo si rifiutava, non voleva bere il suo stesso sangue. Ma la voglia di bagnare le labbra con qualcosa anche per togliersi il gusto di quel verme che aveva morso lo fecero cedere e così bevve tutto il bicchiere, anche se con disgusto. Dopo la Signora prese le budella tra le dita e gliele avvicinò alla bocca, Giacomo serrò i denti. La Signora forzò un po’ la mascella al che il ragazzo aprì la bocca e lei spinse tutte le budella dentro. Aveva conati di vomito, cercava di buttarle fuori, la Signora spingeva dentro con le dita, fino in gola fin quando le ingoiò tutte. Restò con i conati di vomito, ma quando guardò il suo petto vide che non c’erano più le budella, le aveva mangiate tutte.
La Signora si alzò, gli stivali che indossava erano stupendi, e lei sembrava una Dea, il sole la baciava, passò sopra di lui calpestandolo in viso come fosse una pezzo di pietra e rientrò in casa, per mangiare qualcosa.
Gli aveva rotto un po’ il labbro e Giacomo ancora non si rendeva conto di come aveva potuto mangiare le sue budella. La Signora uscì poco dopo, lui nel fosso rantolava e si contorceva per il dolore della ferità che si infiammava sempre di più, rantolava e quando la vide ebbe un sussulto di terrore, voleva pregarla di non fare niente, soffriva già troppo. Guardò lo stivale che puntava, emise delle urla smorzate, ma subito i suoi occhi si dilatarono quando il tacco lentamente iniziò ad affondare nel suo ventre. Per Giacomo iniziò di nuovo l’inferno, e vedeva gli occhi della Signora sempre più infuocati. In quel momento Giacomo sentì fin dentro l’anima che non era come lo aveva immaginato. Sentiva solo dolore e tormento, aveva paura, pensava alla madre, voleva tornare a casa, avrebbe voluto svegliarsi, sapere di aver sognato una delle sue fantasie, invece no. La Signora era lì e godeva di questi suoi attimi di terrore puro, assaporava la sue negazione e con il suo sguardo freddo, fissandolo gli comunicava che non si tornava indietro, che era un viaggio di sola andata. Cercava conforto mentre la carnefice scavava nella sua pancia lui cercava di impietosirla, e non riusciva ormai a chiudere più la bocca dal dolore. Ma lei affondava e lo fissava, muoveva dentro, rigirava il tacco fin quando ad un certo punto Giacomo in piena disperazione gridò – Mi fa mal…- E lei sorrise e affondò di più, poi inclinò il tacco e lui sapeva che quel momento sarebbe stato tremendo, il tacco tirò fuori tutto il pacco intestinale, Giacomo ebbe conati di vomito, arrivarono fiotti di acidi gastrici che aveva rimesso e budella che aveva ingoiato sugli stivali della Signora che stavano depositando le budella fumanti sul petto della ragazzo. A quel punto non percepì neanche la sensazione di caldo, era sfinito, riuscì a farfugliare qualcosa del tipo – Mi aiuti… mi aiuti a morire la prego - , aveva raggiunto il culmine della disperazione. Le budella restarono attaccate leggermente allo stomaco che fuoriusciva per metà, ma erano completamente fuori, non c’era più niente nel suo ventre, gli intestini erano fuori e lui completamente sbudellato sentiva gli altri organi che pulsavano per quella situazione innaturale. Lei lo guardò in modo fisso, lui era a bocca aperta, rassegnato e sperava che lei gli puntasse il tacco alla gola e lo finisse, invece restò così per un bel po’, poi si girò e riandò in casa, era calata la sera.
Giacomo era ormai sfinito, a bocca aperta, ogni respiro era una fatica, rantolava continuamente e sentiva come se fosse diviso in due tanto la ferità gli doleva e si era infiammata. Le budella erano tutte sul suo petto, ma il ventre era pieno d’acqua, di pus, di infiammazione. Desiderava morire ad ogni secondo, provò a trattenere il respiro per uccidersi quando improvvisamente sentì un punto fortissimo nel suo ventre. Era di nuovo lo scarafaggio, prese con più forza della sera precedente a pungere e muoversi al suo interno e gli fece rilasciare il respiro. Emise due gemiti di disperazione, pianse, ma senza lacrime, digrignava i denti e si disperava. Quell’essere schifoso e orribile, con le sue zampe coperte di peli si agitava al suo interno. I vermi iniziarono a passargli sul corpo e dovendo stare a bocca aperta per respirare bene dato lo sfinimento, spesso entravano in bocca e non aveva più la forza di mordere o altro. Emetteva solo dei rantoli nella speranza di farli allontanare. Per alcune versi la notte era peggiore del giorno, sentiva i vermi e gli scarafaggi dentro di lui, lo tormentavano, la ferita stava diventando un vulcano di germi e l’infiammazione era totale, la febbre doveva essere altissima perché passava da momenti di caldo totale a momenti di gelo, sbatteva i denti e provava a chiamare la madre, e rantolava lacrime, emetteva un lamento continuo e in un attimo di disperazione disse ad alta voce, rotto dal pianto e dalla debolezza – voglio morire!
Arrivata la mattina e il sole i vermi si allontanarono, ma lo scarafaggio continuò il suo lavorio fin quando non sentì i passi decisi dello stivale della carnefice.
Giacomo aveva ormai occhi fissi, bocca spalancata, respirava a fatica, la Signora D. lo guardò, gli passò lo stivale sul viso per vedere la reazione e si rese conto che non avrebbe superato il giorno. Subito ebbe un momento di stizza, Giacomo stava finendo e a lei non sarebbe rimasto niente, lo guardò per un bel po’ di tempo, passò lo stivale sulla ferità così da gioire di un suo sussulto. Per quasi un’ora Giacomo si accordò su un lamento vocalico, era tipo una “a” prolungata che emetteva con la bocca aperta in modo continuo e ritmico fin quando la Signora non punto il tacco e andò dentro, ormai entrava con una facilità spaventosa. La pancia era vuota, era solo infiammata e schizzato via tutto il sangue che si era addensato era come entrare nel burro. La pelle non aveva più tensione, il ragazzo era svuotato. non c’era più alcun tipo di resistenza, lo aveva totalmente sventrato, improvvisamente Giacomo ebbe un sussulto, sembrava dovesse vomitare, dilatò gli occhi al massimo e gli uscì un bel po’ di sangue dalla bocca, parte del quale finì sullo stivale che si spingeva sempre più dentro. La pancia reagiva ormai come carne morta sempre più rinsecchita e vuota, lo stivale affondava sempre di più, Giacomo emise un altro fiotto di sangue, questa volta più copioso e gli occhi divennero rossi, aprì la bocca ancora di più, cercava di prendere aria, aveva desiderato morire prima, quando stava bene di fronte al pc e si masturbava parlando con la Signora D. , poi lo aveva desiderato nel mezzo dalla tortura, ma ora che si trovava alla fine voleva vivere, e respirava, apriva la bocca e cercava di respirare tutta l’aria che poteva. La Signora non gli dava tregua affondava sempre di più, continuò così per più di un’ora. Rendendosi conto che erano agli sgoccioli si univa alla noia della Signora, il desiderio di sfruttare fino in fondo quel corpo che ormai poteva dargli sempre di meno e fu non senza rabbia che affondo tutto il tacco dentro, ormai entrava liberamente, affondava come stesse sperimentando qualcosa, affondava e cercava di sentire cosa c’era, ad un tratto sentì come un ostacolo, doveva essere un ossicino, o qualcosa, ci si avvicinava lentamente con lo stivale ormai quasi tutto dentro il ventre di Giacomo, punto il tacco in direzione dell’ossicino e spinse, si sentì un crac e Giacomo ebbe un sussulto fortissimo, e le labbra vibrarono velocissime, poi la testa si sollevò e vomitò del sangue che gli colò tutto sul volto. Lo stivale era ormai tutto dentro, senza più ostacoli, ad un certo punto la Signora si appoggiò tutta e il fegato e lo stomaco uscirono fuori completamente, ormai gli organi erano fuori e lo stivale dentro, completamente trapassato, completamente trapassato Giacomo respirava a fatica. La Signora era sempre più nervosa e dette un paio di colpi forti ai quali Giacomo rispose con un debole sussulto, emettendo dei respiri lunghi. Era vicino alla morte, presto non sarebbe più esistito, di lui non sarebbe rimasto altro che un cumulo di carne, gli altri avrebbero vissuto, lui era lì, stava morendo per mano di una bella Donna, ma non c’era nessun delirio bacchico, non c’era niente di poetico, puzzava, aveva paura, pensava allo schifoso scarafaggio che tornerà nel suo corpo morto e che abiterà quella carne facendone miglior uso di lui. Era disperato e lo stivale era freddo, invidiò in quel momento gli sciocchi che si facevano frustare, che giocavano con i limiti e la morale, lui era sventrato da una donna crudele che cercava fino alla fine di tormentare il suo trapasso; solo allora lui aveva capito che era bella la vita, poteva avere ancora tanto ed era finito sventrato in un fosso e piangeva dentro, non aveva più lacrime e forza ma dentro era un torrente di lacrime e di disperazione. Pensava a Mahler, pensava che - Der Tag ist schön Auf jenen Höhn. La Signora si fermò e lo guardò in modo intenso, muoveva solo lentamente lo stivale che ormai aveva preso il posto degli organi digestivi, Giacomo sollevò il capo con uno sforzo superiore alle sue forze, fissò la donna con terrore, non voleva morire, provò a parlare, ma guardò lo stivale completamente dentro il suo ventre, riguardò la donna e gli scesero due lacrime. Lei era scocciata, si annoiava, guardava i suoi ultimi momenti che gli davano sempre meno gusto. Lui poggiò il capo, spalancò la bocca, provò a respirare, lei affondò lo stivale o lo spinse più dentro che poteva, ma ormai Giacomo era solo una carcassa, emise degli ultimi respiri sempre più lenti, dilatò gli occhi fino allo spasmo, e morì con la bocca aperta e gli occhi dilatati.
Lei diede un colpo per accertarsi, il corpo vibrò, ne diede un altro ma non c’era più nessuna contrazione, si rese conto che era solo lei a dare movimento a quel cumulo di carne macellata. Tolse lo stivale, lo guardò un attimo e innervosita disse – Due anni di preparazione e non duri neanche tre giorni, non valevi proprio niente - .
Lo lasciò lì, il servo lo avrebbe coperto e lei accendendo il computer dopo la doccia rispose al messaggio di un ragazzo, il quale da mesi le chiedeva cosa ne pensasse di dominare fino alla morte, almeno come fantasia. Lei gli rispose – Sarebbe interessante, ma sono cose che possono esistere solo nei migliori incubi.
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