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Diario Jolie Febbraio 2009

12.01.2025 |
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"Non riusciva a liberarsi di quel pensiero ossessivo, quella stretta sul didietro, quel bastone duro e severo che l’aveva aperta in due come una mela..."
Trentasettesimo episodioIl professor Ducré continuava imperterrito le sue lezioni, nonostante fossero rimasti pochissimi oramai, gli studenti del primo anno disposti a seguirlo. L’aula, che nei primi tempi era stata sempre affollata e rumorosa, era divenuta settimana dopo settimana sempre più quieta ed accogliente. Di contro, gli argomenti trattati divenivano di volta in volta sempre più ostici e complicati, al punto che quella settimana Hélène decise che avrebbe anch’essa, smesso di seguirlo.
Fu il primo timido segnale di resa, ed improvvisamente le giornate divennero un po’ più lunghe, con qualche ora in più per rilassarsi o per concentrarsi sullo studio.
La telefonata di sua madre e le concrete minacce che quella le aveva rivolto, rafforzarono in Hélène la convinzione di stare commettendo un grave errore; Adrian non solo non provava alcun sentimento verso di lei, ma la trattava unicamente come un oggetto di sesso, in maniera davvero irriverente oltre che esplicita.
La ragazzotta belga aveva deciso la mattina di quel martedì, che non si sarebbe mai più concessa al cuoco romeno; con un filo d’inquietudine, sapendo bene di non avere opportunità di lì a breve, per sfiorare il vero piacere così come raggiunto l’ultima volta, nell’impeto dell’orgasmo. Ma era pur sempre una persona ragionevole, di buona educazione, e si rendeva conto di quanto quella strana relazione fosse sbagliata e portatrice di grandi disgrazie.
Si preparò quindi la mattina del mercoledì in modo da risultare il meno attraente possibile; con le calze contenitive e le mutande bianche, oltre ai capelli raccolti in una specie di coda di cavallo piuttosto insignificante.
Durante la lezione di Diritto Civile, seduta in fondo all’aula accanto a Chiara, le confidò senza molti giri di parole, di voler evitare ulteriori pasticci con quell’uomo che l’aveva iniziata; la biondina dal canto suo annuì senza scomporsi più di tanto: era probabilmente non scontenta, che Hélène intendesse agire in quel modo; era stato Marco a parlarle in modo davvero pessimo di Adrian, e la decisione di Hélène confermava che non si trattava di un errore.
Si salutarono nel piazzale antistante l’Università, alle sei meno un quarto: Chiara attendeva l’autobus alla fermata completamente affollata di gente, mentre Hélène attraversava la strada di corsa per non fare tardi al lavoro.
Il locale quel pomeriggio era vuoto e silenzioso; vi erano non pochi rimasugli in giro, di quel che era stata la grande festa di carnevale della sera precedente. Hélène entrò in punta di piedi, e subito incrociò lo sguardo di Elle, ancora avvolta in una tuta grigia, che la salutò in modo sobrio e distaccato.
Si recò in bagno guardando di soppiatto dentro alla cucina, in maniera da non venire osservata: vide Gheorghe che giocava col suo telefono, e riconobbe l’ombra scura di Adrian vicino al tavolaccio bianco, che indossava i guanti di plastica.
Hélène si mise la sua camicia bianca, abbottonandosi fino al collo sopra il balconcino nero; era fredda ed impeccabile al punto giusto. La musica latina le ricordava le vecchie serate dell’appartamento, quando venivano a trovarle i ragazzi tutti assieme; entrò nella sala e chiese alla signora Nadia quale fosse il compito che l’attendeva quella volta.
Dovette servire i tavoli vicino all’ingresso, che di norma erano quelli più difficili, essendo piuttosto lontani dalla cucina. Hélène prese diversi ordini, e senza tanta esitazione si recò da Adrian e Gheorghe per riferire tutto quanto.
Si sforzava parecchio di parlare con fare distante ed atteggiamento professionalmente ineccepibile; ma in cuor suo si sentiva ancora piuttosto emozionata, al cospetto di colui che la aveva abusata e maltrattata per ben due volte.
Adrian si limitò ad osservare bofonchiando, come non trovasse per nulla attraente l’acconciatura di Hélène, commentando ad alta voce: “… quella coda te la taglio”.
Passarono almeno tre ore, e la ragazzotta cominciava a prender coscienza d’essere piuttosto forte e distaccata. Ma proprio in quell’istante, come un fulmine a ciel sereno, mentre prendeva in mano due piatti di bistecca dal tavolaccio bianco della cucina, Adrian le si fece vicino e le sussurrò nell’orecchio: “Stasera ti prendo per il culo … grassona”.
Fu un solo attimo, ma Hélène non lo avrebbe mai più dimenticato per tutto il resto della sua vita; le passarono davanti agli occhi diverse istantanee del suo passato, tante altre volte in cui qualcuno l’aveva minacciata paventandole una punizione o qualche altra forma di castigo.
Si fece coraggio ed iniziò a pensare, a come avrebbe potuto fare per potersi proteggere; in fondo sarebbe bastato filare via dal locale senza nemmeno farsi notare, per non incorrere in alcun rischio. Ma come avrebbe poi agito all’indomani, per evitare la collera del cuoco romeno? come si sarebbe presentata dinanzi a lui la sera successiva? Hélène rimuginava tutto il tempo, e presto dovette rientrare in cucina per ordinare tre piatti di verdure grigliate.
Si rivolse a Gheorghe facendo finta d’ignorare Adrian, ma quest’ultimo la scrutava tutto il tempo: aveva capito come la ragazzotta belga non avesse davvero alcuna intenzione di concedersi a lui, ed iniziava a provarne fastidio, il suo orgoglio ne sarebbe risultato incredibilmente ferito.
Allora mentre Hélène si allontanava, Adrian la seguì afferrandola per la coda di cavallo, arrestandola e facendole piuttosto male; quella si girò tutta rossa in viso, ma memore dei pasticci combinati nel locale la settimana precedente, si trattenne dall’alzare la voce. Tuttavia, non nascose affatto una reazione rabbiosa, e fissando il cuoco, disse digrignando i denti: “Cosa vuoi da me!”.
Adrian la trascinò a sé, del tutto noncurante del fatto che Gheorghe li stava osservando, e tirandola ancor di più per i lunghi capelli, fino ad avvicinarle il volto, le rispose: “Non penserai mica di andare senza di me questa sera…”, e le mollò l’ennesimo scapaccione sul retro della gonna, liberandola.
Il resto della serata passò nell’intimo dell’angoscia più profonda; Hélène non sapeva davvero cosa avrebbe potuto fare per evitarlo: arrivò persino a pensare, di poter scrivere un messaggio a Marco oppure a Lele, implorando aiuto.
Ogni minuto che passava, sentiva approssimarsi la sua fine, e temeva per tutto il dolore che avrebbe potuto provare: certamente il cuoco sarebbe stato assai poco delicato con lei, date le terribili premesse.
Ebbe un ultimo timido sussulto di orgoglio, e mentre i tavoli si andavano svuotando lentamente uno ad uno, la ragazzotta belga pensò che avrebbe potuto negarsi esplicitamente ad Adrian, magari adducendo una qualsiasi scusa, quantomeno per rimandare quella pena.
Fu così che attese per qualche istante ancora nel corridoio, man mano che le altre ragazze uscivano ed i camerieri andavano sistemando la sala; se ne stava seduta ferma nella penombra, con le mani aperte sopra le ginocchia. Adrian la notò, ed allora affacciandosi con fare furtivo lungo il corridoio, le diede un buffetto sul viso e con tono di voce ironico e provocante le disse: “Brava la mia grassona … lo vedi che quando vuoi sei brava…”.
Era decisamente troppo; trattenuta contro la sua stessa volontà, costretta ad attendere per subire un qualcosa che in quel momento era per lei peggio d’un abuso, e perfino anche umiliata e derisa. Si alzò in piedi, vide che la sala in quel momento era stranamente vuota, ed istintivamente pensò di prendere il suo cappotto e di provare a fuggire via.
Ma la borsa bianca con il ricambio era posta solamente qualche metro più in là, oltre la porta della cucina; se Hélène avesse indossato il suo cappotto, forse Adrian avrebbe potuto rendersi conto della sua intenzione. Scivolò allora attraverso il corridoio fino a raggiungere la sua borsa, senza venire osservata. Dopodiché passò nuovamente tenendo quella borsa stretta sotto il braccio, tutta quanta trafelata.
Infine, giunta nuovamente nei pressi dell’attaccapanni dove vi era appeso il suo cappotto, pose la borsa sullo sgabello dinanzi a lei, e si guardò intorno.
In quel preciso istante Adrian uscì per andarsene in bagno.
Aveva sfilato via i guanti, e si avvicinò alla porta della toilette fischiettando; fu un solo istante, ed i suoi occhi incrociarono quelli di Hélène. E come spesso succede ai bambini che sanno di avere commesso una marachella, o che sono sul punto di compirne una, anche Hélène lo guardò in modo miseramente esplicito, rivelando nei propri occhi l’infelicissima intenzione di scappare via.
Era un vero affronto, per un carattere fiero e deciso come quello del cuoco romeno; strinse i denti in modo feroce, e trattenendo a stento la voce, allungò il braccio che sembrava lungo e snodato: ed afferrando la mano di Hélène la trascinò via a sé, al punto che il cappotto che quella aveva impugnato, cadde in quell’istante improvvisamente in terra.
Hélène ristette, ma senza urlare né reagire si lasciò tirare via, e presto si ritrovò con quello scellerato dentro alla toilette. Adrian chiuse di forza il chiavistello alle sue spalle, mentre Hélène biascicando parole a bassissima voce, lo implorava: “… noo qui no … ti prego …”.
“Stai zitta … troia!”, riprese lui, dandole ancora un altro sculaccione. Poi la fece rigirare sulle sue scarpette, e la spinse di forza contro il lavandino, piegata sul davanti.
Hélène mugolava, avrebbe voluto gridare. Ma quegli le mise una mano sulla bocca, armeggiando con l’altra all’altezza della sua cintura, in attimi di grande trambusto e concitazione; la ragazzotta belga era oramai piegata dinanzi a lui, con la pancia sospinta interamente contro il lavandino, ed il viso rivolto verso lo specchio, nella luce pallida e soffusa che riempiva lo spazio claustrofobico del bagno.
Il cuoco con un gesto secco e deciso, le sollevò la gonna attorno ai fianchi; vennero fuori le spesse calze contenitive di Hélène, che le ricoprivano la casta mutanda bianca tutta avvolta intorno al sedere; in quell’istante quella riprese a mugolare, con la mano forte di Adrian ancora stretta sulla bocca: “… non lo fare, ti prego non lo fare ti scongiuro …”.
Ma quello già aveva preso di mira l’elastico delle calze, ed apparentemente senza alcuna fatica, gliele abbassò fino poco sopra le ginocchia, lasciandola piegata in avanti con tutta la carne bianca delle cosce in bella mostra. Hélène sembrava quasi un animale da macello, con la sua pelle spessa e trasparente illuminata dalla pallida luce del bagno.
“Adesso poggia le mani sullo specchio e non aprire quella boccaccia … sennò ti ammazzo …”, la minacciò Adrian.
Hélène obbedì terrorizzata, mentre intanto qualcuno stava passando nel corridoio dietro la porta chiusa alle loro spalle.
Fu un solo istante, e questi si sciolse la cintura dei pantaloni aprendoseli sul davanti, ed estraendo il suo mattarello compatto e tosto dalle mutande. Hélène lo sentì immediatamente, come un giocattolo di legno che la sbatteva contro lo slip da un lato.
Osò aprire bocca, e disse a bassa voce, trattenendo a stento le lacrime: “noo dietro no … ti prego …”.
Si ritrovò le mutande abbassate alla stessa altezza delle calze, ed il culo rotondo completamente di fuori, enorme e sproporzionato, dinanzi al pene eretto e bagnato del suo aguzzino. Adrian le disse bofonchiando: “Non ti sei ancora messa a dieta? … mi fai schifo …”.
Hélène prese nuovamente a piangere, avrebbe voluto scappare via, ma era immobilizzata e impotente; quegli le mise una mano in mezzo alle cosce, in basso all’altezza dell’inguine, e subito si rese conto che la ragazzotta non era per nulla bagnata, contrariamente alle volte precedenti.
“Ti faccio vedere io come si fa”, disse ridendo in modo rabbioso, e si sputò sul palmo dell’altra mano, dopodiché le mise direttamente quella mano in mezzo ai glutei bianchi, dilatandoli, facendole sentire il bagnato nel centro, poco sotto il forellino più piccolo. Hélène trasalì raggelata, ed alzò lievemente il busto, scivolando con le mani in basso verso il lavandino; Adrian allora le prese ambedue i polsi da dietro, lasciandole il membro che penzolava ancora piuttosto molle vicino al sedere, e glieli impose sui due lati del lavandino, uno a sinistra, ed uno a destra.
Poi prontamente afferrò il pene, aprendolo e chiudendolo un paio di volte. Con la destra infine dischiuse uno dei due glutei di Hélène, allargandola tutta di lato, e le appoggiò quel bastone in modo piuttosto deciso, nel mezzo, dove l’ano stretto di Hélène si apriva come una timida feritoia.
Guardò la gonna rovesciata della ragazza belga, la schiena di lei riversa sul davanti, con la testa in fondo rivolta contro lo specchio: le afferrò la coda di cavallo costringendola a guardarsi mentre lui le stava alle spalle ed era pronto a sodomizzarla. Hélène aveva le lacrime lungo tutto il viso, piangeva e singhiozzava.
Tenendola sempre per i capelli, prese infine a spingere con l’altra mano il pene, che si faceva strada a fatica in mezzo alla carne bianca e sudata del didietro di Hélène; raggiunse la bocca dell’ano, e spingendo sempre più con precisione nel mezzo, lo sentì lentamente schiudersi, ma non abbastanza.
Decise allora di bagnarla ancora un po’, e lo fece alla stessa maniera, facendole schioccare ambedue le natiche nel mezzo. Poi appoggiò nuovamente il pene, che era grosso e duro da fare spavento, e tirando sempre Hélène per i capelli, le disse: “Non urlare troia”. Lo inserì leggermente con la punta, poi con la destra le afferrò il fianco stringendolo con vigore. Infine, inarcò il bacino e le diede una sferzata improvvisa, sfondandola tutta quanta in un sol colpo.
Hélène emise un urlo penoso, e lui allora dovette nuovamente tapparle la bocca con la sinistra; era probabile che qualcuno da fuori potesse averli sentiti. Prese allora a spingere più forte che poteva, avanti e indietro, ma era come incastrato nel mezzo, nella carne calda e ancora stretta del didietro di lei.
Allora con entrambe le mani, con un gesto imperioso e violento, le afferrò tutto il sedere dilatandolo per bene; poi mosse come per estrarre il pene, ma lo fece unicamente per arretrare, inarcarsi mollemente, ad affondarla una volta per tutte. Hélène urlò nuovamente, e allora qualcuno bussò alla porta, loro non avrebbero mai saputo chi fosse; Adrian rispose con la voce roca e spezzata: “Un attimo ancora …”.
Prese a sodomizzarla con vigore, scuotendola avanti e indietro per i fianchi, con la gonna leggermente scesa in cima, e le calze sempre strette attorno alle ginocchia; la sventurata mugolava con il naso sospinto contro lo specchio, e la coda di cavallo rovesciata da un lato. La sbatacchiava come un oggetto di carne nuda, ed il rumore dei colpi era sordo ed ovattato, ma le sferzate le arrivavano dritte fin dentro allo stomaco, squassandola.
Pochi minuti sarebbero bastati per aprirle il didietro dilatandolo del tutto, lasciandole un foro tondo e scuro in mezzo ai glutei deformati. Ebbe la sciagurata idea di venirle direttamente nell’ano, e lo fece senza alcun rispetto, inondandola dentro e fuori, come uno stretto bicchiere che trabocca di liquido giallo e schifoso.
Continuò a sospingerla anche quando fu asciutto e secco, quasi a volerle fare del male, sentendola tremare tutta in mezzo alle cosce bianche e sulle scarpette nere senza il tacco; poi finalmente estrasse il pene e si tirò frettolosamente su, le mutande e i pantaloni.
In quell’istante il cuoco romeno si fermò ad osservarla, e con compiacimento contemplò quanto di bello le aveva appena fatto: lo spazio sopra l’inguine e nel mezzo era tutto arrossato, e circondava la bocca rotonda dell’orifizio violato, che tremava senza rinchiudersi su sé stesso.
Le mise una mano aperta sul sedere, come a volerle ribadire il suo dominio e la sua forza. Poi senza aggiungere nulla, si aprì la porta alle spalle e filò via. Hélène prese a piangere in modo ininterrotto, tremava disperata davanti allo specchio, con i capelli che nel frattempo si era sciolti, davanti al viso.
Rimase almeno altri cinque minuti così, piegata in avanti con il sedere di fuori, a piangere e a singhiozzare amaramente come una bambina, senza alcuna soluzione di continuità.
Dopo un po’ si rassettò le sue mutande bianche e le calze lacrimando sempre in modo accorato, con le guance bagnate e gli occhi umidi, mentre fuori nel corridoio alcune voci di uomini rimbombavano minacciose.
Trovò la forza di ripulirsi il viso, ma non di liberarsi dei liquidi appiccicosi che avvertiva ancora in basso, nel mezzo.
Uscì dal bagno e raccolse il suo cappotto, cercando di non incontrare nessuno lungo il corridoio; prese la borsa bianca e si mosse nervosamente. Ma proprio mentre usciva dal locale per andarsene via verso la fermata, intravide la solita macchina scura parcheggiata lì di fuori, e Jan in piedi presso lo sportello: e così trasalì nuovamente. Quegli la chiamò balbettando, non ricordava il suo nome e si limitava a gesti e versi da scimpanzé.
Hélène corse via tutta trafelata, discese lungo la strada arrancando, attraversò il semaforo e presto giunse alla fermata successiva, dove nessuno la seguiva. Arrivò a casa nel sottoscala buio, a grande fatica: tremava ancora come una foglia al vento, ed erano quasi le due di notte.
Trentottesimo episodio
Il sedere continuò a farle molto male per almeno altri tre giorni di seguito. Non riusciva a liberarsi di quel pensiero ossessivo, quella stretta sul didietro, quel bastone duro e severo che l’aveva aperta in due come una mela. Hélène era sprofondata in un mutismo inspiegabile, al punto che presto le sue due coinquiline iniziarono a preoccuparsi per lei.
La più irriverente, era come al solito Paula; l’argentina la provocava in modo pettegolo e irrispettoso: che cosa mai le aveva combinato il suo cuoco maschio, domandava. Chiara aveva intuito perfettamente, come potessero esserci stati dei problemi. Hélène era stata quasi stuprata e violentata, anche se si trattava dello stesso uomo al quale ella s’era già concessa, apparentemente con piena volontà e consenso, per ben due volte nel corso della precedente settimana.
Per sua fortuna, tutto quanto si risolse ben presto in pura e semplice indifferenza: Adrian aveva preso completamente ad ignorarla; la trattava semplicemente come una cameriera, fissandola sempre sul davanti ma quasi mai negli occhi. Era finito tutto, improvvisamente, quella sera dentro al bagno del locale; all’impeto di quell’inculata così irruenta e penosa.
Tutti si resero conto, che tra di loro non vi erano più alcuno sguardo né alcuna comunicazione. La signora Nadia fu la prima a non nascondere a Hélène la sua soddisfazione, e riprese quindi a trattarla in modo affabile, come al principio.
In quei giorni, la ragazza belga iniziò a prepararsi assieme a Chiara, per l’esame di Diritto Canonico, previsto nel mese d’aprile; nel frattempo, le serate al locale erano divenute di gran lunga più faticose, ora che Elle aveva lasciato il lavoro per tornarsene a casa sua. Non era stata sostituita, con la solita giustificazione che gli affari non stessero andando troppo bene.
Ma la sua assenza si notava parecchio, soprattutto quando vi erano delle grandi tavolate da servire, e molti dettagli importanti da tenere assieme. Quella settimana si concluse con la Festa della Donna, di domenica, durante la quale la signora Nadia offrì a tutte quante le cameriere del locale un simpatico brindisi.
Hélène si stava lentamente abituando all’indifferenza di Adrian, divenuta giorno dopo giorno sempre più simile, ad una sorta di non troppo velato e subdolo disprezzo. L’aveva abusata e maltrattata, ma era a questo punto evidente, come quegli non la trovasse neanche un minimo attraente e neppure desiderabile; che l’avesse fatta sua unicamente per giocare con lei o per umiliarla, era l’atroce sospetto che la ragazza belga nutriva oramai da alcuni giorni.
Ne parlò con Chiara in modo aperto, non nascondendole neppure una certa amarezza; e la coinquilina bionda replicò con grande rassegnazione, osservando come taluni uomini alla pari di colui che l’aveva iniziata, provino un piacere smisurato, nel trattare le donne come se fossero le loro povere schiave; facendole intimamente sentire come delle pure nullità. O come delle stupide bambole di gomma.
Hélène ammise di essersi sentita proprio così, con il suo cuoco romeno. Ma ciò che ella non avrebbe assolutamente rivelato, per nessunissima ragione al mondo, era il fatto che era proprio quel tipo di sensazione, nell’angolo più recondito e oscuro del suo intimo, a provocarle un assurdo ed inconfessabile piacere.
Il fastidio provato durante quei momenti d’abuso, improvvisamente s’era volto in una fonte inesauribile di perversione e d’eccitazione, in modo vergognosamente indecente; fino al punto che una di quelle sere, Hélène si toccò nel letto ripensando agli istanti in cui era stata spiata da Jan, mentre Adrian la prendeva sul divano.
Proseguirono studiando, con l’esame che era previsto solamente di lì ad un mese, con buona lena e grande determinazione. Ma giorno dopo giorno, Hélène sentiva nuovamente montare la sua voluttà, in un crescendo mai provato prima d’allora, una sorta di china depravata ed ossessiva. Riprese ad indossare il suo intimo smaccatamente sensuale, senza sapere nemmeno quale fosse la ragione.
E la sera di quel venerdì di marzo, Hélène si rese conto di desiderare ancora una volta, che Adrian l’abusasse. Come una gatta in calore, che passa il suo tempo a strusciarsi contro tutti gli spigoli appuntiti che essa incontra, quella sera Hélène entrava e usciva da quella cucina spesso, decisamente troppo spesso; il cuoco romeno, che certamente aveva fin dal principio notato, quel pericoloso cambio di atteggiamento, prese allora a stare al gioco in maniera volgare e spudorata. Dapprima tastandole il sedere una volta ancora, mentre Hélène passava imprudentemente nelle sue vicinanze, poi appoggiandole direttamente una mano sul pube, senza davvero alcun ritegno, facendola trasalire.
Il peggio sarebbe accaduto sul finire, quando Hélène prelevò dal tavolaccio bianco un intero vassoio di flute ripieni al sorbetto di limone. Sollevò quel vassoio e volse le spalle ad Adrian, che intanto aveva preso a guardarla.
Gheorghe era girato di lato, stava mettendo diversi piatti dentro alla lavastoviglie facendo non poco rumore; Adrian capì che avrebbe potuto fare di Hélène, tutto ciò che egli voleva: ed allora la fermò trattenendola per un fianco. In quell’istante la ragazzotta ristette immobile in piedi, col vassoio in delicato equilibrio fermo tra le mani.
Non poteva muoversi né voltarsi, altrimenti i flute di sorbetto disposti sul vassoio si sarebbero sicuramente rovesciati creando un vero disastro; attese allora che Adrian le sollevasse inopinatamente la gonna sul didietro, fino a scoprirle per intero il sedere bianco, adornato da un filino nero invisibile e dalla sua corona di delicato pizzo in cima.
Le affondò ambedue le mani, con i suoi guanti trasparenti, nelle natiche molli e tremolanti, stringendole e rilasciandole diverse volte, sempre con la gonna ben alzata; i bicchierini iniziarono a tintinnare miseramente nel vassoio, senza rovesciarsi. Hélène in quell’istante socchiuse gli occhi, sentiva quelle mani affondarla nella pelle e nell’animo, umiliandola e facendola godere; fu prossima a raggiungere anche un assurdo orgasmo, ferma in piedi come una stupida, col vassoio sempre stretto tra le mani.
Adrian la palpeggiò a lungo, come e peggio di una bestia, sentendole la pelle vibrare come la superficie morbida di un tamburo. La liberò unicamente quando udì dei passi nel corridoio; Rosaleen si affacciava nella cucina, e vide Hélène in piedi con il vassoio sempre stretto nelle mani, Adrian alle sue spalle che frettolosamente le rimetteva giù la gonna, e Gheorghe che da lontano le fissava il sedere. Spalancò la bocca, con grande stupore.
Hélène filò via senza cambiarsi e senza attendere nemmeno un solo istante, quando giunse l’ora, in preda ad uno stato di grande vergogna e di terribile confusione, e con la certezza di avere combinato un nuovo, enorme pasticcio; l’indomani tutte quante le cameriere, e la signora Nadia, lo avrebbero saputo, e si sarebbero inesorabilmente prese gioco di lei e della sua incorreggibile scelleratezza.
Trentanovesimo episodio
Hélène si dilaniava tra lunghi momenti di sobrietà e rigore, ed episodi di inopinata e irrefrenabile superficialità. Quella mattina provava infinita vergogna, per il fattaccio combinato la sera precedente: essersi fatta toccare in quel modo da Adrian, praticamente in maniera pubblica ed esplicita, al punto tale che anche Rosaleen aveva potuto vederli, significava avere davvero oltrepassato ogni limite.
Si vergognava di sé stessa e avrebbe voluto ricominciare tutto quanto daccapo: riabilitare la propria dignità e la propria reputazione, che erano state oramai senza alcun dubbio compromesse; ma poi le bastava unicamente incorrere in un pensiero inappropriato, per sprofondare nuovamente nel baratro della sua ossessione più perversa.
Si domandava se anche per le altre ragazze fosse lo stesso: se tutte quante provassero i suoi medesimi bollori di stomaco e gli stessi suoi inconfessabili desideri; nessun’altra poteva certamente dirsi talmente scellerata e priva di dignità, da essersi resa ridicola così come aveva fatto lei.
Era ovvio che Hélène avrebbe dovuto far di tutto, pur di mantenere una propria precisa forma di disciplina e di prudenza. Stabilì pertanto, in un istante di grande freddezza e determinazione, alcuni principi cui si sarebbe rigorosamente attenuta, nei giorni a seguire: non avrebbe mai più indossato le sue calze autoreggenti, nonostante fossero davvero molto utili e pratiche; avrebbe anche messo da parte tutte le mutandine più succinte e vistose, dal momento che non servivano a nulla.
Decise tuttavia di continuare ad indossare il suo balconcino, in considerazione del fatto che sembrava piacere agli uomini. E di certo in fondo, nella sua vita Hélène tutto avrebbe voluto divenire, fuorché una monaca di clausura.
Adrian era piuttosto serio ed accigliato quella sera; la cosa ovviamente non dispiacque per nulla a Hélène. Appariva a prima vista persino inquieto, non certo la medesima persona irruenta di sempre; vi fu moltissimo lavoro da sbrigare, e ancora una volta l’assenza di Elle si fece notare in modo evidente, specialmente sul finire della serata, quando c’era da preparare il conto per diversi tavoli.
La cameriera sassone era stata infatti, per molto tempo l’unica cui fosse consentito d’aprire la cassa del denaro con le chiavi. Questo permetteva alla signora Nadia di dividere l’onere dei conti, e di portare anche il resto in banconote ai vari tavoli, velocizzando di molto le operazioni.
Dopo le dimissioni di Elle, la grande responsabilità era stata affidata a Cathy, la cameriera bionda altrettanto prudente ed esperta. Ma quest’ultima, al contrario di Elle, nutriva un’incrollabile fiducia nei confronti delle proprie colleghe, per cui spesso lasciava che le altre cameriere portassero da sole il denaro, per poi prelevare dalla cassa il resto.
La signora Nadia quella sera avvertiva un’inspiegabile sonnolenza, aveva bevuto la sua solita spremuta al limone con lo zucchero, e adesso non riusciva proprio più a tenere gli occhi aperti; era una donna fiera ed orgogliosa, per cui andò avanti tutto il tempo con la testa che le vacillava.
Hélène andava servendo, tutta compunta i tavoli dalle parti dell’ingresso; mentre portava via alcuni piatti e liberava la tovaglia dov’erano stati precedentemente seduti alcuni giovani, intravide con grande stupore, la sagoma bassa e sbilenca di Jan che attraversava la porta a vetri, entrando in modo furtivo dentro il locale stracolmo di persone.
Era stata lungamente istruita, sulla necessità di dare sempre cordialmente il benvenuto, a tutti coloro che entrassero dentro il locale; e così fece anche stavolta, dopo il primo istante di smarrimento, nel vedere colui che l’aveva spiata in maniera indecente e vergognosa poche settimane addietro.
Teneva una pila di piatti stretti vicino al grembo, ma volle fare per bene e fino in fondo il suo dovere, per cui voltandosi leggermente sul lato destro, nella direzione della porta a vetri, sorrise a Jan in modo palesemente innaturale e con evidente imbarazzo. Gli disse: “Buonasera signore, è solo?”.
Quegli rispose in modo incomprensibile, con un’espressione del viso ironica e indecifrabile; Hélène allora gli si fece più vicina, ed avvertì anche un discreto mal odore. Lo lasciò nei pressi della lunga barra, dove erano disposti i calici del vino, apparentemente senza interessarsi più di tanto a lui.
Quando entrò nella cucina, Hélène riferì ad Adrian con tono di voce fermo e preciso, di avere veduto il suo compare all’interno del locale aggirarsi tra i tavoli, forse nell’intento di bere qualcosa. Quegli la respinse con un’insolita vena nervosa, era evidentemente più irascibile e adirato del solito, liquidandola di gran fretta: “Che cosa ti interessa bellezza …vai di là e servi i tavoli … invece di farmi perdere tempo”.
Fu talmente rude e scortese, che Hélène provò un forte sentimento di disagio nei suoi confronti.
Uscì dalla cucina, e di Jan non vi era più in giro alcuna traccia. Lo cercò dapprima nella sala centrale, ed in ultimo in quella vicino all’ingresso; ebbe persino lo scrupolo di domandare a Cathy, se per caso avesse veduto un uomo basso e buffo, e leggermente claudicante. Era un assiduo conoscente di Adrian, aggiunse senza alcuna malizia.
Avrebbe voluto fare per bene il proprio dovere, e capire se qualche cameriera l’avesse infine servito, o se quegli fosse piuttosto uscito dal locale tutto solo e scontento; Cathy rispose di non avere visto assolutamente nulla.
Ma proprio in quel precisissimo istante, come travolta da una scossa elettrica improvvisa, la cameriera bionda trasalì raggelata: si batté con una mano aperta la fronte, esclamando tutta ad un tratto a gran voce: “La cassa, diavolo la cassa!”.
Erano sparite diverse banconote, per il valore di oltre tremila euro. La signora Nadia dovette riprendersi immediatamente dal suo incomprensibile ed inusuale torpore; e subito chiamò a raccolta Cathy, in un faccia a faccia durissimo, consumato dietro la barra di legno, che non passò certamente inosservato nemmeno ai tanti clienti seduti dentro il locale.
Cathy allargava di continuo le braccia, ma la signora Nadia le puntava il dito addosso a ripetizione, minacciandola. La cameriera bionda dovette pertanto riferire tutto quanto, compresi i dettagli che le aveva rivelato Hélène: un uomo basso e leggermente zoppo era entrato nel locale, per poi uscirne subito dopo, apparentemente senza consumare nulla.
La signora Nadia telefonò immediatamente al marito, il quale come tutti i sabati, s’andava trastullando in qualche luogo poco raccomandabile, con le carte da poker e con la roulette. Lo chiamò, e quegli diede immediata disposizione, di tenere tutti i camerieri e i cuochi chiusi dentro il locale, fintanto che tutti i clienti non fossero andati via, e fece intendere che si sarebbe precipitato sul posto di lì a poco.
Hélène era agitata e turbata: era abbastanza evidente come potesse essere stato proprio Jan, a fare sparire il denaro. Si domandava tra sé e sé, se avrebbe dovuto confessare il proprio sospetto, e quali sarebbero state alla fine le conseguenze per lei. Non c’era da scherzare con quella gente, rifletteva.
Il pensiero andò ad Adrian, con un certo timore per la possibile reazione che quegli avrebbe potuto avere, qualora Hélène avesse parlato in modo accurato. E subitaneamente, la verità apparve ai suoi occhi chiara e lampante: lo strano atteggiamento esibito dal cuoco romeno durante l’intera serata, la sua rabbiosa reazione quando lei era entrata in cucina per riferirgli di avere veduto Jan; evidentemente s’era trattato di un piano architettato con cura nei minimi dettagli da entrambi.
E Hélène non poteva certo sapere, che la spremuta al limone della signora Nadia, la stessa che quella beveva tutte le sere, era stata sapientemente ritoccata con abbondanti dosi di sonnifero, così da farla intorpidire e quasi addormentare.
Un clima scuro scese improvvisamente sul locale, mentre i tavoli si andavano completamente svuotando; nel frattempo il signor Mariano aveva fatto il suo rapido ingresso sul posto, tutto quanto trafelato, infilandosi senza tanti convenevoli nel piccolo studio chiuso sul retro.
Dopo qualche minuto, tra gli ignari camerieri si diffuse l’idea che il proprietario stesse ora osservando, una ad una, tutte le immagini riprese da una piccola telecamera nascosta, disposta sopra l’ingresso e rivolta verso l’interno delle prime due sale. Hélène udì la cosa, inizialmente con scarso interesse: poi, non appena realizzò come erano andati gli eventi, si sentì tutt’insieme ad un tratto sprofondare.
Aveva accolto Jan salutandolo, lo aveva preceduto e accompagnato non lontano dalla cassa, e proprio lì lo aveva abbandonato da solo, proseguendo infine fin dentro alla cucina. Aveva anche rivelato a Cathy, di essere a conoscenza di come quegli fosse un intimo amico di Adrian; tutto quanto il gioco si andava ricomponendo alla perfezione, e Hélène sentiva adesso le gambe tremarle, e la testa brulicare di paura: che cosa l’avrebbe aspettata?
Una alla volta, il signor Mariano volle parlare in privato con tutte quante le cameriere del locale: le tenne sedute nel corridoio come se avessero dovuto prender parte ad un processo, mentre la signora Nadia le controllava imponendo loro di tacere in assoluto e rigoroso silenzio.
Sfilarono nell’ordine Cathy, Veronica, e Rosaleen. Hélène fu tenuta in disparte, era evidente come il signor Mariano intendesse ascoltarla per ultima; ne ebbe diretta conferma, quando vide passare anche Daniele e Leo, i due camerieri maschi. Infine, fu la volta di Gheorghe, che taceva spaventato. Tornò a pulire la cucina senza dire una parola.
Rimasero nel corridoio Adrian e Hélène, con la signora Nadia che li fissava in modo oltremodo serio e minaccioso; nella sua mente, erano chiaramente loro due i colpevoli.
La ragazzotta belga non resistette oltre, e prese a piangere e a singhiozzare: fu anche questo interpretato come un chiaro segnale di colpevolezza. Al punto che la signora Nadia, in preda ad un evidente stato di rabbia, le afferrò addirittura un orecchio, puntandole il dito contro il viso, ed insultandola: “Avrei dovuto saperlo, che eri solo una stupida senza cervello… ma stavolta avrai finalmente quello che meriti!”.
Dopo dieci o forse venti, interminabili minuti, mentre fuori le serrande erano già quasi completamente abbassate, Adrian e Hélène furono convocati assieme dal signor Mariano, proprio come in quella lontana sera di metà febbraio, quando Hélène aveva perduto la sua verginità.
Ma questa volta l’espressione del viso, ed il tono di voce del proprietario del locale erano ben diversi. Teneva il sigaro acceso stretto tra le dita, e digrignava i denti con ferocia; perfino il rude ed aggressivo cuoco, pareva tremare in quell’istante, dinanzi all’uomo seduto dietro la scrivania, che batteva i pugni sul tavolo in continuazione.
Esordì dicendo: “Pensavate di farmi fesso tutti e due vero?!? …ma quanto siete bravi!”. Poi riprese: “Ma non sapevate che qui abbiamo le telecamere, e che noi vi osserviamo tutto il tempo eh?!? … non sapevate nemmeno che quel vostro amico, che vi attende sempre fuori dal locale, lo avevamo già visto e lo conoscevamo bene?”.
E concluse: “Siete proprio degli stupidi, e per giunta pure dei dilettanti”, e fece finta di ridere, tradendo una grande rabbia. “Dovrete parlarne con il giudice adesso … e io vi rovino a tutti e due lo sapete?”. Adrian si fece coraggio e provò a controbattere qualcosa, ma fu subito messo a tacere.
La sua posizione era veramente difficile da difendere: Jan abitava con lui, ed era entrato nel locale sapendo perfettamente dove si trovava la cassa, approfittando della sciagurata leggerezza di Cathy e delle altre cameriere. Erano troppi gli elementi atti a dimostrare chiaramente, come lui avesse potuto fornire al suo compare, tutte quante le informazioni necessarie ad attuare il loro piano.
Il signor Mariano gli puntò il dito addosso e gli disse senza alcun dubbio, né incertezza: “Da questo momento sei licenziato, non presentarti più in questo locale se non vuoi che io chiami la polizia … e sarai denunciato assieme al tuo amico per furto organizzato, dovrete restituire tutto quanto e finirete tutti e due in prigione, e mi auguro che ci rimarrete davvero a lungo!”.
Adrian si sfilò i guanti di plastica con un gesto rapido e scontroso, e glieli sbatté sulla scrivania con apparente aria di sfida, ma in realtà si trattava unicamente di un moto di disappunto e di rassegnazione. Infatti, subito dopo li riprese e volse le spalle uscendo dalla stanza senza fiatare; era evidente come tutto ciò rappresentasse una chiara ammissione di colpevolezza, e Hélène si ritrovò così da sola, dinanzi all’uomo seduto dietro alla scrivania con il suo sigaro sempre acceso nella mano.
Quegli prese ad osservarla, scrutandola dalla testa ai piedi, con fare apparentemente tranquillo e rilassato; Hélène tremava in modo vistoso, tutta quanta agitata e sudata, e le calze strette e abbottonate attorno ai fianchi la facevano sentire ferma e imbalsamata, come una statua.
Mariano continuava ad osservarla, con un sorriso simile ad un ghigno rabbioso, ironico e divertito al tempo stesso.
Passato qualche istante interminabile, quello prese finalmente la parola, e dopo l’ennesima boccata del suo sigaro, le disse scrutandola ancora una volta dalla testa ai piedi: “E tu? …sembravi così carina e brava … e ti sei messa a trafficare con questi qua, gente da galera!”.
Hélène si mise a piangere nuovamente, non aveva la forza di reagire; avrebbe voluto dire qualcosa, rispondere che lei non c’entrava davvero nulla, ma non riusciva ad aprire la bocca e a parlare; il signor Mariano riprese guardandola negli occhi: “Tu sei una di loro, e meriteresti di essere denunciata … ma mi fai pena e non voglio rovinarti tutta quanta assieme …”. E fece un nuovo tiro del suo sigaro.
Poi aggiunse: “È evidente come loro ti abbiano sfruttata per i loro fini … e tu fai il loro gioco? Meriteresti d’essere licenziata anche solo per la tua stupidità”. Hélène continuava a piangere e a singhiozzare, con una mano aperta sul viso, e la testa piegata in basso; aveva assunto una postura ricurva sulle spalle veramente umile e penosa.
Mariano apparentemente rifletté qualche istante sul suo conto, e dopo l’ultima tirata di sigaro, concluse: “Io non credo che tu sia una mela marcia ragazza, preferisco pensare che tu sia semplicemente una stupida”; aprì una mano e la poggiò sul tavolo come a voler stabilire un precetto, ed infine alzando la voce le disse: “Domattina ti voglio qui, alle dieci puntuale, e non sgarrare di un minuto hai capito!?! … ti spiegherò io come si lavora e come si sta al mondo, hai bisogno di una lezione e devi ringraziarmi per la mia pazienza … e adesso via, sparisci”.
Hélène sfilò via a testa bassa, davanti allo sguardo severissimo ma anche assurdamente curioso della signora Nadia; quest’ultima non aveva infatti ancora compreso, che cosa il marito avesse intenzione di fare con lei; e subito accolse con totale disaccordo, la sua decisione: l’avrebbe trattenuta tra le cameriere del locale, nonostante tutto quello che Hélène aveva combinato.
Quarantesimo episodio
Dovette inusualmente uscire di domenica mattina, e lo fece stranamente vestita anche stavolta, con gli abiti da lavoro. Non aveva infatti alcuna idea, di che cosa il signor Mariano avesse in mente per lei; nel dubbio aveva così deciso, di mettersi addosso gli stessi vestiti della sera.
Alle sue due coinquiline Hélène non disse nulla; Chiara era ancora a letto che dormiva, essendo rientrata a sera tardi; Paula invece le domandò dove avesse intenzione di andare di domenica mattina così presto, ma non insistette più di tanto con la curiosità. Così la ragazzotta belga si trovò a risalire nuovamente a piedi lungo la strada che portava al locale, immersa in enormi dubbi e in grande inquietudine.
Giunta dinanzi alla porta d’ingresso, trovò la serranda mezza abbassata, e dovette piegarsi leggermente in avanti per entrare nel locale buio, pieno di fusti di birra accatastati l’uno contro l’altro. Chiese permesso con la sua solita voce da bambina, teneramente anonima, ma sulle prime nessuno rispose. Fece allora timidamente un passetto in avanti, e giunse nei pressi della barra nella sala centrale; lì finalmente vide il signor Mariano, col suo solito sigaro, che sistemava alcune carte dentro ad un cassetto nei pressi della credenza, senza apparentemente dare alcun peso alla presenza di lei.
La stava completamente ignorando, senza alcuna attenzione né alcun riguardo; Hélène ristette in piedi, decise di rimanere immobile come un manichino, nei pressi della barra: teneva la sua piccola giacca blu piegata tra le mani. Pensò di dover attendere che quegli completasse le sue mansioni, tacendo in silenzio e senza interferire affatto.
Ogni tanto quello la guardava, aveva indosso un paio di occhiali per leggere, e la scrutava con severità, col viso piegato in basso, senza mai parlarle né darle alcun cenno di saluto. Passati almeno dieci minuti, la ragazzotta belga iniziò a pensare, di potersi essere presentata lì fin troppo presto, e facendosi un po’ di coraggio domandò: “Vuole che io ritorni più tardi signore?”. Ma allora Mariano finalmente aprì bocca, e tossendo leggermente per via del fumo, disse senza alcuna esitazione: “Neanche per sogno … tu devi restare lì immobile zitta e muta finché non ho finito, avrò tempo per te dopo”.
Hélène abbassò timidamente il capo, aveva capito di avere commesso un errore a prendere l’iniziativa con quella domanda frettolosa ed inopportuna. Assunse pertanto un’espressione leggermente contrita e triste, con la testa piegata in basso, e le mani intrecciate sul grembo, attendendo che quegli avesse tempo di dirle cosa doveva fare. Ma l’uomo era sparito dentro il suo studio, e per almeno altri cinque minuti non successe nulla, la situazione era difficile ed il timore iniziava ad assalirla.
Quando poi era quasi giunta sul punto di agitarsi, fu finalmente convocata dal signor Mariano, con un semplice schiocco di dita: “Vieni … avanti …”.
Lo trovò come al solito dietro alla sua scrivania, col sigaro in mano, e gli occhiali che adesso aveva tirato su all’altezza della fronte larga e corrugata. Le disse: “Ferma lì, in piedi”.
Hélène prese nuovamente a tremare, era evidente come quegli non avesse intenzione di trattarla in modo gentile e caloroso; ma ristette provando a non tradire alcun disagio né imbarazzo, ad un metro di distanza dall’uomo, che stava sempre seduto dietro alla sua scrivania.
“Come avrai intuito … non siamo qui per una circostanza piacevole …”, riprese il proprietario del locale, e finalmente si levò anche egli in piedi, trattenendo sempre il suo sigaro fermo tra le dita. “Il cuoco ed il suo compare sono già agli arresti, mi spiace per te ma non potrai rivederli molto presto…”, ed aggiunse: “Quanto a te poi …”, riprese, “Potrai forse cavartela con molto meno, se solo adesso fai quello che ti dico”.
Hélène iniziò a temere seriamente, che quegli intendesse approfittare di lei, ed immediatamente avvertì uno scatto tra le gambe; non aveva minimamente pensato a questa sciagurata eventualità, e non sapeva proprio come mai avrebbe potuto reagire.
Ma il signor Mariano girò attorno alla scrivania, venendo nei suoi pressi; a quel punto, sempre col sigaro stretto nella mano, le fu accanto e le sfiorò con un dito la gonna, di lato, come se intendesse disegnarle una linea giù dal fianco, fino in basso dove si liberava la calza scura sopra il ginocchio. Poi finalmente disse: “Sono un uomo di sessant’anni … e non credo di poterti dare la lezione che meriteresti …”.
Le continuava a segnare la gonna con un dito, in su e in giù, mentre con la destra adesso aveva ripreso a tirare il suo sigaro, noncurante dell’immane fastidio che il fumo causava alla ragazza, nello spazio piccolo e angusto dello studio.
“Ho sempre pensato …” aggiunse, “che tu fossi una ragazza veramente stupida, e adesso ne ho avuto la diretta conferma; se solo non avessi sessant’anni, a questo punto io ti punirei, trattandoti esattamente come si merita una stupida cameriera…”.
Insisteva nel ribadire il concetto, e Hélène nel frattempo taceva terrorizzata; aveva capito benissimo come quegli intendesse riferirsi nel suo discorso sconnesso, ad un atto sessuale. Volse il capo verso di lui, con gli occhi gonfi di lacrime ed un’espressione totalmente costernata e persa.
“Devi quindi ringraziare” riprese Mariano, “il fatto che io da molti anni, non riesca più a prendere una donna”, e batté una mano sul tavolo; diede l’ennesima boccata di sigaro, e prese a girare per la stanza, dicendo: “Ma tu cosa ne puoi sapere di tutto questo … adesso piegati sulla scrivania”.
Fu lì che Hélène comprese, come verosimilmente non avrebbe potuto mai farla franca, senza avere come minimo mostrato le sue nudità al proprietario del locale. Fu una sensazione talmente lacerante e fastidiosa, che la ragazzotta belga ebbe come un insano istinto, di reagire e di ribellarsi; ma ancora una volta non disse e non fece nulla, aveva sempre moltissima paura di perdere il suo posto di lavoro.
Si piegò allora docilmente in avanti, con la pancia distesa lungo tutta la scrivania; il signor Mariano le si fece più vicino, e tirando sempre il suo sigaro le disse: “Brava, dimostrami adesso di essere una cameriera brava e obbediente…”; e poi aggiunse: “Aggrappati ai braccioli della mia poltrona con tutte e due le mani … brava”.
Hélène fu costretta a giacere così, piegata in avanti con il volto riverso incontro alla sedia e le mani che reggevano i due braccioli dinanzi a lei, in una posizione assai scomoda e per di più, davvero umiliante. Mariano prese a girare avanti e indietro alle sue spalle col suo sigaro nella bocca, e a fissarle il didietro della gonna, che si stagliava rotondo ed ingombrante, tutto rivolto verso il centro della stanza.
Era evidente come lui intendesse irriderla fino in fondo, e così come atto successivo, le impose di alzarsi la gonna; lo fece dopo diversi minuti di angosciante attesa, ordinandole: “Senza muoverti adesso … con le mani tirati su quella stupida gonna… fammi vedere le mutande che hai addosso”.
Hélène ebbe un’improvvisa scossa di autentico tremore, e biascicando parole a bassissima voce, prese ad implorarlo: “… cosa vuole farmi signore … la scongiuro”. Quegli batté il pugno sul tavolo, ed abbassandosi leggermente verso di lei da un lato, le disse digrignando i denti: “Se non fai quello che ti dico, io ti denuncio e dico tutto quanto alla polizia!”.
Hélène sollevò penosamente la gonna con ambedue le mani, tirandosela su un poco alla volta, finché non fu completamente arrotolata attorno ai fianchi, e lo fece singhiozzando e deglutendo miseramente come una bambina. Non era affatto bello ciò che in quel momento ella esibiva dinanzi agli occhi dell’anziano proprietario del locale: un didietro grosso come un pallone, avvolto dentro ad uno spesso paio di calze intere di colore piuttosto scuro, sotto le quali a malapena traspariva una larga mutandina, scura anch’essa, di morbido raso.
Hélène ristette in quella posizione, afferrando nuovamente i braccioli della sedia con ambedue le mani, senza sapere che cosa il signor Mariano le avrebbe adesso ordinato di fare, e piangendo. Quegli tossì un paio di volte in maniera vistosa e innaturale, come a voler sottolineare una certa meraviglia ed un certo stupore; in realtà non si aspettava affatto che quella visione potesse arrivare a provocargli un simile effetto: sentiva infatti il pene spingere di nuovo sotto i pantaloni, in maniera piuttosto inattesa e altrettanto evidente.
Decise allora di insistere, voleva davvero ridurre la povera cameriera in uno stato di totale afflizione e pena. Le disse quindi: “Da oggi in poi, non indosserai più questa robaccia … ti voglio leggera e snella sotto alla gonna, con le cosce completamente nude … e non costringermi a controllarti tutto il tempo chiaro !?!…”, e poi riprese: “E adesso giù! abbassati quella ridicola calzamaglia che non sembri nemmeno una donna…”.
Hélène per un istante non fece nulla, e subito il proprietario del locale lo interpretò come un atto di diniego; ma invece di adirarsi o di costringerla, egli fece qualcosa di ancor più subdolo e terrificante; pensò che avrebbe potuto punirla con un oggetto da cucina, e mentre sentiva il pene vibrargli insistentemente dentro ai pantaloni, le urlò alle spalle: “Io vado di là a prendere lo sai che cosa? … una bella paletta di legno per te … e tu se non vuoi farmi perdere del tutto la pazienza, fatti trovare pronta con la calzamaglia abbassata”.
Uscì dallo studio sbattendone la porta; in quel momento Hélène si ritrovò da sola, con la gonna avvolta intorno ai fianchi, le mani strette attorno ai due braccioli, e le gambe che le tremavano; avrebbe voluto fare qualcosa, reagire o addirittura provare a scappare; ma così facendo, avrebbe sicuramente perduto il suo posto di lavoro, e avrebbe dovuto trovarsi un nuovo modo di pagarsi l’affitto per la casa. Senza contare che il signor Mariano avrebbe potuto addirittura pensare di denunciarla, con il rischio di passare qualche serio guaio con la polizia.
Quindi ristette angosciata, senza muoversi; respirava profondamente nell’ambiente buio e angusto dello studio, rimanendo sempre nella posizione reclinata, tacendo e sospirando. Ancora non immaginava che il signor Mariano intendesse punirla sul serio, pensava in cuor suo che quegli intendesse piuttosto, spogliarla lentamente per poi poterla toccare, almeno così aveva interpretato i suoi continui riferimenti al fatto di non essere più abbastanza giovane.
Certamente non aveva fatto così come quegli le aveva ordinato, di abbassarsi le calze: e allora quando la porta dello studio si aprì nuovamente, subito Hélène trasalì nel sentire il rumore della paletta di legno che l’uomo batteva contro la sua stessa mano. Le disse immediatamente: “Non fai come ti dico e non ubbidisci? … allora significa che vuoi proprio prenderle … te le devo suonare per davvero ?!?”.
Hélène provò a rimediare alla situazione e lo fece in modo rapido e goffo, abbassandosi le calze non senza un po’ di fatica, dato che le si erano incollate alla pelle sudata dei glutei e delle cosce. A quel punto si ritrovò in posizione eretta, con la gonna sempre sollevata, le mani aperte sulla scrivania, e le spalle rivolte al suo datore di lavoro, che brandiva sempre la paletta colpendosi continuamente il palmo della mano.
Il sederone, bianco e molle, era unicamente riparato dalla mutandina di raso, larga ma non troppo alta sul didietro; al punto che la morbida fessura in mezzo ai glutei ne veniva fuori su in cima, invitando colui che le stava alle spalle, impietoso, a completare il lavoro tirandola giù.
E così fece il signor Mariano, senza attendere oltre, ma lasciandole il sottile indumento di raso poco sotto le natiche, in maniera da non esporre affatto le intimità della povera ragazza; le aveva semplicemente liberato i glutei, ma non aveva alcuna intenzione di scoprirle il resto. Sentiva il pene tirargli come un bastone vivo dentro alle mutande, come non gli accadeva davvero da molto tempo; ma di contro sapeva anche di non poterle fare nulla, e per tale ragione aveva preferito evitare di peggiorare la situazione.
Hélène a quel punto provò un nuovo scatto nel ventre; prese a tremare sulle cosce, e si assestò meglio con la pancia riversa sul tavolo, inarcandosi ed afferrando i due braccioli in modo da essere meglio distesa. Non capiva come mai invece di provare angoscia o timore, al contrario in quel momento ella sentisse le vene vibrarle e la pelle respirare intensamente su entrambi i fianchi rigonfi; era nuovamente quell’assurda voluttà, incomprensibile ed inesorabile, che inopinatamente la travolgeva. La ragazzotta belga riprese a piangere sommessamente, si vergognava di sé stessa al punto tale che, se solamente ella avesse potuto, sarebbe sparita immediatamente da lì.
Ma invece era piegata contro la scrivania, con la gonna alzata e le calze e le mutandine di raso abbassate, esibendo il suo didietro gonfio e deforme dinanzi agli occhi sgranati e increduli del suo anziano datore di lavoro.
Quegli riprese a battersi la paletta sul palmo della mano sinistra, e fu a quel punto che Hélène iniziò ad avvertire un prolungato brivido su tutta quanta la schiena: era la stessa, inconfessabile sensazione del suo primo, lontano orgasmo, mai più sperimentata sin da allora. Si piegò allora ancor di più, e strinse i braccioli della sedia più forte che ella poteva. Il signor Mariano, nel frattempo, era diventato incredibilmente duro dentro ai suoi pantaloni.
Le disse: “Hai un culo di cui dovresti vergognarti … ma cosa ci trovava quel delinquente a sbatterti così come faceva?”.
Hélène in quell’istante avvertì un sentimento ancor peggiore, d’annullamento e di prostrazione; afferrò allora sempre più forte i due braccioli, e premendo con la pancia contro il duro legno della scrivania, iniziò inopinatamente a desiderare che l’uomo in piedi alle sue spalle, la battesse con la paletta.
Ma quello proprio non ne voleva sapere, continuava a girare avanti e indietro per l’angusto spazio dello studio, con il pene irto come un paletto chiuso dentro ai pantaloni, e l’arnese da cucina stretto nella sua mano destra; Hélène respirava a fatica, con la pelle molle e pallida dei glutei e le cosce che le tremavano vistosamente.
L’uomo avrebbe voluto estrarre quel pene, e provare a possederla; ma sapeva che con ottima probabilità, si sarebbe presto afflosciato, ed allora preferiva insistere in quel ridicolo gioco, tenendo in questa maniera alta la sua tensione, tutto eretto come egli era. Impose alla ragazza, piegata sulla scrivania, di dire qualcosa per discolparsi, e quella allora balbettò come un automa, con la sua solita voce flebile ed anonima: “Le chiedo davvero perdono … non lo farò più…”.
In quell’istante il signor Mariano sentì tutto crollare, ed iniziò ad eiaculare nelle sue stesse mutande, in una maniera ridicola e vergognosa; provò a trattenersi con la forza dei nervi, ma poi s’arrese quasi subito, al punto che ben presto i suoi pantaloni furono ricoperti da una squallida chiazza di bagnato su tutto il davanti, umida e puzzolente. Fu a quel punto che egli decise, che avrebbe punito la ragazza per davvero, e lo fece unicamente affinché col passare del tempo, quella ridicola chiazza si potesse lentamente asciugare.
Allora le poggiò la paletta sul didietro, senza colpirla; poi le disse con voce tutt’altro che gentile: “Non ti denuncerò stupida cameriera … ma adesso preparati perché le prendi per bene”.
La batté con forza inattesa, facendola immediatamente sussultare e sollevare sulle braccia; Hélène emise un urlo davvero contrito e penoso, purtroppo non immaginava che quello potesse farle così male: “… oooo … uuh”.
Già il sederone della poveretta accennava ad arrossarsi, al punto che il signor Mariano si dovette persino meravigliare, di quanto il suo primo colpo l’avesse segnata per bene; ma ci voleva ancora molto tempo, affinché la chiazza di bagnato che egli aveva sui pantaloni, si asciugasse del tutto; allargò quindi nuovamente il braccio, e la batté con rabbia e violenza una volta ancora, facendole rimbalzare i glutei come una povera palla di gomma. Hélène reclinò nuovamente il capo in avanti, e prese a sospirare come una bambina.
Il suo padrone ricominciò a bagnarsi dentro le mutande, non capiva davvero che cosa gli stesse accadendo, mentre il gigantesco pallone che si stagliava dinanzi alla sua vista, tremava vistosamente, nella penombra leggermente triste della stanza; la colpì una volta ancora, sentendola vibrare come un animale, causandole un dolore davvero immane.
In quel momento Hélène iniziò ad avvertire un brivido assurdo, lungo i fianchi ed in mezzo alla tenera bocca della vagina, leggermente schiusa: era il principio dell’orgasmo oramai in arrivo, il più umiliante di tutti, e non sapeva proprio cosa mai avrebbe potuto fare, per evitarlo; la quarta bastonata la colpì mentre provava invano a rassettarsi con gli avambracci, costringendola a coricarsi per intero sul davanti, senza alcuna difesa.
Man mano che il castigo andava avanti, la ragazzotta belga sentiva il ventre ingrossarsi penosamente, ed il didietro esploderle. Non c’era davvero nulla che ella potesse fare, per evitare quella fine del tutto vergognosa.
Il signor Mariano riprese a tirare il suo sigaro, e vistosamente scosso da tutta quanta la scena, gettò la paletta di legno in terra, ordinando: “Per oggi basta così, ne hai avute abbastanza”; Hélène tacque, ferma immobile e piegata sul davanti, umiliata e derisa. Dopodiché l’uomo tirando nuovamente il suo sigaro, aggiunse con voce ferma e tracotante: “… ma non pensare che tutta la faccenda finisca semplicemente così… domenica prossima andiamo avanti, stessa ora … e puntuale!!! Ti abituerai a startene piegata su questa scrivania … stupidissima cameriera”.
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Vi invitiamo comunque a segnalarci i racconti che pensate non debbano essere pubblicati, sarà nostra premura riesaminare questo racconto.
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Commenti per Diario Jolie Febbraio 2009:
