Appuntamento al buio

Erano settimane che ci scrivevamo. Messaggi brevi, carichi di desiderio trattenuto. Parole soppesate come un gioco a scacchi tra due menti che volevano studiarsi prima ancora di toccarsi.

Non avevamo ancora deciso nulla. Solo una cosa era certa: l’incontro sarebbe stato al buio. Niente nomi completi, niente foto in faccia. Solo fantasie e una voglia sfacciata di viverle.

Quando mi scrisse:
"Voglio che mi sorprendi, Andrea. Ma fallo come sai tu: lentamente, come un uomo che non ha bisogno di correre per sedurre",
capì che era arrivato il momento.

Le inviai l’indirizzo di un piccolo loft nel centro della città: luci basse, musica jazz in sottofondo e una bottiglia di rosso in attesa. Le scrissi solo:
"Troverai la porta aperta. Non parlare. Entra. E lasciati andare."

Alle 21:03 il suono lieve dei tacchi sul pavimento in legno annunciò il suo arrivo. Io ero lì, in piedi, rivolto verso il balcone, vestito solo con pantaloni scuri e una camicia sbottonata.

Non mi voltai subito. Le diedi il tempo di guardarmi, di entrare nel gioco.

Chiusi la porta dietro di lei. Nessuna parola. Solo uno sguardo lungo, profondo, di quelli che fanno vibrare l’aria tra due corpi ancora distanti.

Le tolsi lentamente il cappotto. Indossava un vestito nero, semplice, aderente, con la schiena nuda che sembrava dipinta.

Le versai un bicchiere di vino. Le nostre dita si sfiorarono. Lei tremò leggermente. Il gioco era iniziato.

Le accarezzai i capelli. Li raccolsi in una mano mentre con l’altra tracciavo linee invisibili lungo il suo collo, dietro l’orecchio, fino a sfiorare appena la curva del seno.

Lei non si mosse. Non parlò. Si lasciava fare. Respirava più forte.

Mi avvicinai alle sue labbra, ma non la baciai. Mi fermai a un soffio da esse. Il desiderio cresceva nel silenzio.

Le sfilai il vestito con calma. Ogni centimetro di pelle scoperta era una scoperta. Aveva il corpo di una donna che sa di piacere: non perfetto, ma vero, desiderabile.

Le baciai le spalle, la schiena, la linea della colonna vertebrale.

La feci sedere sul divano. Mi inginocchiai davanti a lei. Senza fretta. Con adorazione.

Le mie mani, calde, esplorarono. Le sue gambe si aprirono lentamente, come a offrire il permesso che il suo respiro già aveva concesso.

Ogni carezza era una promessa. Ogni bacio, un invito a lasciarsi andare. E lei lo fece.

Quando la mia lingua la sfiorò, gemeva piano, trattenendo l’urlo. Le sue mani si aggrappavano alle mie spalle, ai miei capelli, al divano. Si lasciava trasportare in un crescendo di piacere.

Ma non era finita.

La presi tra le braccia. La portai sul letto. Il mio corpo sopra il suo. La guardai negli occhi.

"Ora sì, puoi parlare", le sussurrai.

E lei disse solo:
"Prendimi."

Lo feci. Con lentezza, con forza, con rispetto e desiderio puro. Nessun angolo del suo corpo rimase inesplorato.

Ci furono cavalcate lente, schiene inarcate, labbra che si cercavano, mani intrecciate e respiri in sincrono.

Ore dopo, giacevamo nudi, esausti, ancora avvolti in quel calore dolce che solo un incontro vero sa lasciare. Non servivano parole. I nostri corpi avevano già detto tutto.

E mentre lei si rivestiva, sorridendo con le gambe ancora un po’ tremanti, mi guardò e disse:
"Andrea... al buio, sei luce."