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Un occhio molto privato - Capitolo quattro
di eborgo
28.01.2023 |
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"Girai la testa verso l’alto e, rovesciato, vidi il volto di Rossana che sorrideva sporgendosi dal letto, il telefono in mano con il ricevitore al suo posto..."
Capitolo quarto. Mariti, amanti e altri animali.Mi svegliò la luce o forse quel sapore orrendo che avevo in bocca oppure mi svegliò quella gentile manata da scaricatore sulla spalla. O tutte e tre le cose assieme, ora non ricordo. So che borbottai che volevo lavarmi i denti.
Aprii gli occhi a fatica. Ero stanco e nemmeno una delle mie ossa sembrava essere intatta.
Mi guardai attorno. Di fianco a me stava in piedi Rossana con addosso solamente la camicia da notte di lucida seta nera. I suoi capelli sciolti avevano bisogno del coiffeur e non era truccato. “Ieri sera sei stato scopato da questo qui”, pensai tra me.
Mi girai dall’altra e incrociai lo sguardo smarrito di Nadifa. Era appoggiata alla testiera del letto, mani e piedi ancora legati, Non riuscii nemmeno a sorriderle. Cercai il ricordo della sua bocca, delle labbra morbide, della sua piccola lingua insinuante. Ma l’immagine di Rossana che mi penetrava con il suo grande uccello si intromise di prepotenza tra i miei pensieri. Chiusi gli occhi e li riaprii. Nadifa mi sorrise appena, poco più che una stanca increspatura delle labbra.
La nuova giornata non sembrava promettente per nessuno dei due. Mi chiesi quanto sarebbe durato ancora.
Cercai di sollevarmi ma non ci riuscii. Le mani di Rossana mi afferrarono per le spalle e mi aiutarono ad appoggiare la schiena alla testiera del letto.
Ci guardammo. Aveva sulle labbra un sorrisetto soddisfatto. Si lisciò bene la camicia da notte sul corpo alto e magro. I suoi piccoli capezzoli maschili erano evidenti, come bottoncini, sul lucido tessuto.
«Abbiamo bisogno di essere slegati» farfugliai, «almeno per un po’ di tempo»
Mise le mani sui fianchi. «Adesso vi diamo qualcosa da mangiare» disse, «e vi lasciamo andare in bagno.»
«Che progetti ha per noi il tuo capo?.» Domandai fissandolo negli occhi.
«Non è il mio capo» rispose spostando con le dita una ciocca di capelli rossi dietro le orecchie, «e non sono affari tuoi. Tu fai quello che ti si dice e non occuparti d’altro.» La sua voce era seccata, avevo trovato il tasto giusto.
«Ti comanda a bacchetta» replicai, «avevo pensato che fosse lui a…»
«Chiudi il becco o ti prendo a schiaffi.» Mi si avvicinò minaccioso ma la porta si aprì con uno scatto.
Bassi entrò nella stanza reggendo un vassoio con due bicchieri di latte e dei biscotti. Era, come dire, in borghese. Una camicia di nylon grigia, pantaloni di pelle nera e mocassini. La camicia era aperta fino a metà del suo petto glabbro. Appoggiò il vassoio sul cassettone e venne ai piedi del letto. Aveva la mia pistola infilata nei pantaloni. «Oggi sarà una brutta giornata per voi» ci informò, «staremo fuori per parecchio tempo.» Indicò la porta. «Per essere certi di ritrovarvi qui, Rossana dovrà legarvi e imbavagliarvi in maniera cattiva. Mi spiace ma non c’è alternativa.» Si rivolse a Rossana. «Per ora li puoi liberare.»
«Pensaci tu» ribattè il suo amico, «ci sono un paio di cose che devo fare.»
Si allontanò dal letto e ancheggiando languidamente uscì dalla stanza. Fabrizio bassi lo seguì perplesso con lo sguardo. Poi si voltò verso di me.
«Quella pistola mi è costata un occhio» gli dissi indicandola con il mento, «vorrei riaverla indietro, se non ti spiace.»
Mi fissò senza espressione. «Non ci provare, stronzetto» grugnì, «o ti metterai davvero nei guai»
Passò dalla parte di Nadifa e le liberò le caviglie prima e poi le mani. Prese in mano la pistola e sollevò il cane. Fece alzare la ragazza dal letto e mi indicò con la canna della sparapiselli.
«Slega quello stronzo del tuo amico» le ingiunse. «E attenti ai movimenti che fate.»
Nadifa, tesa come una corda di violino, venne accanto a me e prese a slegarmi le caviglie con gesti nervosi delle dita. Lui si allontanò verso la finestra e si sedette su una poltroncina, la pistola in mano e lo sguardo torvo.
«Prendi il vassoio e mettilo sul letto.» ordinò alla ragazza non appena le mie mani furono libere.
Nadifa prese la colazione e la posò sulle lenzuola. Io mi alzai un momento e mi sgranchii le ossa sotto lo sguardo vigile del nostro rapitore. Poi mi risedetti sulla sponda del letto, di fronte a Nadifa. Lei stava già sbocconcellando un biscotto. Ne presi un paio anch’io e cominciai a mangiare. Bevvi un sorso di latte, freddo e cremoso e capii che avevo fame. Non toccavo cibo da quasi ventiquattr’ore.
Mi voltai verso Bassi. Mi guardava fisso. La mia scopata con il rosso doveva essergli rimasta sul gozzo.
«Per quanto tempo volete tenerci prigionieri?.» Domandai cercando di avere un tono di voce accomodante.
«Finché ce ne sarà bisogno» rispose senza troppa cortesia poi, d’un tratto, cambiò tono. «Ho ancora bisogno che stiate fuori dai piedi per qualche ora.»
«Ci lascerete andare?» chiesi, fissandolo negli occhi.
«Non ho nessuna intenzione di essere ricercato per un duplice omicidio» disse sogghignando, «Ma se cercate di mandarmi a monte questo affare, vi ammazzo senza esitare.» Cambiò posizione. «E adesso muovetevi, non posso star qui tutta la mattinata.»
Nadifa chiese di andare in bagno e le venne concesso.
«Fatevi una bella pisciata» consigliò Bassi, «Perché poi non ne avrete più occasione per un pezzo.»
Uscita lei ci andai io e riuscii pure a lavarmi i denti con le dita e un po’ di dentifricio che trovai in un armadietto.
Tornai nella stanza. Nadifa era seduta sul bordo del letto, le mani sulle ginocchia, l’aria spersa. Bassi era sulla porta con la pistola in mano. Qualcuno aveva spostato il vassoio sul cassettone.
Fine della ricreazione.
Rossana rientrò nella stanza. Si era pettinato i capelli a coda di cavallo. Indossava la corta vestaglia di seta viola che la sera precedente portava Fabryzia e le infradito di pelle nera che calzava quando era sceso dalla golf la prima volta. La seta della vestaglia, morbida e lucida, copriva a malapena un terzo delle sue lunghe cosce.
Bassi lo fermò sulla porta e gli disse qualcosa a bassa voce. Il rosso annuì con un sorriso e attraversò la stanza diretto verso Nadifa. Devo dire che l’individuo era impressionante. Anche senza trucco, con solo quello stracetto addosso, riusciva ad emettere una quantità impressionante di sex-appeal. Non parlavo dell’uomo e nemmeno della donna, non so se mi capite, parlavo di un concentrato assoluto di erotismo alto un metro e novanta, che si spostava su due gambe stupefacenti.
Fece alzare Nadifa, prese un pezzo di corda e le legò le mani dietro la schiena. Una cosa veloce, provvisoria. Poi la spinse sul letto.
Venne accanto a me. «Prendi quella sedia e mettila in mezzo alla stanza.» Mi ingiunse, indicando una delle due seggiole accanto al Cassettone.
Feci come mi diceva. La presi e la posai tra letto e cassettone. Mi parve una sedia Dick Deck di Philippe Stark o roba del genere, un nastro sinuoso e sagomato di stanghe orizzontali, dallo schienale alle zampe, sorretto da due gambe posteriori, tutto in legno color verde acqua. Pesava un quintale e sembrava fatta apposta per legarci sopra una persona.
Mi fece sedere. Lo schienale era alto, finiva appena sotto le mie spalle. Ero di nuovo teso. Ne avevo il cazzo pieno di essere legato e la mia frustrazione continuava ad aumentare. Incrociai lo sguardo di Nadifa, preoccupato e teso.
Rossana mi prese i polsi e mi costrinse ad incrociarli dietro allo schienale. Cominciò a legarmeli assieme, con stretti giri di corda solidamente strozzati nel mezzo. Strinse i nodi con particolare cura poi prese un lungo tratto di corda e lo passò diverse volte attorno alla mia vita e allo schienale. Lo tirò per bene e prima di annodarlo lo incrociò con la legatura dei polsi e con la stanga trasversale che univa le due gambe posteriori subito sotto la seduta. Venne davanti a me e si accoscio alla mia destra, una delle lunghe gambe piegata, l’altra con il ginocchio appoggiato sulla moquette. Guardando in basso intravidi sotto la seta della vestaglia i suoi genitali a riposo. Se ne accorse e mi lanciò uno sguardo malizioso, passandosi la lingua sulle labbra.
Mi costrinse a piegare una gamba e legò strettamente la caviglia alla zampa posteriore della sedia. Passo alla mia sinistra e fece la stessa cosa con l’altra gamba. Si alzò e mi girò intorno osservando soddisfatto il suo lavoro.
Vedendomi completamente inerme, Bassi posò la 357 sul cassettone e fece per lasciare la stanza.
Si fermò un attimo sulla porta. «Prima di venire via imbavagliali.» disse rivolto all’amico poi uscì in corridoio.
Il rosso alzò un braccio fasciato di morbida seta e gli mostrò il medio.
Prese l’altra sedia e l'appoggiò un paio di metri davanti a me. Slegò i polsi di Nadifa e la fece sedere. Le prese le mani e cominciò a legarle dietro lo schienale. Ad un tratto si chinò su di lei e cominciò a baciarla sul collo. Lei fece un dannato salto sulla sedia e cercò di svincolarsi. Rossana insistette e continuò a darle fastidio. Finì di legarle le mani e prese a carezzarle il seno cercando nel contempo di arrivare alla sua bocca. Spaventata, Nadifa non poteva fare molto per divincolarsi e quando lui l’afferrò per i capelli e le torse la testa all’indietro non potè evitare di lasciarsi baciare. La sentii gemere e mugolare dentro la bocca di lui. Tutti i miei muscoli erano tesi allo spasimo. Mi sentivo indifeso e frustrato e le corde mi segavano i polsi.
Poi lei riuscì a sottrarsi al bacio con una violenta mossa del capo.
Il rosso si rimise dritto con un gorgoglio eccitato. «Ok, ok» ansimò, «stai calma puttanella, era solo per divertirsi un poco…» Incrociò il mio sguardo, senza sorridere, una bagliore eletrizzato negli occhi. Raccolse altra corda e finì di legare la ragazza.
Il corpo di Nadifa era scosso da un tremito, il suo fiato corto e veloce. I suoi occhi erano pieni di rabbia. Una brutta esperienza per tutti e due quelle lunghe ore di prigionia.
Sul piano del cassettone c’erano due palline di gomma e il rotolo di cerotto. Ne prese una e me la ficcò a fondo tra le labbra, in modo da costringermi a tenere la bocca spalancata. Poi la coprì con una lunga striscia di quel cerotto bianco opalesente che dalla radice del naso scendeva fino alla punta del mento. Ci passò sopra le dita per farlo aderire bene, poi compì la stessa operazione con la ragazza.
Controllò ancora le corde che ci legavano poi uscì dalla stanza e chiuse la porta.
Nadifa e io ci guardammo. Lei fece un lungo respiro angosciato. Non potevo nemmeno parlarle. Erano passati una ventina di minuti e la seggiola era già scomoda. Pensai che se intendevano lasciarci lì tutta la giornata sarebbe stata dura.
A tratti sentimmo ancora dei passi nel corridoio poi, lontano, giunse il rumore della porta di casa che si chiudeva. Eravamo soli.
Vidi che Nadifa mi guardava, le palpebre socchiuse, le labbra divaricate da quel cazzo di pallina di gomma. Capii che si aspettava qualcosa da me.
Mi tornò in mente il telefono nella stanza del rosso. Era un’impresa titanica, così conciato, ma con tutta probabilità avevo diverse ore a disposizione.
Provai a muovere la sedia. Un saltello, un altro saltello… La moquette non mi facilitava le cose. Nadifa mi guardava con gli occhi sgranati.
Riuscii a fare mezzo metro in quelli che mi sembrarono 400 anni. La cosa principale era rimanere in piedi. A parte farsi male, se cadevo attaccato alla sedia, tutto sarebbe diventato più difficile. Altri 500 anni e passai accanto alla sedia della ragazza e qualche secolo più tardi mi ritrovai a mezzo metro dalla porta chiusa. Mi sentivo spossato, polsi e caviglie bruciavano e quelle merde di corde non si erano allentate di un millimetro. Dentro di me maledissi Rossana.
Mi voltai per quel che mi consentivano le corde e incrociai lo sguardo di Nadifa. Cercai di tranquillizzarla con uno sguardo. Doveva essere stanca e demoralizzato. La vidi nuda, legata alla seggiola, le corde bianche nettissime sulla sua pelle ambrata e un’espressione preoccupata nei suoi occhi scuri.
Con pochi altri saltelli arrivai vicino alla porta. Sporsi il mento in fuori, fin quasi a strapparmi le braccia e riuscii ad agganciare la maniglia della porta. Al terzo tentativo riuscii a farla scattare e il battente si aprì di un paio di centimetri. Adesso dovevo tirarla verso di me. Con uno sforzo sovrumano riuscii ad aprirla di altri cinque o sei centimetri. Ora il mio ginocchio l’avrebbe potuta agganciare. Ma dovevo girarmi parzialmente su un fianco e mi sentivo sfinito. Chinai il capo e rimasi qualche minuto ad ascoltare il mio cuore battere come un forsennato. Lentamente mi rilassai, il mio respiro tornò regolare. Le mani smisero di pulsare. Non avevo la più pallida idea di quanto tempo fosse passato dall’inizio di quella follia. Se mi beccavano mi avrebbero fatto passare un brutto quarto d’ora.
Riuscii a mettermi un po’ più di lato e, finalmente, colpendola con il ginocchio spalancai la porta. Il corridoio era in penombra, silenzioso. Avanzai un saltello alla volta, anno luce dopo anno luce e mi trovai al centro del passaggio madido di sudore.
La soglia della camera di Rossana era chiusa ma un filo di luce filtrava da sotto la porta. Mi avviai. Probabilmente ero anche comico, un goffo animale a quattro zampe che avanzava lentissimo a ridicoli saltelli.
Prima di scomparire alla sua visuale mi voltai verso Nadifa e le feci l’occhiolino. Ricambiò con un’espressione inquieta. Mi resi conto che non aveva la più pallida idea di quello che stessi facendo. Lei non sapeva di nessun telefono del cazzo.
Mi ci volle tutto il Medioevo e parte del Rinascimento ma, alla fine, ero davanti alla porta della stanza del rosso. Feci cinque o sei profondi respiri, per calmarmi, assolutamente inutili. Il cuore mi batteva all’impazzata nel petto. Temevo di veder comparire i miei sequestratori in fondo al corridoio da un momento all’altro.
Non dovevo perdere tempo. Agganciai con il mento la maniglia e questa volta fu più facile. Quando sentii che si apriva spinsi con la fronte e la stanza apparve davanti ai miei occhi. Adesso si trattava di aggirare il letto, passargli davanti e raggiungere il comodino dall’altra parte. Poca cosa, muovendomi in quel modo, giusto l’equivalente di qualche milione di chilometri.
Avanzai nella stanza. Le mie mani pulsavano maledettamente, una nemmeno la sentivo più. Strinsi i denti e feci un altro saltello e un altro e un altro ancora.
Fu un angolo del tappeto a farmi cadere. Lo ricordo come fosse adesso. Sentii che anziché avanzare di qualche centimetro la sedia ruotava in avanti, lentamente, come al rallentatore. Cercai di spostare il peso ma fu inevitabile. Caddi su un fianco e il dolore alla gamba mi fece quasi svenire.
Un lungo gemito mi sfuggì dalle labbra divaricate, superò la gomma della pallina, lo schermo del cerotto, e si perse lontano, dove nessuno lo poteva sentire.
Ero davanti al letto, a terra, i capelli appiccicati alla fronte e il sudore che mi colava negli occhi. Alzai lo sguardo e vidi il telefono sul comodino. Erano solo un paio di metri, ma per me una distanza incolmabile. I numeri rossi della radio sveglia segnavano le una e cinquanta del pomeriggio. Per arrivare fin li ci avevo messo quasi due ore. Il tempo era il mio principale nemico.
Le fitte alla gamba si stavano leggermente attenuando. Provai a muovere il piede e trovai il dolore accetabile. L’osso non era rotto.
Come un grosso verme handicappato mi mossi di qualche centimetro. Spostavo avanti la spalle e spingevo con il piede, un centimetro al minuto, Se prima muoversi m’era parso sovrumano adesso era un’esperienza mistica, il gradino più basso della locomozione umana. Mai in vita mia avevo fatto una fatica del genere.
Mi ci vollero alcune ere geologiche per trovarmi infine sotto quel cazzo di comodino di merda.
Alzai lo sguardo verso il telefono e lo vidi, circa un metro sopra di me. Un Lillipuziano che guardava Gulliver.
Il filo dell’apparecchio pendeva dal comodino, a dieci centimetri dalla mia faccia sudata. Feci per afferrarlo con i denti e mi ricordai del bavaglio. Mi venne una furia tremenda. Sfregai la faccia contro la moquette in tutte le maniere, cercando di togliere quella stronza pallina dalla mia bocca. Non ci fu verso. Ansimando come un mantice riuscii a calmarmi. Mi avvicinai al filo strisciando finchè non venne a contatto con il mio viso. Pensai che se riuscivo ad incastrarlo tra la mia faccia e la gamba del comodino potevo tirarlo giù. Mi ci volle del tempo e quasi mi lussai lo stramaledetto collo ma infine sentii che teneva. Era un contatto effimero, me ne rendevo conto e quindi tirai piano, con molta calma. Veniva, poco alla volta ma veniva da me. Cadde di taglio sulla mia fronte prima di finire per terra ma il fatto di vederlo dritto, davanti ai miei occhi, nemmeno mi fece sentire il dolore. La cornetta era a una ventina di centimetri dalla mia testa. Sentivo nettamente il suono di occupato. Mi avvicinai al ricevitore e allungai il collo. Con la punta del naso pigiai la forcella e la lasciai andare. Ora il ricevitore dava libero.
Tre numeri; uno, uno, tre.
Solo tre numeri dovevo fare e sarebbero venuti a prenderci. Ero messo male rispetto alla tastiera Mi allungai il più possibile ma mentre pigiavo l’uno il suono di occupato giunse nuovamente alle mie orecchie. Appoggiai la fronte alla moquette. Troppo tempo, dovevo essere più veloce. Ma ero stanco, stanco…
Riuscii a pigiare nuovamente la forcella e ottenni ancora il suono di libero. Mi sporsi e premetti l’uno. Silenzio. Mi sentii euforico e lo premetti di nuovo.
Spostai la punta del naso verso il tre e mi abbassai per pigiare il tasto.
Una mano da sopra la mia testa afferrò il telefono e lo tirò via. Il cuore mi esplose nel petto. Girai la testa verso l’alto e, rovesciato, vidi il volto di Rossana che sorrideva sporgendosi dal letto, il telefono in mano con il ricevitore al suo posto.
«Cercavi un pronto pizza?.» mi domandò con un sorriso divertito. Scese dal letto e mi si accovacciò davanti. Coda di cavallo, camicia candida, i lucidi calzoni di nylon e le infradito. Fresco come una rosa.
«Guarda come ti sei ridotto…» mi rimbrottò levandomi una ciocca dalla fronte, «sei un vero disastro.»
Chiusi gli occhi, la fronte appoggiata alla moquette, le tempie che pulsavano. Ero prostrato, annichilito, un cadavere dopo la battaglia.
«Adesso stai qui bravo» mi disse, «poi ne parliamo.» Si alzò e si allontanò da me.
Passò una buona mezz’ora prima che il volto incorniciato dalla parrucca castana di Fabryzia comparisse sopra di me. Era fasciata in una camicia da notte di raso lucido color salmone, lunga fino alle caviglie. I piedi nudi erano infilati in un paio di sandali dal tacco alto formati da sottili strisce intrecciate di raso nero. Dello stesso tessuto erano anche i guanti che indossava, lunghi sopra il gomito.
Sollevai il viso per guardarlo.
«È stato un bel tentativo» mi disse senza una particolare intonazione. «Ma adesso ci andrà di mezzo la tua amica.» Si accosciò accanto a me. «Hai bisogno di una lezione» mi disse carezzandomi una guancia con la mano guantata. «Ti avevo avvertito di non crearci problemi.»
Entrò Rossana spingendo avanti a se una Nadifa terrorizzata. Aveva le mani libere ma il bavaglio ancora sulla bocca. Dalla mia posizione li vedevo solo dal busto in su. Quando la ragazza mi scorse ebbe come un cedimento e i suoi occhi si riempirono di disperazione.
Anche il rosso si era cambiato. I capelli sciolti sulle spalle, truccato alla grande, il corpo fasciato dalla vestaglia di raso color tortora che aveva la sera prima. Sotto era nudo a eccezione di un paio di calze di nylon grigie, sorrette da un reggicalze di seta nera. La vestaglia era aperta e il suo sesso pendeva tra le gambe parzialmente in erezione. Incredibilmente, nel ruolo di donna il suo fascino risultava decuplicato rispetto a quando indossava panni maschili.
Aiutato da Fabryzia fece sdraiare la ragazza sul letto e cominciò a legarla a braccia e gambe aperte, fissando le corde di polsi e caviglie alle quattro zampe del letto.
Nadifa mugolava spaventata e ognuno dei suoi gemiti era per me un pugno nello stomaco. Finito il lavoro mi si avvicinarono per rimettere in piedi la sedia alla quale ero legato. Un posto in prima fila per il figlio di puttana. Perché questo ero, uno stupido figlio di puttana. Qualsiasi cosa le avessero fatto ora sarebbe stata colpa mia. I suoi occhi atterriti non mi mollavano un istante. Tutti i miei muscoli erano tesi allo spasimo e le tempie mi pulsano come se qualcuno le avesse percosse con un martello.
Mi detestai per quello che le sarebbe successo.
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Vi invitiamo comunque a segnalarci i racconti che pensate non debbano essere pubblicati, sarà nostra premura riesaminare questo racconto.
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