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Un occhio molto privato - Capitolo uno


di eborgo
28.01.2023    |    1.476    |    0 8.5
"Calze di nylon scure e un paio di sandali a fascetta dal tacco alto allacciati alla caviglia completavano la sua mise..."
Capitolo primo. L’amante di mio marito.

Aveva occhi tristi, grandi e azzurri e scrutava nei miei con un’espressione di supplica.
«Lei deve scoprire con chi si vede mio marito» disse stropicciandosi le dita ingioiellate, «è molto importante che io sappia se ha davvero un’amante.»
Era una donna minuta, sottile ed elegante, sui quarantacinque anni. I suoi capelli biondo cenere erano tagliati a carré, il collo lungo, impreziosito da tre piccoli diamanti montati su un filo invisibile, sorreggeva la testa conferendole una certa nobiltà d’aspetto.
La bocca era sottile, coperta da un velo di rossetto. Non era una bellezza, probabilmente non lo era mai stata, ma era carina. Dolce e carina. E determinata.
Me l’ero trovata in ufficio la mattina alle nove, seduta davanti alla mia scrivania nel suo elegante tailleur di seta lavata blu scuro, le gambe accavallate, le mani incrociate sulle ginocchia.
Valeria, la segretaria mi aveva accolto con una smorfia, aveva indicato il mio ufficio con il pollice e mi aveva detto che non aveva un appuntamento. Le avevo risposto che nessuno aveva un appuntamento e che potevo quindi dedicarle un paio ore. Non sono specializzato in divorzi e robe simili ma nei periodi di magra, beh… sapete come funziona.
Era subito venuta al sodo Chiara Bassi. Pensava che suo marito la tradisse e voleva averne la certezza.
«Cosa le fa pensare che suo marito la tradisca?» Le chiesi appoggiando il mento sulle mani incrociate e posando lo sguardo sul suo piccolo seno coperto dalla seta del tailleur. Lei si sistemò la gonna sulle gambe con un gesto nervoso.
«É una sensazione, signor Solari» disse in un soffio, «da qualche tempo esce spesso la sera, torna tardi la notte, non mi dice dove va… Non lo aveva mai fatto.» Volse lo sguardo fuori dalla finestra e rimase assorta per qualche secondo poi tornò a guardare verso di me e continuò a parlare. «Anche in ufficio è spesso assente. Ha una ditta di farmaceutici, importazione e distribuzione. Quando chiamo, le segretarie non sanno dirmi dove sia o non me lo vogliono dire. Il nostro matrimonio ha avuto alti e bassi, come tutti i matrimoni. Fabrizio, mio marito, a volte faceva dei viaggi all’estero, da solo. Per lavoro, diceva, ma accadeva raramente. Ho sempre avuto l’impressione che avesse delle avventure, ma adesso…» Si interruppe e si morse il labbro inferiore. «Adesso penso che abbia una storia più importante e questo non lo posso accettare.»
Le chiesi se avesse una foto del marito. Frugò nella borsetta e me ne porse una piuttosto grande presa quasi di profilo. Tipo svelto la madama.
Fabrizio Bassi era un uomo dall’aria sicura, alto poco più di me, diciamo un metro e ottantacinque, corpulento ma non grasso. A occhio e croce sfiorava la quarantina. Il viso era rotondo, la bocca piccola e ben fatta e la fossetta sopra il labbro superiore molto pronunciata. Una lieve fossetta l’aveva anche sul mento. Capelli scuri, folti con un taglio troppo giovanile per la sua età e occhi nocciola, grandi e da attaccabrighe. Il naso era piccolo, sottile e leggermente arcuato. Nelle foto vestiva casual e aveva un’aria morbida e benestante.
«Non ha una foto più piccola?» domandai. Fece un’aria sorpresa.
«Più piccola?»
«Si, signora, mi serve per riconoscerlo, mica ci devo fare un poster.»
Sorrise appena e dopo aver frugato di nuovo nella borsa mi porse una fototessera del marito.
«Posso tenerla?»
Lieve cenno affermativo. Le assicurai che avrei fatto quello che potevo. Le dissi la mia tariffa giornaliera, cosa che non sembrò sconvolgerla, e le chiesi di parlarmi delle abitudini del marito. Anzichè rispondermi frugò nella borsetta per l’ennesima volta e mi rifilò un foglio dattiloscritto. L’organizzazione fatta persona.
Seguì una spremuta di falangi, poi l’accompagnai alla porta dell’ufficio. Il suo profumo era delicato e attraente. Tutti gli sbirri privati si trombano le clienti ma a me ancora non era successo.
Le dissi che la mia segretaria le avrebbe fatto compilare e firmare una scheda d’incarico prima di lasciarla andare. Se voleva, poteva anche mollare un anticipo.
Chiusi il battente alle sue spalle e tornai a sedermi alla scrivania. Secondo tradizione mi misi comodo e appoggiai i piedi sul tavolo. Presi in mano le foto e le guardai di nuovo. Strano tipo. Quarant’anni, ricco, piacente. Ebbi la sensazione che mi avrebbe dato dei problemi ma non mi diedi retta.
Scorsi il foglio dattiloscritto e mi annotai mentalmente l’indirizzo, il tipo di macchina e le abitudini quotidiane del nostro amico.
Quella sera, da quanto riportava la mia cliente, sarebbe uscito e io non lo avrei perso di vista. Feci una ricerca su internet su di lui ma non trovai nulla e non trovai nulla nemmeno sul database della madama, per lo meno su quello al quale mi potevo collegare.

Il fiume scuro rifletteva tutte le luci della città. A quell’ora c’era poco traffico e si viaggiava bene. Vedevo i fanalini di coda della Audi A8 del mio bersaglio a circa centocinquanta metri davanti a me. Tra la mia e l’auto di Fabrizio Bassi c’erano altre due vetture. Gli stavo dietro da una mezz’oretta, da quando avevo visto la sua auto uscire dal cancello di casa. Eravamo scesi dalla collina e ci eravamo messi a costeggiare il fiume.
Vidi che metteva la freccia a destra e rallentai preparandomi ad accostare. Entrò in un ampio parcheggio di fianco alla vecchia stazione dei vigili di corso Moncalieri. Passai oltre e vidi che andava a fermarsi accanto a una golf giardinetta argento metallizzato. Accostai poco più avanti e spensi le luci. Presi il binocolo dal sedile del passeggero e mi voltai a guardare verso di loro.
Zeiss a visione amplificata. Mi era costato un occhio ma sembrava di essere alle tre del pomeriggio. Vidi il marito scendere dalla sua Audi e andare incontro al guidatore della Golf. Mi concentrai su quest’ultimo. Era un uomo, sui trent’anni, alto come una pertica, almeno un metro e ottantasette, magro e sottile. Teneva i lunghi capelli rossi a coda di cavallo. Non potevo vederlo in faccia ma ero sicuro che non fosse una donna, troppo alto. Indossava una camicia bianca, ampia, con il collo molto aperto e le maniche arrotolate sugli avambracci, un paio di calzoni senza cintura di un tessuto sintetico rosso scuro, lucido, molto leggero e ai piedi portava un paio di infradito con la suola chiara e le fascette di pelle nera. Se non era una donna, ci andava vicino.
Ho trentacinque anni, faccio questo mestiere da sette e ne ho già viste di tutti i colori. Non sarebbe stata una novità scoprire che il nostro amico non aveva un’amante come s’immaginava la moglie, ma piuttosto una relazione omosessuale.
Lui raggiunse il nuovo arrivato e invece di gettarsi uno nelle braccia dell’altro si strinsero la mano come uomini d’affari. Questo mandava momentaneamente in soffitta la mia teoria. Li osservai mentre chiacchieravano. Il marito della mia cliente accompagnava le parole con ampi gesti delle mani e il suo giovane amico annuiva a tratti, intervenendo poco. La conversazione durò una decina di minuti, poi Fabrizio Bassi mise una mano sulla spalla del rosso e indicò la Golf. Un ultimo scambio di battute poi salirono in auto, il rosso alla guida, Bassi sul sedile del passeggero. Per ora la sua Audi restava lì.
Riprendemmo il lungofiume, loro davanti e io dietro. Traversammo il ponte delle Molinette e via verso Mirafiori. Li vidi entrare in un cortile tra due alti condomini e accostai al marciapiedi nel controviale. Spensi il motore, presi la pistola dal cassettino e lasciai la macchina. Nonostante l’ora si stava bene, temperatura perfetta. Indossai la giacca leggera sopra la Lacoste e agganciai fondina e pistola alla cintura. L’esperienza mi ha insegnato che la sera è sempre meglio averla dietro.
Attraversai la strada e mi infilai nel cortile. Era buio pesto. Vidi due bassi fabbricati e una specie di magazzino. Un paio di finestre al secondo piano di una delle palazzine si illuminarono all’improvviso rischiarando in parte il cortile. Adesso sapevo dove trovarli. Il mio problema era riuscire ad arrivare abbastanza in alto da poter guardare all’interno dell’appartamento. Il solo modo possibile era arrivare sul tetto del magazzino. Non c’erano scale, ma forse lo si poteva fare dall’interno.
Mi avvicinai camminando leggero sull’acciottolato e raggiunsi la porta d’ingresso. Naturalmente era chiuso ma una porta chiusa non è mai stata un gran problema per me. Tirai fuori di tasca una piccola trousse di pelle, scelsi un paio di sottili attrezzi d’acciaio e una mini pila che tenni stretta tra i denti per illuminare la serratura. Cinque minuti di orologio e la porta si arrese alla mia corte. Un leggero scricchiolio mentre l’aprivo e mi ritrovai all’interno del magazzino. Accostai il battente senza chiuderlo lasciando che i miei occhi si abituassero all’oscurità. Diverse pile di scatoloni erano stipati contro il muro di fondo.
Illuminai con la mia pila e vidi che si trattava di confezioni di farmaci. Trovai la cosa piuttosto strana, non mi sembrava un magazzino adatto a conservare cose delicate come i farmaci. Mi avvicinai per controllare i cartoni impilati. Che fossero farmaci non vi erano dubbi. Ce n’erano di tutti i tipi, sciroppi, pastiglie, compresse, pomate, vitamine, supposte e gocce per il naso. Feci correre la luce della pila sui fianchi delle scatole e la date di scadenza mi saltarono improvvisamente agli occhi. Controllai a caso altre scatole. Tutte scadute almeno tre mesi prima. E Fabrizio Bassi aveva una ditta di distribuzione di farmaci. Continuai a esplorare il magazzino. In fondo, semi nascoste da teli di plastica, c’erano una ventina di altre scatole. Mi avvicinai. Alla luce della piletta vidi confezioni e confezioni di Amplificatori di lusso, lettori DVD, giradischi e lettori di CD. Tutto di gran marca e nuovo di zecca.
Bene, la mia cliente sarebbe stata contenta. Pensava che il marito avesse un’amante e invece l’amico trafficava in farmaci scaduti e ricettazione di merce rubata.
Mi spostai lungo il muro. Cinque costosissime mountain bike, iperaccessoriate e con la loro plastica originale, erano parcheggiate accanto alla pila di scatoloni.
Mancava solo la droga.
«Cosa ci fai qui dentro?.» Una voce alle mie spalle mi fece fare un salto della malora. Anche la fioca luce del magazzino si accese.
Mi voltai con un pelo di batticuore e rimasi semiparalizzato dalla sorpresa. Fabrizio Bassi stava a tre o quattro metri da me, le mani sui fianchi e questo, in se, non aveva nulla di straordinario. Il suo abbigliamento, invece, era tutt’altra storia.
Portava una parrucca di capelli scuri che scendevano in boccoli morbidi sulle spalle. I suoi occhi scuri mi fissavano ostili. Ombretto rosa-argento sulle palpebre, fondotinta su viso e collo e rossetto rosa antico sulle labbra.
Aveva indosso un’ampia blusa di raso color prugna, morbida e lucida, che portava aperta sul petto glabro, e una gonna leggera di pelle nera . Calze di nylon scure e un paio di sandali a fascetta dal tacco alto allacciati alla caviglia completavano la sua mise.
Ero sbalordito, per quanto uno si ingegni, la realtà supera sempre la fantasia. La mia cliente poteva dormire tra due guenciali; il marito non aveva un’amante come credeva lei. Era un travestito che amava la sua privacy e trafficava in farmaci scaduti e merce rubata di vario tipo.
«Non hai mai visto una donna?» sbottò riportandomi alla realtà della situazione. «Ti ho chiesto cosa cazzo ci fai qui dentro…» La sua voce aveva una lieve inflessione effeminata.
Mi ripresi all’istante. «Sono della Polizia» risposi con un grugnito. «Nuclei Anti Sofisticazione. É roba vostra questa?.» Indicai lo scatolame.
Lui si avvicinò di mezzo metro in un turbine di lucidi riflessi di raso. «Vediamo il tesserino.» Mi disse allungando una mano.
«Le ho chiesto se tutta questa roba appartiene a lei» insistei, «perché se così fosse si trova in un mare di merda.»
«In un mare di merda ci sei tu, bello mio, se non hai un tesserino.» Mi fece di rimando.
Tappato in quella maniera non somigliava proprio al tizio della foto. Come donna era un po’ fuori misura, con tacchi e tutto il resto era di mezza testa più alto di me. Ma in un circo avrebbe fatto la sua figura.
Siccome sembrava mettersi male spostai la falda della giacca e gli mostrai il revolver Lawman che portavo sotto l’ascella.
«Questa è abbastanza convincente?» domandai. Siccome una 357 magnum a canna corta ha una personalità piuttosto spiccata, il Bassi fece mezzo passo indietro sui suoi tacchi alti.
«Adesso ti sposti, dolcezza» sibilai approfittando del momentaneo vantaggio, «mi lasci uscire da quella porta e amici come prima.»
Indietreggiai verso la colonna di cemento alle mie spalle senza levargli gli occhi di dosso. Per quel che ne sapevo poteva avere una arma nascosta nella guêpière.
Feci per muovermi verso la porta quando il freddo contatto della canna di una pistola si posò sulla base del mio collo. Lì per lì mi gelò il sangue nelle vene.
«Questa sera non vai da nessuna parte» disse una voce suadente alle mie spalle.
Il rosso. Me l’ero scordato, come l’ultimo dei principianti. Restai immobile, le mani a mezz’asta e il fiato corto.
Fabrizio Bassi mi venne accanto e sfilò la pistola dalla fondina. «Questa la prendo io» disse con un sorriso carico di rossetto, «ti spiace?» Si allontanò di un paio di passi e me la puntò addosso.
Mi voltai verso il rosso. Anche lui era “en femme”. I capelli, non più tenuti a coda di cavallo, formavano una cascata rosso scuro sulle spalle con qualche ciocca ribelle che gli scendeva sugli occhi. Lo vedevo in faccia per la prima volta. Un fighetta efebico e perverso. Gli occhi erano penetranti, scuri, sormontati da sopracciglia folte e un velo di ombretto chiaro sulle palpebre. Il naso importante ma non brutto, di profilo prendeva invece un’aria dritta e affilata mentre la bocca grande e piena, piuttosto femminile, era priva di trucco. Un’espressione vagamente divertita gli si disegno sul viso mentre mi puntava una piccola automatica all’altezza degli occhi.
Aveva indosso una canottiera senza maniche, scollata e aderente, coperta di lucidi lustrini che brillavano alla luce fioca del magazzino e una minigonna opaca stampata con ampi disegni floreali lucidi nero su nero. Le gambe lunghe e tornite erano nude e ai piedi calzava un paio di eleganti infradito di pelle nera con un tacco di quattro o cinque centimetri.
A parte essere un uomo ed essere di tutta la testa più alto di me, l’aspetto generale era quello di una sventola da capogiro.
Mi chiesi se tra un atto criminoso e l’altro i due andassero a letto insieme.
Il rosso si passò nervosamente la punta della lingua sul labbro superiore poi distolse lo sguardo dai miei occhi e lo rivolse all’amico alle mie spalle. «Che cosa ne facciamo?» Chiese in un soffio. Mi voltai verso il Bassi, lentamente. Non avevo nessuna intenzione di beccarmi una nespola nella teiera.
Il rosso, dietro di me, mi ficcò la canna nel collo, poi mi sfilò il portafoglio dalla tasca interna della giacca. Sentii che lo apriva e ci frugava dentro.
«É un poliziotto privato» esclamò con una certa sorpresa nella voce
«Senta Bassi» dissi cercando di rimanere freddo, «non mi frega nulla di quello che fate qui dentro. Non è questo che stavo cercando.»
«Chi ti manda?.» La canna della mia pistola era puntata sul mio addome muscoloso.
«Mi ha assunto sua moglie..»
«Mia moglie?» La sorpresa nei suoi occhi bistrati sembrava sincera.
«Si, è convinta che lei la tradisca con un’altra donna.»
Un sorriso ironico gli increspò le labbra.
«Quella cretina c’è andata vicino» disse.
«Ascolti Bassi» cominciai ma lui mi interruppe brusco.
«Io sono Fabryzia» sbottò alzando la pistola, «e lei è Rossana. Tanto per cominciare rivolgiti a noi chiamandoci così, altrimenti ti rompo i denti.»
Rimasi in silenzio davanti a quella specie di signora permalosa. Lui apostrofò il rosso accanto a me.
«La dietro ci sono i due scatoloni del porno shop. Dentro c’è della corda, prendila.»
Il rosso si avviò verso due scatoloni gialli facendo picchiettare i tacchi sul cemento del pavimento. Cominciavo ad essere preoccupato.
«Senta… Fabryzia» dissi sollevando le mani, «così peggiora le cose…»
«Chiudi il becco» sbottò spingendomi un passo indietro con la canna della pistola.
«Fa un sacco di baccano quella» gli dissi. «Se mi spara arriva tutto il mondo.»
Scostò dagli occhi una ciocca della parrucca. «Vuoi provare?» chiese. Poi voltò leggermente il capo verso il rosso. «C’e anche un rotolo di cerotto» disse, «prendi pure quello, l’amico qui parla un po’ troppo.»
Rossana tornò verso di noi con corda e bavaglio. «Levati la giacca» ordinò Fabryzia. Mi sembrava inutile discutere. La sfilai e la lasciai cadere a terra.
Il rosso prese le mie braccia da dietro e ne incrociò le mani sulla schiena. Le corde presero subito a stringere sui polsi. Non ci andava leggero.
«Rossana è un’esperta» mi informo il marito della mia cliente, «è molto ricercata nell’ambiente del bondage.»
Vedendo che non potevo più nuocere mi venne vicino e mi afferrò per i capelli torcendomi la testa all’indietro.
«Siamo esperte in un mucchio di altre cose» mi bisbigliò in un orecchio, «avrai un sacco di storie da raccontare a mia moglie.»
Così dicendo mi fece correre la lingua su tutta la lunghezza del collo e finì mordicchiandomi il lobo dell’orecchio. «Ti conviene fare per bene tutto ciò che ti diciamo» concluse, «altrimenti sarà una brutta vacanza.»
Sollevò la gonna di pelle e si levo un paio di ampie culottes di raso nero che appallottolò e mi spinse a forza nella bocca. Per fortuna non le portava da una settimana. Avevano un leggero sapore di bucato misto a un profumo femminile.
Prese il rotolo di adesivo dalle mani del rosso. Era un cerotto bianco opalescente, alto una decina di centimetri. Ne strappò una larga striscia e con quella mi sigillò le labbra.
Sentivo le corde stringere sui polsi. Provai a muoverli e questo non mi disse niente di buono. Infine Rossana o come cazzo si chiamava, fece un paio di nodi e la questione poteva dichiararsi chiusa.
Fabryzia, mi afferrò per un braccio e mi trascinò verso la porta. La luce del locale si spense e uscimmo nel cortile buio. Alle nostre spalle sentii Rossana che chiudeva a chiave. Attraversammo l’acciottolato e salimmo i tre gradini che conducevano all’ascensore. Davanti a noi si stendeva l’androne illuminato con al fondo il portone principale, a quell’ora chiuso. Fabryzia premette il pulsante di chiamata. Io, non potendolo fare, non banfai.
Sembrava andare tutto per il meglio quando si aprì la porta di uno dei due appartamenti del pianterreno.
Ci voltammo tutti e tre mentre una giovane ragazza somala usciva sul pianerottolo e si chiudeva la porta alle spalle. Si voltò verso di noi e rimase di stucco. Ci fissò sgranando gli occhi come se avesse visto un marziano.


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