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L'Invito..


di Membro VIP di Annunci69.it maninblackk
01.04.2025    |    14    |    1 6.0
"Lei sorrideva a intermittenza, ma nei suoi occhi c’era qualcosa che si muoveva..."

Li avevo notati appena entrato.
Lei era seduta di traverso sulla sedia, con quel modo silenzioso che hanno le donne che non si sentono ancora autorizzate a brillare. I capelli neri le scendevano sul viso come una promessa non ancora fatta. Lo sguardo ogni tanto cercava il suo — il marito, supponevo — che parlava con quel tono basso e autoritario tipico di chi comanda, anche quando sorride. Un uomo piccolo, nei gesti e nel corpo, ma non nell’energia.
Lei pareva la sua ombra — o il suo trofeo. Forse entrambe.

Mi aveva invitato lui.
Un invito formale, con quella punta di ambiguità che solo i potenti si possono permettere:

“Vieni su dopo cena. Così beviamo qualcosa. Lei sarà contenta.”

Era un gioco. O forse un test.
Il tipo di invito che un uomo normale non fa, e un uomo come me non rifiuta.

La cena fu lenta, come le dita di lei che rigiravano il calice di vino senza mai finirlo.
Si parlava del più e del meno, mentre io non riuscivo a distogliere lo sguardo dalla sua bocca, piccola, disegnata con una grazia dolorosa.
Lei sorrideva a intermittenza, ma nei suoi occhi c’era qualcosa che si muoveva. Una curiosità velata. Una fame educata.
Lui invece parlava di numeri, risultati, responsabilità — come se stesse firmando contratti anche mentre tagliava la carne.

A un certo punto, lei mi chiese:

“Ti piace questo posto?”

Risposi senza staccare gli occhi dai suoi:

“Mi piaci tu, più del posto.”

Lei si bloccò. Un sorso di vino la salvò dal rossore. Lui sorrise. Un sorriso che conteneva tutta la consapevolezza del mondo.

Salimmo.

L’attico sembrava sospeso sopra la città. Luci basse, vetri enormi, odore di ambra e legno bruciato.
Lei si tolse le scarpe con un gesto lento, quasi infantile, poi sparì per qualche istante dietro una porta.

Lui mi offrì un whisky, senza dire nulla.

Quando tornò, indossava solo una camicia larga. La sua, probabilmente. Gambe nude.
Sguardo incerto.
Ma entrò come se sapesse.

Mi avvicinai.

Le sfiorai la guancia con il dorso della mano. Lei chiuse gli occhi. E lì capii che stava solo aspettando.
Aspettando qualcuno che la toccasse come si tocca qualcosa che si desidera da troppo.

“Posso?” le dissi, con la voce bassa, quasi rotta.

Lei annuì.

Lui era seduto su una poltrona in fondo alla stanza. Osservava, in silenzio. Non parlava, non toccava. Solo guardava. Come uno che ha costruito qualcosa e vuole vederlo crollare, con stile.

La baciai prima sul collo, poi dietro l’orecchio. Lei tremò. Le mani mi si muovevano da sole — sulle sue spalle, sul suo petto nascosto dalla stoffa, poi sotto, dove la pelle era calda e viva.
Ogni suo respiro era un assenso.
Ogni suo sussulto, una confessione.

Lui accavallò le gambe.
Io la presi tra le mie.

La feci inginocchiare, ma non per sottometterla — per guardarla da sotto in su. Per vedere quegli occhi chiedere, prima ancora che le labbra si aprissero.

La feci godere con la bocca.
La tenni ferma con una mano sulla schiena.
La sentii contorcersi, trattenere il fiato, mordermi la spalla per non urlare.
Mi eccitava. Mi eccitava da morire sapere che quel piacere lo stavo dando io. Che quel corpo, che sembrava timido, in realtà voleva solo essere guidato.
Che lui guardava. Ma non era lui a darle quel tremito nelle cosce.

Era mio, quel momento. Solo mio.

Era distesa sul letto, la camicia aperta, il respiro spezzato.

Mi guardava con un misto di attesa e stupore, come se non sapesse ancora se stava sognando o se davvero il suo corpo, così abituato al silenzio, stesse diventando finalmente rumoroso.

Le aprii le gambe con calma. Non c’era fretta. La fretta è per chi possiede poco.
Io avevo tutto, in quel momento.
Avevo il potere di farla vibrare.
Di farla sciogliere a ogni tocco.
E sapevo come usarlo.

“Guarda quanto sei bagnata,” le sussurrai, le dita appena poggiate sul bordo interno delle cosce.
“Hai idea di quanto mi stai facendo impazzire?”

Lei fece per chiudere le gambe, d’istinto.
Gliele tenni aperte, deciso.
E mi chinai su di lei.

La leccai piano.
Prima un colpo lento, largo, profondo.
Poi due, tre, mirati, precisi.
Le dita affondarono nel materasso.
Gemette piano, come se ancora si vergognasse del rumore che usciva dalla sua bocca.

Ma io non volevo silenzio.
Volevo sentirla cedere.
Volevo il suo caos.

Mi alzai solo quando iniziai a sentirla perdere il controllo, le gambe che tremavano, il bacino che cercava di rincorrermi.

Le sfilai la camicia. Le presi i polsi.
Li tenni sopra la sua testa, mentre entravo in lei con un singolo, lento, affondo.

Era stretta. Calda. Viva.

Lei spalancò gli occhi.
Lo sentì. Tutto.
Sentì che era diverso.
Che io non la stavo solo scopando.
La stavo leggendo.
Come un libro che nessuno aveva mai avuto il coraggio di aprire.

“Non fermarti,” mi sussurrò, ansimando.
“Fammi godere come non ha mai fatto nessuno.”

Obbedii.

La presi forte.
Le spingevo il bacino contro, le gambe sulle mie spalle.
Ogni colpo era un messaggio.
Ogni respiro, una risposta.

Il marito ci guardava ancora. Immobile.
Io lo ignoravo.
Quella sera non era lui il potente.

Ero io.

Venimmo quasi insieme.
Lei prima, con un urlo che cercò di reprimere mordendosi la mano.
Io subito dopo, dentro di lei, mentre le dicevo in un sussurro:

“Ora sì. Ora sei mia.”

La tenni stretta per qualche secondo.
Il cuore martellava.
Fuori, la città era ancora lì. Ma dentro quella stanza, qualcosa era cambiato per sempre.

Lei mi baciò piano sul petto.
Lui si alzò dalla poltrona, finalmente, e disse solo:

“Hai superato il test.”

E sorrise.

Mi rivestii piano. Lei era ancora nuda sul letto, con le gambe raccolte e gli occhi persi in un punto lontano. Il petto ancora si muoveva veloce. Forse rideva, dentro.
Forse piangeva.
O forse non distingueva più le due cose.

Lui versò due dita di whisky in un bicchiere pesante, e me lo porse.
Non disse nulla.

Aprii la finestra, accesi una sigaretta. L’aria della notte entrava leggera, portando con sé il rumore sordo della città che non dorme mai.

Bevvi un sorso.
Le labbra ancora sapevano di lei.

Lei si alzò dal letto, lentamente. Mi passò accanto, la pelle ancora calda, e si rifugiò nel bagno senza dire una parola. Solo un ultimo sguardo. Uno di quelli che non servono a spiegare. Servono solo a ricordare.

Lui tornò a sedersi. E disse, quasi per sé:

“Non tutti reggono certi equilibri. Ma tu sì.”

Non risposi.
In quel momento non servivano parole.

Solo fumo. E silenzio.
Il whisky scendeva lento, come le luci sui palazzi.

Ero in piedi, mezzo nudo, sudato e sazio.
Lei nel bagno, a riprendersi pezzo dopo pezzo.
Lui dietro di me, con lo sguardo ancora pieno di dominio.

E io…

Io ero l’uomo più felice del mondo...




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