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Tempi duri


di eborgo
06.01.2023    |    5.450    |    4 9.8
"“Più effeminato”, in effetti, l’ho solo pensato, non l’ho detto..."
I

Mi sono fermato sulle scale per ragionare un momento. Prima di salire da Stepan dovevo valutare bene cosa dire se la questione fosse saltata fuori e questo non era affatto semplice. Ho compiuto ventidue anni il mese scorso e sono ancora uno sbarbatello, mi manca l’esperienza per queste cose. Mi chiamo Matteo e abito da solo qui a Milano – i miei vivono in Abruzzo e ci sentiamo giusto tre volte l’anno – e questo è il massimo delle mie capacità pratiche. Comunque, adesso vi spiego la questione, così magari mi date un consiglio.
Stepan è cecoslovacco, o come diavolo si chiamano quelli che vengono dalla Repubblica Ceca. È un uomo di quarantotto anni che se li porta in maniera dignitosa. Ha un negozio di abbigliamento per signora giù all’angolo, un paio di isolati da dove abito io. A me sembra che gli giri bene, ma lui si lamenta sempre e dice che se gli riuscisse un buon affare pianterebbe tutto e se ne andrebbe a vivere ai Caraibi.
Qui nel quartiere c’è un bar che frequentano tutti, e quando ci incontriamo ci salutiamo e facciamo quattro chiacchiere. È un pelo effeminato, ma insomma, vende robe da donna e poi a me non importa un fico secco, sono di larghe vedute. Per quanto riguarda il sottoscritto, invece, dopo la laurea al naba, ho aperto uno studio di grafica e fotografia. Tra le tante altre cose, visto che ci si vedeva spesso nel bar qui dietro e capitava spesso di far due chiacchiere assieme, ho fatto i biglietti da visita per Stepan e alcune altre cose per la boutique.
Per farla breve, una sera, con un paio di amici, abbiamo deciso di andare a vedere uno spettacolo di travestiti. Lo so, è una cretinata da adolescenti, ma tant’è, abbiamo preso su e siamo partiti per farci due ghignate. Non faceva nemmeno tanto ridere ed erano pure bravi, ma indovinate un po’ chi ti trovo al club, tutto tappato, in parrucca bionda e con una minigonna da far rizzare i peli sulla schiena?
Proprio lui, Stepan.
Manco l’avessimo organizzata. E dovete credermi, era meglio come donna che come uomo. Stava li a bere e discorrere con un paio di persone, pure loro en travesti, e quando mi ha visto, non ha fatto una piega, anzi, mi ha salutato con un cenno del capo accompagnato da una specie di sorriso d’intesa. È stato carino, perché se fosse venuto a salutarmi, come minimo mi avrebbe messo in imbarazzo con i miei amici. Invece ha giusto fatto quel cenno, come dire che andava tutto bene. Io ero talmente confuso che non appena è stato possibile, ho convinto tutti quanti a levare le tende e così siamo andati a mangiare una pizza.
Ma qualche giorno dopo, mentre passavo davanti alla boutique, mi ero quasi scordato della cosa, Stepan è uscito per strada e mi ha chiamato. In parole povere, ha detto che voleva spiegarmi tutto quanto. L’ho rassicurato che era ok, per me, che la gente poteva fare quel cazzo che voleva – ho utilizzato parole più educate, questo è ovvio – ma siccome insisteva per offrirmi un aperitivo da lui quella sera stessa, giusto quattro chiacchiere da buoni amici, ho accettato.
Morale della favola, verso le diciotto e trenta sono andato a trovarlo. Ho portato anche i cioccolatini. Stepan abita in viale Papiniano, all’ultimo piano del condominio più alto della zona, un bell’appartamento con un mega terrazzo che guarda verso San Lorenzo e Porta Ticinese. Sembra di stare in aereo, si vede pure un pezzetto di darsena dei Navigli. Aveva preparato un tavolo all’aperto, con sopra ogni ben di dio, mi riferisco all’alcol, e diversi tipi di stuzzichini. Quando mi ha aperto sono rimasto lì qualche momento. Indossava un kimono di raso nero che gli arrivava alle ginocchia e un paio di infradito con i cinghietti di pelle dorata. Entrando mi sono augurato che per lo meno portasse le mutande.
Mi ha detto che era molto contento di quell’incontro e che da un po’ voleva propormi un aperitivo. Gli ho garantito che faceva piacere anche a me, che conoscerci meglio mi avrebbe aiutato nel caso di altri lavori per il suo negozio, che era stato gentile a invitarmi, anche se, a guardarlo bene, ho notato che aveva gli occhi bistrati. Dev’essersene accorto, perché mentre mi preparava un drink, un Manhattan se non sbaglio, mi ha spiegato che lui in casa indossava sempre qualche capo femminile per via che si sentiva donna, come avevo potuto notare qualche sera prima. Sperava che la sua mise non mi mettesse a disagio. In effetti mi imbarazzava moltissimo, ma per educazione ho detto che non mi faceva né caldo né freddo.
Così, mentre sorseggiavamo i nostri drink seduti in terrazzo, mi ha raccontato che fin dall’età di quindici anni aveva provato l’impulso di vestirsi da donna. Per questo motivo non si era mai sposato, anche perché a un certo punto aveva accettato la realtà di essere quasi del tutto gay. Ho commentato che quella sera era assai diverso da come lo avevo sempre visto in negozio, più effeminato. “Più effeminato”, in effetti, l’ho solo pensato, non l’ho detto.
Al terzo drink, per l’appunto, mi ha domandato come lo trovassi (con un ardito giro di parole ho ammesso che per chi ama il genere dovesse sembrare attraente), mentre al quinto, erano già le dieci passate, mi ha confidato che fin dai nostri primi incontri si era sentito piuttosto attratto da me, anche se fino a quel momento non aveva osato dirlo. Ho cercato di scherzarci sopra dicendo che poteva essere mio padre (ho evitato di dire nonno) e lui ha riso considerando che era più carino se lo consideravo uno zio. O una zia, meglio ancora.
Al settimo Manhattan mi ha chiesto papale papale se l’idea di un incontro con un travestito non mi avesse mai sfiorato l’anticamera del cervello. Si è scusato per l’impertinenza, ma siccome frequentavo il gay club, dove ci eravamo incontrati, aveva pensato che una volta o l’altra, vai mai a sapere, mi fosse venuta una simile curiosità.
Mentre cercavo di convincerlo che non era così, che l’incontro al club era stato un puro caso, mi ha interrotto per dirmi che aveva spesso fantasticato di portarmi a letto, che gli piacevano i miei capelli spettinati (alla Ryan Reynolds, ha detto) e il mio fisico giovane e asciutto. Non avevo per caso voglia di fargli un pompino?
Ho declinato l’invito e mi sono alzato con la scusa che era tardi, ma lui non s’è mosso. «Se lo fai ti do cinquecento euro» ha offerto.
Ero brillo come un carrettiere ma, ragazzi, cinquecento svanziche sono sempre cinquecento svanziche. Però un pompino, così, al primo appuntamento, m’è sembrato pretendere un po’ troppo, anche se ero brillo come un carrettiere.
«Per duecento le faccio una sega» ha biascicato la mia voce.
«D’accordo» ha detto la sua.
Siamo rientrati in casa e mi ha fatto accomodare accanto a lui su un divano monumentale. Era eccitato come un mandrillo. Da vicino ho notato che sul viso aveva anche un poco di fondotinta. Ha scostato i lembi della vestaglia rivelando un paio di mutandine femminili di seta nera attraverso il cui tessuto lucido si intravvedeva la forma del sesso già in erezione parziale. L’idea doveva girargli in testa da un po’, perché con un guizzo il suo uccello è sgusciato fuori dal bordo superiore del serico indumento. Ho esitato qualche istante per via del batticuore, poi ho allungato la mano e l’ho preso tra le dita.
Era strano, come un oggetto di gomma ma con una finitura morbida e setosa, anche se non ci ha messo molto a diventare duro come un legno levigato. Non appena ho cominciato a scuoterlo, Stepan ha cercato di baciarmi sulla bocca, ma voltando il capo gliel’ho impedito. Ha capito l’antifona perché si è lasciato andare contro lo schienale e ansimando ha chiuso gli occhi. Il suo torace magro e asciutto andava su e giù e i riflessi della seta rivelavano i piccoli capezzoli sul petto. L’unica libertà che si è permesso, mentre lo masturbavo, e stato carezzarmi piano una coscia. Grazie al cielo è venuto in pochi minuti, con uno schizzo di un metro che ha concluso la sua traiettoria sul tappeto bello. Il resto dello sperma, spinto fuori da una serie di spasmi di piacere, mi è colato abbondante sulle dita, tipo bottiglia di champagne.
Ero un poco schifato, ma ho superato la cosa visto che non avevo mai guadagnato duecento euro così facilmente. Siccome sono avido ho pensato che se ne avessi chiesti trecento me li avrebbe dati. In ogni caso, scemata l’eccitazione ci siamo dati una pulita, poi mi ha accompagnato alla porta. Mi ha ringraziato e salutato affettuosamente. Mentre mi metteva in mano i duecento euro ha detto che gli era piaciuto tanto. Se mi andava di rifarlo, ne sarebbe stato felice.
Ho garantito che ci avrei pensato. Nel caso sarei andato a trovarlo in negozio e comunque ci saremmo visti in giro. Per educazione mi sono offerto di dare una pulita al tappeto ma non era il caso, avrebbe fatto lui. Un ultimo tentativo di baciarmi sulla bocca, ma si è dovuto accontentare della guancia.
È andata così. Insomma, da quella sera un paio di volte a settimana vado da lui e provvedo questo servizio che, devo dire, dopo un mese so ormai padroneggiare piuttosto bene. Sono più delicato, lo faccio durare più a lungo e il mio tocco lo manda in visibilio. Di tanto in tanto gli permetto di baciarmi sulla bocca, anche se lui cerca sempre di farmi succhiare la sua lingua. Ogni volta Stepan si fa trovare vestito in maniera diversa, sfoggia il suo guardaroba e le sue parrucche.
In fondo sono come uno psicologo, presto la mia opera con distacco ma non senza passione. Mi chiede in continuazione di fargli un pompino o di mettermelo nel culo, ma ho delle remore, quindi non è mai successo. Un paio di sere ha insistito perché gli facessi una sega al gay club. I suoi amici travestiti si sono assai divertiti e un paio di loro mi ha addirittura domandato se facevo servizio a domicilio.
Tutto questo ve l’ho raccontato per darvi il quadro della situazione, ma tornando a bomba, cari miei, in quel momento mi ritrovavo sulle scale dell’ingresso a pensare, perché se non me la giocavo nella maniera giusta, questo momento di relativa pacchia sarebbe senz’altro cessato. Non starò a tediarvi con gli ultimi avvenimenti trascorsi, ma dovete sapere che rischiavano di mettermi in una situazione delicata. Ero quasi certo che nessuno fosse a conoscenza del fatto che fossi andato a ficcare il naso là dentro, cosa successa, tra l’altro, del tutto involontariamente. Diciamo per pura curiosità. Il problema era che Stepan aveva chiesto di vedermi in una giornata diversa da quella dei nostri soliti incontri. E, se devo essere del tutto sincero, avevo percepito una nota strana nella sua voce. Confuso da questa impressione, ho premuto il pulsante dell’ascensore convinto della mia decisione: se tirava fuori qualche argomento che non mi andava avrei cercato di arginarlo, se insisteva, be’, avrei preso una decisione lì sul momento.



II

Erano quasi le diciotto quando Stepan mi ha fatto entrare. Come ormai era nostra usanza, ci siamo scambiati un casto bacio sulle labbra. Ne ha approfittato per palparmi il sedere, ma a quello avevo fatto l’abitudine. Io indossavo una Lacoste verde prato, un paio di jeans e scarpe da vela senza calze. Posso dire che la natura e il minimo indispensabile di palestra che mi permettevo in quegli anni, facevano di me un bocconcino prelibato tant’è che Stepanka – come voleva essere chiamato da quando eravamo più intimi – mi ha dedicato uno sguardo compiaciuto.
Da tempo, essendo diventando il nostro rapporto poi intimo e rilassato, anche l’abbigliamento che si concedeva in mia presenta era diventato più femminile e risqué. Quella sera indossava una vestaglia femminile di raso color polvere, lunga alle caviglie, aperta sul suo fisico magro nonostante la cintura allacciata in vita. Le gambe, ancora piuttosto belle devo ammettere, pur se non depilate, erano fasciate da calze di un colore freddo, grigio scuro – che su una donna avrei trovato davvero sensuali – sostenute da una sottile giarrettella in tinta. Nell’apertura della vestaglia si intravvedevano un minuscolo reggiseno di seta nera che non teneva su quasi nulla e un paio di mutandine di nylon scuro trasparente. Contenevano a malapena il suo uccello a riposo, che pareva un pitone addormentato. Non fosse stato per la voce, poteva apparire come una zia matura e un poco legnosa, determinata a sedurre il giovane nipote.
Ha fatto una piroetta vanesia davanti a me ruotando su un paio di sandali a fascetta di pelle nera con tacco di modesta altezza, ma che già bastava a renderlo più alto di me di mezza testa. L’ho rassicurato che stava un amore e che la parrucca bionda di capelli corti e sottili era perfetta per il suo viso.
Soddisfatto dei miei apprezzamenti galanti, mi ha preparato un drink e siamo usciti in terrazzo dove già c’era il suo tumbler posato sul tavolino. Erano i primi giorni di giugno e si stava benissimo. Come tacita regola tra le parti, non se lo faceva prendere subito in mano: era necessaria una sorta di corteggiamento asciutto, mi verrebbe da chiamarlo, che in un lasso di tempo indeterminato ci portava a sederci sul divano, dove, con un’intimità artificiosa, qualche bacio e palpatine discrete, avveniva il rapporto.
Avevo scoperto che la morbidezza e la seducente sensualità al tatto di raso e seta non mi dispiacevano affatto. E doveva averlo intuito pure lui, perché erano ormai diventati una dotazione standard del suo abbigliamento. Del resto, pensando alle tante storie avute fin dai tempi delle medie, non ricordavo alcuna mia amichetta che si fosse anche soltanto avvicinata a quel tipo di abbigliamento dal forte immaginario seduttivo, del quale invece Stepanka amava abusare.
Abbiamo parlato del più e del meno, una chiacchierata sempre più allusiva che nel giro di una mezz’oretta ha creato l’atmosfera propizia a quel succedaneo di amplesso. Siamo rientrati e abbiamo raggiunto l’ampio sofà sul quale ci siamo seduti uno accanto all’altro, le spalle che si toccavano. Siccome continuavo ad avere l’impressione che qualcosa lo tediasse, ho deciso che mi sarei concesso un poco più del solito. Così, senza troppo riflettere, ho avvicinato il viso al suo e l’ho baciato, prima sulla spalla, poi sul collo e infine sulle labbra. Questo deve averlo sorpreso, perché si è come ritratto per un paio di istanti, per poi posarmi una mano sulla nuca, come a volermi impedire un ripensamento. Infine ha socchiuso la sua bocca sulla mia e mi ha infilato quasi di prepotenza la lingua tra i denti.
Lì per lì la cosa mi ha sconvolto, dandomi un po’ di batticuore, ma invece di sottrarmi, l’ho baciato più a fondo, respirando il suo profumo e carezzandole una coscia coperta dal raso della vestaglia. Mi ha attirato contro di sé diventando vorace in un suono umido di scambio labiale e sospiri un po’ troppo maschili. I nostri occhi si sono incontrati e nei suoi ho visto un desiderio immane.
Mi ha frugato la bocca con la lingua ancora per qualche momento, le labbra che succhiavano le mie col gusto di che sta facendo qualcosa che ha dovuto aspettare per parecchio tempo, poi si è staccato da me e con una lieve pressione della mano sulla nuca ha avvicinato la mia faccia al reggiseno inconsistente che traspariva nell’apertura della vestaglia. la cosa più prominente erano i capezzoli che spingevano sul tessuto e che io, senza porre indugio, ho stretto tra le labbra, prima, e mordicchiato con i denti, poi. Il capo posato sulla spalliera del sofa, Stepanka sembrava vicina all’estasi. Continuava a carezzarmi, ansimando, toccandomi dappertutto mentre i suoi capezzoli diventavano grossi e duri tra le mie labbra.
Con la coda dell’occhio ho notato che anche il suo uccello si era gonfiato a dismisura e sporgeva dalle mutandine che non riuscivano più a trattenerlo. Con una mano lo ha liberato dal leggero tessuto, cosa che con un guizzo gli ha permesso di mostrarsi in tutta la sua estensione. Era largo e curvo e si rastremava verso il glande ormai scoperto per metà.
Stepan si è come ripreso dall’ebrezza e mi ha baciato passandomi con voracità la lingua nella bocca per qualche momento, poi, devo dire con un gesto eccessivamente assertivo, ha fatto pressione sulla mia nuca per avvicinare il viso al suo uccello che dava piccoli guizzi di eccitazione. Insomma, il momento che avevo temuto per lungo tempo si stava infine presentando lasciandomi senza scampo apparente.
Ero pure eccitato, lo devo ammettere. Quindi senza farmi troppo pregare, ho chiuso prima gli occhi e poi le labbra sul suo grosso cazzo. Aveva un gusto strano e una consistenza particolare. L’ho succhiato e leccato per un po’ mentre lui gemeva di piacere. In breve ha perso ogni sapore e la saliva lo ha lubrificato permettendogli di scorrere liscio nella mia bocca. Carezzato dalla sua mano avida, il mio capo andava su e giù tra le sue gambe come un meccanismo ben oliato, tanto che pareva non avessi fatto nient’altro in vita mia.
A un certo punto mi ha afferrato per i capelli e me lo ha sfilato di bocca. Prima che avessi tempo di sorprendermi, mi ha rimesso dritto e si è sistemato a cavallo delle mie cosce, il bacino all’altezza della mia faccia e il glande che vibrava di insolente desiderio a pochi centimetri dal mio naso. Si è appoggiato allo schienale e con evidente piacere me lo ha spinto nella bocca. Adesso ad andare avanti e indietro era lui, con un movimento del bacino dapprima lento, poi sempre più veloce. Ho posato le mani sui suoi glutei coperti dalla vestaglia di raso e li ho carezzati godendomi la setosa morbidezza del tessuto.
Con mugolii di piacere ha aumentato il ritmo e a un certo punto, senza avvisare, mi è venuto in bocca riempiendomela di un liquido denso e oleoso. Ho cercato di sfilarmi ma lui ha spinto più a fondo e lo sperma mi è addirittura uscito dal naso. Parte è colata tra le labbra e la maggior parte l’ho dovuta inghiottire per non soffocare.
«Bravo, amore» ha mormorato «così, così, succhiami bene…»
Ho borbottato qualcosa con il suo cazzo in bocca e lui lo ha mosso piano, poi lo ha sfilato, lasciandomelo davanti alla faccia, la cappella scoperta, striata di residui biancastri.
«Puliscilo bene, amore» ha detto, «non va sprecato.»
«Lei è fuori…» ho ansimato.
Ma ormai ero roba sua e me lo sono ritrovato in bocca. L’ho succhiato piano, facendolo scorrere tra le labbra e passandogli sopra la lingua. Il seme sapeva vagamente di urina, mescolato a un sapore più intenso e speziato che non avrei saputo definire.
Infine Stepan si è alzato lasciandomi lì seduto, del tutto suonato dall’esperienza che avevo appena subito. Doveva avere una quantità enorme di liquido seminale, perché ne avevo la faccia impiastricciata e mi aveva anche macchiato la Lacoste. Si è avvicinato a un cassettone Luigi Vattelapesca e da un cassetto ha preso un tovagliolo di carta che mi ha passato. Mentre mi pulivo il viso, ha preso il suo smartphone e mentre tornava da me ha passato più volte il dito sul touch screen.
«Adesso c’è una cosa di cui dobbiamo parlare» ha detto.
Ha trovato quello che cercava e mi ha passato il cellulare, rispondendo così al mio sguardo interrogativo.
Era un filmato. Camera fissa, poca luce, ma sufficiente a farmi capire che si trattava di qualcosa che conoscevo bene, successo un paio di giorni prima. Riprendeva l’interno del box di sua proprietà che usava come magazzino nel seminterrato. Era pieno di scatole di cartone, diverse pile alte fino al soffitto, e sapevo bene cosa contenevano perché ero andato a curiosare proprio là dentro. Pensavo che nessuno mi mi avesse visto, invece eccomi lì, filmato mentre mi muovevo tra le scatole.
Ero talmente sorpreso che mi avessero ripreso, di certo una telecamera nascosa, che mi sono chiuso in un silenzio che definirei allibito.
«Cosa ci facevi là dentro?» ha domandato Stepan riprendendo il cellulare.
«Giuro che è stato un caso» ho risposto in tono contrito. «L’altro ieri sera, mentre scendevo, l’ascensore si è fermato al sesto piano ed è salita una tipa. Doveva andare giù ai garage e io ho scordato di premere il tasto del piano terra. Così mi sono ritrovato con lei nel seminterrato e sono dovuto tornare su a piedi.»
«E com’è che sei andato a ficcare il naso nel mio box?»
«Passando lì accanto l’ho visto aperto.»
«Quel cretino di Donato si era dimenticato di chiuderlo» ha borbottato come tra sé
Mi sono ben guardato dal chiedere di chi diavolo stesse parlando.
«Le chiedo scusa, è stato solo un gesto di curiosità.»
Nonostante fossimo ormai così intimi, continuavo a dargli del “lei” perché Stepan mi aveva detto che gli piaceva l’idea che fossi un ragazzino ben educato. Finalmente è tornato a sedersi al mio fianco e ha ripreso il cellulare. Dentro alle mutandine il suo uccello era tornato a una proporzione normale, segno che i piaceri della carne per il momento passavano in secondo piano. Profumava di colonia, sempre la stessa, quella che usava pure il suo alter ego maschile. La sua mano si è posata sulla mia coscia e le ha dato una blanda stretta. Era grande con dita lunghe e nervose, non proprio le mani di Ursula Andress.
«Curiosando là dentro mi hai messo in una situazione piuttosto delicata» ha detto imbronciato.
«Sono desolato, non pensavo di crearle dei problemi. Se c’è un modo per rimediare, farò qualunque cosa.»
Non ha detto né sì, né no. Mi ha fissato con il suo sguardo bistrato. Per l’età che aveva, il viso era abbastanza liscio, con qualche zampa di gallina accanto agli occhi, e due pieghe d’espressione ai lati della bocca, ormai priva del rossetto che mi ero mangiato io. Per il resto, il tempo trascorso lo si vedeva piuttosto sul collo, un po’ come succede alle donne rifatte. Ho notato che aveva assottigliato le sopracciglia coprendole con un poco di cerone.
«Immagino tu abbia capito cosa c’è in quelle scatole» ha supposto.
Ho annuito. Avevo un pelo di batticuore e avrei preso volentieri l’ultimo volo per Katmandu. Invece ero lì, e dovevo riuscire a cavarmi d’impiccio.
«Quella è solo una parte della roba» ha aggiunto. «Proviene da due tir della Apple, lo avrai letto sui giornali.»
«Sì» ho balbettato, «Era quattro giorni fa sul Corriere. Li hanno svaligiati.»
«Già…» ha fatto.
«Ma non lo dirò a nessuno, stia tranquilla. Le devo molto, non lo dimentico.»
«Già» ha ripetuto. «Di questo ne sono certa.»
«Allora posso andare?» Per il rotto della cuffia sono riuscito a evitare che sembrasse una preghiera.
«Andare dove?»
«Be’, a casa. Se vuole prima posso farle un altro pompino» ho concesso.
Ha riso. «Un altro pompino? Che succede, ti è piaciuto così tanto?»
Ho fatto spallucce. Prima uscivo di lì e meglio era. Se per riuscirci dovevo fargli un secondo pompino era ok, per me, dopo mi sarei lavato i denti.
«Saper cambiare idea è segno di intelligenza, no?» ho detto.
«Ascolta» ha detto lui. «Non è che non mi fidi di te, ma sarebbe meglio che rimanessi qui da me per qualche giorno. Se non è un problema.»
«Qualche giorno?»
«Sì, una settimana al massimo. Il tempo che l’affare sia concluso. Se vai in giro, magari ti può scappare detto qualcosa e sarebbe un disastro. Se stai qui, invece, siamo tutti più tranquilli.»
«Siete?»
«Ho un paio di soci, penserai mica che abbia svaligiato due tir da solo.»
C’erano pure i soci. Marcava male, ragazzi, malissimo.
«Una settimana è un sacco di tempo» mi sono lamentato, «Ho del lavoro arretrato da finire.»
«Troveremo il modo di farti lavorare da qui» ha sorriso.
«Ma il mio computer è a casa, con tutto ciò di cui ho bisogno.»
«Questo non è possibile» ha ribattuto secco. «Mettitelo bene in testa, ci sono in ballo troppi soldi. È la mia pensione ai Caraibi, ricordi?»
«Mi vuole sequestrare?» ho brontolato imbronciato.
«Non essere sciocco» Più conciliante. «Sarai ben pagato, per il disturbo, è ovvio. E poi in questi giorni possiamo conoscerci meglio, sono sicura di piacerti. E visto che l’hai trovato così eccitante, mi potrai fare dei pompini da urlo.»
Mi sono alzato dal divano. Era ora di levare le tende. «Preferisco che continuiamo come prima, se non le spiace. Ci vediamo in negozio.»
Non ha nemmeno fatto cenno di alzarsi per accompagnarmi, invece ha accavallato le gambe senza degnarmi di uno sguardo. Forse l’avevo offeso. Fingendo una tranquillità che ero lungi dal provare, ho attraversato il salotto per raggiungere l’ingresso. Ero a un paio di metri dalla porta del disimpegno quando questo nero con indosso una di quelle tute da ginnastica in acetato lucido scuro, proprio quelle da negro, mi è comparso davanti impedendomi il passaggio. Mi sono bloccato con espressione stupefatta mentre il mio cervello, da quella macchina perfettamente efficiente che è, realizzava al volo che si trattava di uno dei famosi soci.
«Torna indietro» ha detto con un tono che non ammetteva repliche.
Con Stepan forse ce la potevo fare, ma con questo era tutt’altro paio di maniche. In due, poi, non c’era proprio storia. Per giunta, siccome non mi muovevo, ha sollevato un lembo della giacca per mostrarmi il calcio di una piccola pistola infilata nell’orlo delle braghe lucide che indossava.
Sbigottito, sono indietreggiato di un paio di passi, quindi siamo tornati assieme al divano, io davanti, lui dietro.
«Pensavo volessi andare» mi ha preso in giro Stepan con un sorrisetto.
«Non potete tenermi qui» ho protestato fingendo un cuor di leone. «Sarebbe un rapimento.»
«Non esagerare, sarai mio ospite.» Si è alzato dal divano. «La tua camera è già pronta.»
Prima che potessi protestare è intervenuto il nero. Aveva i capelli lisci, lucidi, tagliati appena sopra le spalle, forse una parrucca pure quella.
«Dammi retta è meglio se lo leghiamo» ha detto.
Ero senza parole. Stepan mi ha guardato accigliato, carezzandosi il mento.
«Non ce n’è bisogno, vero amore?»
Scena muta e broncio.
«Ti dico che non mi fido» ha insistito il nuovo arrivato. «Questo pianta delle grane. Una volta legato dovrà soltanto ubbidire.»
«In effetti» ha ammesso l’altro. «Ci risparmierebbe il problema di doverlo sorvegliare in continuazione. Tanto, quando rimarrà solo in casa dovremo legarlo comunque.»
«Ma non potete…» ho balbettato.
«Mi dispiace, Matteo, non abbiamo scelta. Cerca di capire, c’è in ballo il futuro di tutti noi.»
«Hai della corda?» ha tagliato corto Il nero.
«Hai mai visto la casa di un travestito dove non ci siano delle corde?» ha scherzato Stepan. «Te la prendo.»
Si è diretto verso la porta in fondo in uno scintillio di raso color perla. Il nero mi stava davanti, il volto privo di espressione. Doveva avere una trentina d’anni, forse trentacinque Era di tutta la testa più alto di me, asciutto ma robusto. Ho notato un accenno di ombretto argento sulle palpebre. Attorno alla bocca, un segno – appena più scuro della mucosa – tratteggiava la linea delle labbra. Aveva sopracciglia sottili, forse tatuate o ripassate a matita, e denti bianchissimi. Ai piedi portava un paio di infradito di plastica trasparente.
«Se fai il bravo» ha detto con voce profonda ma armoniosa, «non ti succederà nulla di male.»
Non ho risposto perché, anche se tentavo di nasconderlo, ero pietrificato. Questi due stavano per legarmi come un salame e io non aveva modo per levarmi d’impiccio. Per giunta l’amico, qui, aveva pure una pistola.
Stepan è tornato con due o tre matasse di corda di cotone bianca e le ha consegnate al suo amico. «Puoi metterlo nella stanzetta accanto al guardaroba.» Ha indicato un corridoio oltre la porta di fondo. «Non ha finestre e il letto è già pronto.»
«Sentite» ho quasi implorato, «se questo è il problema, non mi muoverò di casa, ve lo giuro. Non c’è bisogno di legarmi…»
«Ascolta» mi ha interrotto Stepan «adesso lasciamo che Shontasia faccia come vuole. Più tardi magari ne riparliamo, d’accordo?»
Shontasia? Ma dove cazzo ero finito? Ho capito che non c’era nulla da fare e questo mi ha in qualche modo sgonfiato. Il nero mi ha preso per un braccio.
«Forza» ha sollecitato.
L’ho preceduto fuori dal salotto. Sulla porta mi sono voltato e ho incrociato lo sguardo di Stepan. Mi stava fissando e la sua espressione non è cambiata di una virgola, era probabile che stesse già pregustando di farne di cotte e di crude assieme a me. Shontasia mi ha condotto in una stanzetta cieca e spoglia in fondo al corridoio. Attraverso l’unica porta socchiusa si vedevano le piastrelle e la tazza del cesso di un bagno. Il solo arredamento era costituito da un vecchio letto a una piazza e mezza con la struttura di metallo, una lampada a piantana, una vecchia sedia di legno con la seduta foderata di velluto consunto e un cassettone bianco di Ikea che occupava l’intera parete. Il pavimento era coperto da una moquette color petrolio.
E adesso? Mi sono voltato a guardarlo. Aveva posato due rotoli sul letto e stava svolgendo il terzo, con calma, come se gustasse la mia ansia.
«Spogliati» ha detto.
«Come, scusa?»
«Dai, muoviti, togliti i vestiti.»
Mi sono spostato mettendo il letto tra me e lui. «Si può saper cosa centrano i miei vestiti?»
Ha interrotto il suo lavoro e mi ha fissato con uno sguardo che se fosse stato un treno mi avrebbe travolto. «Stammi a sentire, ragazzino, o fai quello che ti dico o ti ci costringo io, mi sono spiegato?» Ha finito di disfare la matassa, formata da quattro pezzi di corda di varia lunghezza dai due ai tre metri ciascuno. «Ti sconsiglio di continuare a seccarmi.»
In uno stato d’animo che non vi sto a raccontare, ho tolto la polo e l’ho buttata sul letto. Una volta sfilate le scarpe ho slacciato i pantaloni e mi sono levato pure quelli. «Le mutande non le tolgo» ho farfugliato.
«Vieni qui.» Mi sono avvicinato con cautela. «Bravo, adesso dammi le mani.»
Ho alzato le braccia verso di lui.
«Dietro alla schiena» ha specificato.
Gli ho dato le spalle, come voleva lui. «Calmati, vedrai che facciamo in fretta» ha detto ancora.
Ha preso le miei mani e ha cominciato a legarle dietro la schiena. Sentire la corda che si stringeva sulla pelle non è stata una bella sensazione, aveva un che di definitivo che mi ha dato il batticuore. Ha stretto diversi giri attorno ai polsi e li ha strozzati in centro, poi un altro paio e infine si è messo a fare i nodi.
«Visto?» ha detto. «Ci siamo quasi.»
Nudi già ci si sente inermi, con le mani legate la sensazione è terribile. Forse ho avuto un tremito, perché mi ha abbracciato da dietro e mi ha stretto a sé. Sotto al tessuto lucido della tutta il suo corpo era tonico, forte. Mi ha carezzato l’addome mentre il suo pube premeva contro le mie mani. Ho stretto i pugni.
«Non ti piacciono le ragazze nere?» ha detto passandomi le labbra sul collo.
«Non mi piace quello che mi state facendo» ho mugugnato.
«Dice Stepanka che sei servizievole» mi ha mormorato nell’orecchio. «lo sarai anche con me?»
Siccome non rispondevo mi ha spinto verso il letto. «Forza, dobbiamo finire» ha detto.
Ha preso altra corda dal letto, l’ha fatta doppia, poi me l’ha passata attorno alla vita e ha portato l’asola dietro la schiena. Credo abbia girato il pezzo di fune residua attorno alla legatura dei polsi per impastoiarli in modo che non li potessi staccare dalla schiena. Prendendomi di sorpresa mi ha abbassato le mutande e, spingendomi sul letto, me le ha sfilate dicendo che non mi sarebbero servite. Ho protestato ma lui mi ha bloccato seduto premendo con le mani sulle spalle.
«Si fa sempre come dico io» mi ha informato. «È meglio se te lo ficchi in testa.»
Ha cercato di baciarmi ma ho scostato il viso e le sue grandi labbra sono riuscite a posarsi soltanto sull’angolo della mia bocca. Altro pezzo di corda. Sogghignando si è accucciato davanti a me e ha unito tra loro le mie gambe. Gli avrei potuto dare un calcio sul muso o una ginocchiata sul mento, ma a che pro? Lo avrei soltanto fatto incazzare e vendicarsi di uno che ha le mani legate è quasi un divertimento. E poi, appunto, la mia attenzione era concentrata sui polsi che a malapena potevo muovere, una sensazione di impotenza piuttosto spiacevole.
Nel frattempo, giù di sotto, Shontasia aveva la faccia giusto davanti al mio pisello che, a causa della situazione, si era rattrappito in una forma di morte apparente. Con un paio di solidi nodi ha fermato la legatura che ora mi stringeva le caviglie. Usava lo spago con tale perizia da dare l’idea che in vita sua non avesse praticato altre attività.
Una volta fatto, ha sistemato due cuscini contro la spalliera, poi, approfittandone per palpeggiarmi mi ha aiutato a stendermi sul letto in una posizione il più possibile confortevole.
«Volete tenermi così per una settimana?» ho domandato in stato di evidente preoccupazione.
«È probabile che ci voglia qualche giorno in più» ha detto.
«Mi cercheranno» ho buttato lì.
«È possibile, ma non ti troveranno.» La cosa lo divertiva.
Ha preso i miei calzoni da terra e li ha scossi. Dalla tasca ha sfilato le chiavi del mio appartamento e quelle della macchina. «Farò un salto a casa tua per rispondere a eventuali mail. Così non perderai i clienti.»
Era diverso da Stepan, meno raffinato, anche se più sicuro di sé, almeno in apparenza. Pareva il punto d’incontro tra un uomo effeminato e una donna mascolina. Il suo viso liscio dava la sensazione che se fosse stata una donna vera non sarebbe stato molto differente. Avrebbe avuto lo stesso naso, i medesimi zigomi e, soprattutto, le sue labbra sarebbero state tali e quali, belle, grandi e già di per sé femminili.
Mentre parlavamo si era seduto sul letto e mi stava carezzando una coscia. Me ne sono reso conto e ho piegato le gambe per sottrarmi. Ha fatto spallucce come a sottolineare che poteva farmi tutto ciò che voleva in qualsiasi momento. Se non era adesso sarebbe stato più tardi o domani. Era evidente che gli piacevo. Come a sottolinearlo, si è passato la lingua sul labbro superiore. Era rosata, quasi luminosa rispetto al colore scuro della pelle.
«Sono fastidiose queste corde.» Dovevo lamentarmi, e che diamine.
«Ci farai l’abitudine, questo non è niente. Qualche volta dovremo lasciarti solo in casa. Dovrò fare in modo di ritrovarti al nostro rientro. Quello sì, lo troverai fastidioso.»
«È una prepotenza» ho mugugnato.
Si è alzato. «Questo dipende da te, uno schiavo deve soltanto ubbidire. Adesso stai qui bravo, noi abbiamo da parlare.»
Ha lasciato la stanza mollandomi lì da solo, nudo come un verme e legato come un salame. Ho provato ingenuamente a divincolarmi per vedere se riuscivo a liberarmi, giusto il tempo di capire che non c’era nulla da fare.



III

Siccome sono testardo come un mulo, ho cominciato a ragionare su come levarmi d’impiccio, diritto sacrosanto di ogni prigioniero, sancito dalla convenzione di Ginevra del 1929.
Nel corridoio, mentre Shontasia mi portava in questa stanza, eravamo passati accanto a una mensola su cui erano posati un paio di libri, alcune cianfrusaglie e, soprattutto, un telefono. Se riuscivo a raggiungerlo in silenzio, avrei potuto chiamare il 112 per far arrivare la cavalleria. Con i telefoni a tasti basta alzare la cornetta con la bocca e comporre il numero con la punta del naso, l’ho visto fare in un mucchio di film.
Il problema erano le caviglie impastoiate che tenevano i piedi uno accanto all’altro. Ho messo le gambe giù dal letto e con una piccola spinta mi sono alzato in piedi cercando di non finire lungo e tirato sul pavimento. Ho scoperto che le mani legate dietro la schiena rendevano difficile mantenere l’equilibrio. L’altro problema consisteva nei saltelli che avrei dovuto fare per muovermi, troppo rumorosi. Conveniva strisciare.
Non senza fatica sono riuscito a inginocchiarmi, poi con una torsione mi sono coricato sulla moquette e, una volta girato sulla schiena, ho cominciato a scivolare con la testa in avanti. Piegavo le ginocchia e poi mi stendevo spingendo avanti il busto, una cosa che mi faceva sentire immensamente furbo.
Una volta uscito dalla stanza, mi sono fermato un momento per riprendere fiato. Non vorrei che pensiate che lo stessi facendo a cuor leggero, in realtà mi accompagnavano una fifa dell’accidente e un discreto batticuore. La mensola era a metà del corridoio; a me, che avanzavo come un grosso verme, pareva a chilometri di distanza. Una volta rinfrancato sono ripartito, facendo attenzione di muovermi nel silenzio più assoluto. Li sentivo parlare in salotto ma non riuscivo a capire cosa si stessero dicendo.
Ho comunque impiegato meno del previsto e mi sono fermato ai piedi della mensola. Con uno sforzo mi sono seduto posando la schiena contro il muro. Adesso dovevo alzarmi in piedi. Ho raccolto le ginocchia al petto per fare leva e stavo per compiere lo sforzo supremo di rimettermi dritto, quando Stepan è comparso al fondo del corridoio. Non so dove diavolo stesse andando, ma il momento era il peggiore. Si è fermato e ha messo le mani sui fianchi con aria sorpresa.
«Shontasia» ha detto rivolta verso il salotto, «vieni a vedere chi ho trovato.»
Altri tre secondi ed è arrivato anche il nero. Mi ha visto e mi è venuto incontro con aria scocciata.
«Non fargli male» lo ha esortato Stepan, mozione che ha trovato il mio completo appoggio.
L’altro si è avvicinato e con una pedata sulla spalla mi ha rovesciato sul pavimento. «Dammi una mano» ha detto all’amico. «Prendilo per le caviglie.»
Mi sono divincolato appena, nel tentativo di rendergli le cose più difficili, giusto per salvare la faccia, ma ne ho soltanto ricavato un’altra pedata nella schiena.
«Ahi!» ho gridato.
«Chiudi il becco o ti imbavaglio» ha minacciato.
Per fortuna Shontasia calzava le infradito perché altrimenti mi avrebbe fatto male sul serio. Mi ha acchiappato sotto le ascelle, intanto che Stepan mi sollevava per i piedi, e mi hanno riportato in camera. Ho incontrato lo sguardo di Stepan che m’è parso piuttosto accigliato. Quando si era chinato, nel tentativo di bloccarmi, gli si era aperta la vestaglia e un minuscolo seno era andato fuori posto. Nelle mutandine trasparenti, tuttavia, il suo uccello sembrava essersi svegliato e si era messo di traverso riempiendole quasi del tutto. Vedermi legato doveva aver eccitato i suoi sensi perversi.
Mi hanno rimesso sul letto e Shontasia mi ha di nuovo sistemato contro la testiera ma in maniera meno delicata, questa volta. Ha preso un pezzo di corda e lo ha doppiato. Mi ha spinto malamente di lato e mi ha costretto a piegare le gambe dietro la schiena, poi ha legato assieme polsi e caviglie lasciando tra loro una distanza di poco più di venti centimetri. Fine dei vagabondaggi, per il piccolo Matteo. Quando ha finito mi sono raddrizzato cercando una posizione più confortevole.
Mi ha preso per i capelli e mi ha scosso la testa in malo modo.
«Fammene ancora una» ha sbottato, «e ti pentirai di avermi incontrato. Hai capito?» Ho annuito. Altro scossone. «Hai capito?» ha chiesto ancora.
«Sì, sì…» ho strillato con una smorfia di dolore. «Ho capito.»
«Bene.» Mi ha lasciato andare. «Abbiamo cose più importanti a cui badare, che non starti in continuazione con gli occhi addosso. Ti avverto: so come renderti questo soggiorno molto più spiacevole. Per scoprirlo non hai che da continuare a rompermi il cazzo.»
Ho distolto lo sguardo dal suo perché adesso ero spaventato. All’improvviso tutto quanto aveva preso una dimensione reale, drammatica oserei dire. Avrei pianto per la frustrazione, ma sono riuscito a ricacciare indietro le lacrime. Dal canto suo, Shontasia doveva essere soddisfatta della ramanzina, perché si è alzata e si è diretta verso la porta.
«Ti raggiungo tra cinque minuti» ha detto Stepan.
Ha atteso che l’altro uscisse dalla stanza, poi, senza fretta ha raccolto da terra i miei pantaloni, le mutande e la Lacoste, li ha piegati e posati sull’unica sedia della camera. Infine è venuto a sedersi accanto a me. Non riuscivo a levare lo sguardo dalla pelle glabra del suo addome magro sul quale la pelle pareva sottile al punto di rivelare ogni minimo particolare della muscolatura. Il pube era asciutto, depilato. Le mutandine attraverso le quali si vedeva il suo uccello di traverso, sembravano quasi tese sulle ossa del bacino. Per un momento mi e sembrato di vivere una specie di allucinazione, una visione del tutto fuori dal mio controllo.
Stepan mi ha carezzato una coscia insinuando le dita verso l’interno, una via di mezzo tra una carezza oscena e un contatto affettuoso.
«Cosa ti è saltato in mente?» ha detto. Ho fatto spallucce. «Dove diavolo pensavi di poter andare? Se posso darti un consiglio, prendila come un’esperienza nuova» ha suggerito. «Vedrai che passerà più in fretta.»
«Cosa mi volete fare?» ho chiesto da vero pusillanime.
«Vogliamo solo che tu non vada in giro a dire ciò che hai visto.»
«Ho giurato che non l’avrei fatto.»
«Shontasia è fatta così, non si fida. E adesso siamo andati un po’ troppo in là, non credi?»
«Una volta che tutto sarà finito mi farà la pelle.»
Ha sorriso. «Non farà nulla del genere. Un omicidio scatenerebbe una vera caccia all’uomo, non avremmo scampo. Invece ti daremo dei soldi e poi spariremo. Sarà tuo interesse rimanere in silenzio.»
Che potevo obiettare? Forse aveva ragione lui e un po’ di soldi mi facevano comodo. Per questo, invece di rispondere ho detto: «Siete amanti?»
«Shontasia e io? Qualche volta è successo.»
«Chi è l’altro socio?»
«Avrai modo di conoscerlo. Sei proprio il suo tipo.»
Sembrava fossi il tipo di chiunque, là dentro. L’idea mi dava un senso di insicurezza. «E se fosse lui a decidere di farmi fuori?»
«Non essere sciocco» ha detto. «Dai… vieni qui.» Non senza difficoltà mi ha fatto spostare in avanti e si è sistemato dietro di me, così che mi sono trovato tra le sue gambe, il dorso adagiato contro di lui invece che ai cuscini. Ho sentito il raso della sua vestaglia sulla pelle, era morbida e scivolosa e non mi è dispiaciuto. Potevo percepire il movimento leggero del petto che spingeva contro di me al ritmo del respiro.
Mi sono lasciato andare e gli ho posato la nuca nell’incavo del collo. La sua guancia mi ha carezzato i capelli. So quanto ciò possa apparire strano, ma avevo bisogno di un po’ di gentilezza. Anche se era un uomo di trenta e fischia anni più di me, vestito o meglio svestito da donna, in quel momento poteva darmi il conforto che cercavo, anche se solo per cupidigia.
«Va meglio?» ha domandato carezzandomi le spalle.
Ho annuito. «Sì» ho pure mormorato. Stavo notando che la sua voce maschile non mi agitava, del resto succedeva già tra i greci antichi, ho pensato, e tra una battaglia e l’altra, pare che i soldati spartani si inculassero tra loro.
Le sue dita carezzevoli si sono fatte più insinuanti, dalle spalle sono scese lungo l’addome per poi risalire verso i pettorali. Avevo un lieve batticuore e quando mi ha stuzzicato i capezzoli ho chiuso gli occhi sospirando. È stato allora che ho sentito l’umido delle sue labbra che mi scivolava piano sul collo e ho pensato che stava di nuovo cercando di scoparmi e che da quei giorni di reclusione o confino ne sarei uscito gay o per lo meno bisvalido. Ma in quel momento non me ne fregava un accidente.
Così, quando ha sussurrato «Dammi la bocca, amore…» ho voltato il capo e gliel’ho offerta, già schiusa, come il frutto proibito. Da dietro lui mi ha baciato, prima con delicatezza, poi in modo sempre più profondo e convulso, prendendo le mie labbra tra le sue e facendoci scivolare sopra la lingua che infine mi ha dato da succhiare. Mentre l’intrecciavo alla mia si sentiva solo il suono umido dei nostri baci e l’ansimare eccitato di Stepan. Le sue mani intanto erano scese a carezzarmi il pube e l’uccello e mi facevano gemere e desiderare di essere slegato per ricambiare.
È stato lui a spingere il suo sesso contro le mie mani legate che per forza di cose si trovavano fra le sue cosce. Me lo ha strusciato contro e io ho aperto le dita e l’ho carezzato prima di stringerlo, un contatto ormai famigliare, cosa che lo ha fatto sospirare di piacere.
Eravamo lì con le bocche allacciate, ansimanti e eccitati, quando Shontasia è apparso sulla porta, bussando appena sullo stipite. Abbiamo interrotto lo spettacolo per guardarlo. Si era levato la giacca e sopra i calzoni lucidi della tuta indossava una t-shirt di spandex nero che pur essendo morbida rivelava con pieghe e riflessi il suo fisico scolpito.
«Ho capito perché me lo hai lasciato legare» ha sogghignato.
«Che c’è adesso?» ha chiesto Stepan. Sembrava seccato per l’interruzione.
«È arrivato Donato.»
«Ok, vi raggiungo.»
Shontasia se n’è andato. Siamo rimasti lì qualche momento, le sue dita che carezzavano il mio addome e il suo uccello che perdeva vigore nel palmo della mia mano. Mi ha fatto voltare il capo e mi ha baciato languido, insinuando la lingua tra le mie labbra intanto che le succhiava per bene. Ho chiuso gli occhi, ma la magia era bella che andata. Lo ha capito anche lui perché si è sfilato da dietro di me ed è sceso dal letto.
«Avremo modo di rimanere soli» ha detto allacciando per bene la vestaglia.
Ho annuito con un sospiro. Sentivo le labbra indolenzite per i suoi baci, erano state morse e succhiate. Lui ha rimesso l’uccello nelle mutandine e si è dato una sistemata alla parrucca di corti capelli biondi.
«Chi è Donato?» ho domandato.
«Il terzo socio.»
«Quanti siete?»
«Solo noi tre.»
Mi ha carezzato una guancia passandomi più volte il pollice sulla bocca, insinuandolo tra le labbra. Un vero e proprio gesto di possesso.
«Sei bello…» ha mormorato come tra sé. «Adesso stai qui bravo» ha concluso, «noi abbiamo da fare.»
«Fammi stendere le gambe» ho pregato.
«Più tardi, quando ceniamo. Non voglio irritare Shontasia.»
Si è chinato per darmi un leggero bacio sulla bocca, poi ha lasciato la stanza. Sono sprofondato nei cuscini mentre sentimenti contrastanti si ingarbugliavano nella mia testa. Una cosa era certa, se l’avessi raccontato al commissariato di quartiere mi avrebbero preso per un pazzo furioso.



IV

Per oltre due ore sono rimasto da solo su quel letto, le gambe piegate in quella posizione intollerabile. Non so se avete mai provato a volervi muovere e non poterlo fare, vi garantisco che è una sensazione frustrante. Nel frattempo il corridoio era diventato buio, dal che ne ho dedotto che dovevano essere le nove passate. Lo stomaco ha emesso un brontolio prolungato, avevo fame.
Shontasia era venuta un paio di volte a controllare che non fossi impegnato in qualche altra stronzata. Alla seconda visita aveva acceso una lampada a piantana perché la stanza stava diventando scura. Dopo aver controllato le corde che mi legavano polsi e caviglie, aveva sistemato meglio i cuscini per farmi stare più comodo, ricordandomi di rigare dritto. Un misto di freddezza e gentilezza che, ho immaginato, servisse ad avvicinarci.
Dall’altra parte della casa sono arrivate delle risate, e un suono di ghiaccio nei bicchieri che mi ha fatto venire voglia di bere. Una bella sbronza, ecco cosa mi ci sarebbe voluto per farmi andare bene quella situazione. Invece niente.
Ho sentito dei passi in corridoio e dopo qualche istante questo tizio è comparso sulla porta della stanza. Aveva in mano un bicchiere di qualcosa che sembrava tanto alcolico quanto sarebbe piaciuto a me e con parecchio ghiaccio dentro. Si è appoggiato con la spalla allo stipite.
«Di là mi hanno parlato di te» ha detto. Ha bevuto un sorso, poi mi è venuto accanto. «Fai vedere.» Ha spinto gentilmente sulla mia spalla per farmi chinare in avanti. «Shontasia ha sempre il senso dello spettacolo» ha commentato guardando le mie mani legate. «Molto sexy, come ti ha sistemato.»
Sono tornato nella mia posizione con aria accigliata. Lui si è seduto sul letto accanto a me. «Mi chiamo Donato» ha detto.
Sovrappeso, ventre prominente, sessanta, sessantacinque anni, a differenza degli altri non sembrava un travestito, per lo meno all’apparenza. Aveva palpebre cascanti su un paio d’occhi scuri, furbi, con sopracciglia rade, grigie come i capelli pettinati all’indietro, fermati sulla nuca con un elastico, in un’accenno di corta coda di cavallo. Portava con noncuranza le borse sotto gli occhi, le rughe, la stempiatura sulla fronte e tutti quanti i segni dell’età. La bocca, ancora ben disegnata, aveva labbra carnose e piene. Portava legata in una specie di coda di cavallo i capelli scuri, striati di bianco. Il viso grassoccio era mosso da un’espressione permanente, e all’apparenza inalterabile, di divertita ironia; un seduttore nato.
«Se non sbaglio, sei venuto qualche volta al club» ha detto.
Ho annuito. Essere legato nudo davanti a uno sconosciuto non è proprio una situazione che ti renda loquace. Visto che tacevo, ha parlato lui.
«Non ti ricordi di me?» ha domandato
«Mi spiace, no» ho ammesso.
«Forse perché ero en travesti, truccato e con una delle mie parrucche» ha detto come se stessimo conversando sull’ultimo film di Spielberg. Mi ha osservato per bene. «Sai, con i vestiti addosso non avevo notato che fossi così carino. Stepan ha sempre buon gusto con i suoi amanti.»
«Non sono un suo amante» ho detto in tono risentito.
«Be’, al club gli facevi le seghe, come lo chiami quello?»
È riuscito a farmi arrossire come una collegiale. Dunque mi aveva visto. Pero non lo ricordavo e questo mi ha fatto pensare che avesse ragione lui; durante le mie visite al club doveva essere vestito da donna. In quel momento, al contrario, portava un paio di ampie braghe in poliestere cangiante color melanzana, chiuse da elastici alle caviglie, e una camicia bianca a maniche corte, aperta fino all’ombelico. Ai piedi calzava delle semplici infradito di plastica nera. Una specie di dandy attempato.
«Com’è che lei non indossa abiti da donna?» ho chiesto in maniera un po’ sgarbata. Che poi, a pensarci bene, quei pantaloni lucidi erano da uomo fino a un certo punto.
Non se l’è mica presa, anzi, ha sorriso.
«Come vorresti vedermi vestito.» ha ammiccato bevendo un’altro sorso.
«Non so, non ha l’aria molto femminile.»
«Indosso la lingerie perché mi eccita, molti gay lo fanno.» Mi ha posato una mano su una coscia. «Dai» ha insistito «Ti piacerebbe vedermi en femme?» Non ho risposto. «Sono ancora eccitante sai? E comunque avresti dovuto vedermi trent’anni fa, potevo portarmi a letto qualsiasi uomo, anche l’etero più convinto.»
«Adesso ha bisogno che siano legati?» ho chiesto senza riuscire a contenere un velo di sarcasmo.
Ha riso. «Se avessi saputo di trovarti nudo, sarei venuto in ghingheri. Ma stai tranquillo, avremo tempo per rifarci. La cosa eccitante, con un partner legato, è che non può rifiutarti nulla»
Si è passato una mano sul cavallo, quasi un gesto involontario. Adesso il suo uccello duro tendeva la seta lucida delle braghe. La eccitavo alla grande, questa gente, tutti quanti. Si è accorto che ogni tanto il mio occhio scivolava sul suo drink.
«Ne vuoi un sorso?»
Ho fatto cenno di sì. Mi ha messo una mano sulla nuca per aiutarmi e con l’altra ha avvicinato il bicchiere alle mie labbra. Ho bevuto a occhi chiusi un paio di lunghi sorsi. Era un buon Negroni, bello carico, che mi ha fatto tanto tanto bene. Qualche goccia mi è scivolata sul mento. L’amico ha preso un tovagliolino verde dalla tasca e mi ha pulito.
«Grazie» ho sospirato.
Nel ritirare la mano con cui reggeva la nuca mi ha carezzato il collo, lo ha fatto di proposito, un gesto che non è riuscito a reprimere. «Hai una gran bella bocca» ha detto. «Da un pezzo non mi capita di infilarlo tra due labbra così.»
Per quel che mi riguardava poteva aspettare altri cento anni, anche se lui non sembrava della stessa idea. Se fossimo stati soli in casa mi avrebbe scopato seduta stante, senza alcun rimorso. Invece si è alzato.
«Hai mai baciato un uomo?» ha chiesto. «Un uomo senza trucco e parrucca, voglio dire, uno come me.»
Ho fatto cenno di no con il capo. Adesso avevo il batticuore. Questo poteva essere mio nonno e stava li a guardarmi come se fossi già nel suo letto. Se non fossi stato nudo, mi avrebbe spogliato con gli occhi.
«Ora devo tornare di là» ha detto. «Visto che me lo hai bevuto tutto, vado a farmi un altro drink. Fra poco ti diamo cena.»
È uscito dalla stanza lasciandomi in uno stato di ansietà ancora maggiore di quanto già non fossi prima. Essere l’oggetto di quelle attenzioni non mi consolava né mi faceva stare meglio, mi rendeva soltanto più inquieto e indeciso. Ad ogni modo, a un certo punto Shontasia è venuta a prendermi e dopo avermi slegato mi ha portato di là. Ho chiesto che mi dessero un paio di braghe ma non c’è stato verso, mi preferivano nudo.
Avevano preparato la tavola e mi hanno fatto sedere con loro. Per cena il convento passava una dose abbondante di purea e delle scaloppine, tipo al marsala o qualcosa del genere. Siccome avevo le ginocchia anchilosate, per rimettermi in sesto ho chiesto e ottenuto un Manhattan, delizioso, preparato da Stepan che non perdeva occasione per toccarmi. Tant’è che Donato ha cominciato a prenderlo in giro.
Ho mangiato con appetito, senza creare problemi. Sarebbe stato inutile, loro erano in tre e Shontasia aveva la sua piccola automatica infilata nei pantaloni. Mentre eravamo a tavola – con Stepan vestito da donna, Shontasia quasi e io nudo, pareva un film americano degli anni Settanta – non hanno parlato del crimine che avevano in corso. Donato ha voluto sapere tutto di me, si vedeva che gli andavo a genio, e mi ha fatto un mucchio di domande.
Infine la pacchia, chiamiamola così, è finita e mi è toccato tornare nella mia cella. Shontasia mi ha portato in bagno ed è rimasto seduto sul bordo della vasca a guardarmi mentre facevo la doccia, intanto che pisciavo e mi lavavo i denti. Privacy zero. Poi siamo tornati in camera dove mi ha legato le mani con la solita perizia. Grazie al cielo ha evitato di fissarle alla schiena con altra corda, altrimenti non so come avrei fatto a dormire.
«Sdraiati» ha ordinato con quel tono da so tutto io che mi agitava.
L’ho fatto. Ha aperto l’armadio. Su uno scaffale erano stipati cazzi finti, vibratori, e altri strani gingilli. Ha preso un paio di manette e ha richiuso. Erano d’acciaio, con nel mezzo una catenella di una ventina di centimetri. È andato al fondo del letto e ha chiuso uno degli anelli attorno alla stanga della sponda. Con l’altro mi ha imprigionato la caviglia.
«Così ti sarà possibile dormire» ha detto. Mi ha aiutato a mettermi sotto il lenzuolo. «Cerca di non fare coglionate, ogni tanto verrò a controllare.»
È uscito dalla stanza lasciandomi solo. Ho chiuso gli occhi nell’improbabile speranza che venisse il sonno. La manetta alla caviglia era fastidiosa, ho ringraziato il cielo che i polsi fossero legati con la corda. Ero in qualche modo riuscito a sonnecchiare quando una presenza si è chinata su di me e una bocca si è chiusa sulla mia. La lingua di Stepan mi si è insinuata tra le labbra di prepotenza, muovendosi lenta contro i denti, le guance, il palato.
L’ho succhiata piano mentre lui mi baciava con passione, emettendo mormorii di piacere e soddisfazione. Attraverso il lenzuolo la sua mano mi stava carezzando tra le gambe, indugiando sul mio coso che non ha impiegato molto a irrigidirsi tra le sue dita. Ha smesso di baciarmi e sollevato il busto. Ho aperto gli occhi. Indossava soltanto la vestaglia di raso color perla. Le falde aperte lasciavano scoperto il suo corpo magro, pallido, senza un filo di grasso, dove i muscoli tesi disegnavano una geografia efebica dalla femminilità accennata.
«Sono venuta a darti la buonanotte» ha ansimato.
È salito sul letto e mi si è messo a cavalcioni, poi si è di nuovo piegato su di me e abbiamo ricominciato a baciarci, labbra che si succhiavano scivolando le une sulle altre, lingue saettanti si incrociavano e si lasciavano in un crescendo di eccitazione amplificato dal suo strusciare il pube sul mio uccello duro come un palo. Tanto ha fatto che sono venuto in un sussulto soffocato dalla sua bocca sulla mia, bagnando il lenzuolo con il mio seme.
A quel punto, Stepan era eccitato da morire, mi aveva convinto a baciarlo, mi aveva sedotto, era riuscito a farmi venire senza quasi toccarmi, dunque mancava una cosa soltanto e sembrava che il momento fosse arrivato. È venuto a sedersi sulla mia faccia e ha preso a strusciarmi sul viso tutto ciò che aveva là sotto, i testicoli, l’uccello, duro e teso, e tutto il resto, masturbandosi lento con le mie labbra.
Non potevo sottrarmi, di conseguenza ho partecipato usando la lingua, gesti erotici accompagnati dal suo respiro concitato. A un certo punto mi ha preso per i capelli per sollevarmi il capo e me lo ha messo in bocca, muovendo il bacino avanti e indietro, sempre più in fretta. Non ho avuto tempo di fare altro che qualche piccola carezza con la lingua, perché nel giro di pochi secondi Stepan ha avuto il suo orgasmo. Mi ha di nuovo riempito la bocca di sperma caldo e oleoso. Era tanto, l’ho sentito tra i denti, in gola, ho inghiottito in fretta per impedire che mi riempisse la cavità nasale. Ho cercato di sottrarmi ma lui mi ha trattenuto per i capelli, così per respirare ho dovuto mandare giù proprio tutto.
C’è voluto un po’ perché cessassero le contrazioni del suo uccello e la sua frenesia perdesse d’entusiasmo. Lo ha sfilato dalle mie labbra e senza una parola mi ha pulito il viso con un lembo del lenzuolo. Io ero senza parole; se solo una settimana prima qualcuno mi avesse chiesto di fare quella roba, lo avrei preso a calci.
Siccome mi sono lamentato che mi pesava sulla pancia, ha chiesto scusa e si è seduto sul bordo del letto. Continuavo a sentire l’odore dei suoi umori perché ne avevo nel naso e nella bocca.
«Adesso fatti una bella dormita» ha detto gongolante.
Mi ha baciato mordicchiandomi le labbra, poi ha abbassato il dimmer della lampada a piantana ed è uscito dalla stanza. Ero turbato, non ve lo nascondo. Mi sono messo su un fianco per non pesare sui polsi legati e ho cercato di scivolare nelle verdi praterie di Manitù.



V

Sarà stata metà della notte, mi trovavo in uno di quei momenti di dormiveglia che, data la scomodità della mia posizione, non potevo evitare. Ero messo su un fianco e davo le spalle alla porta. Ho sentito dei passi felpati che si avvicinavano, poi qualcuno si è infilato sotto le coperte premendo il suo corpo contro la mia schiena. Mi è preso il batticuore, visto che ancora non mi era del tutto passata l’agitazione per la performance di Stepan sulla mia faccia.
«Dormi?» ha chiesto la voce di Shontasia.
Il suo profumo mi è arrivato alle narici, sapeva di sandalo e muschio. Mi sono chiesto perché non usasse una fragranza più femminile, che so, una goccia di Chanel n. 5. In ogni caso ero senza parole, a maggior ragione perché ha cominciato a strusciarsi contro di me, con calma, accompagnando il gesto con alcuni mormorii di soddisfazione. Doveva avere indosso una camicia da notte di nylon o qualcosa di simile, un tessuto dall’aria eterea, perché un velo serico divideva il suo corpo tonico e sodo dalla mia schiena. Lo sentivo scivolare sulla pelle delle braccia e sulle spalle, intanto che le mie mani si posavano sul suo ventre piatto.
Mi ha stretto a sé carezzandomi il petto e l’addome, scendendo pericolosamente verso la zona X. Sentivo il suo respiro tiepido sul collo.
«Sai perché sono qui?» ha chiesto, visto che io non banfavo. È stato un sussurro.
«Per scoparmi?» ho chiesto. Erano solo congetture, me ne rendo conto.
«Sì, ne ho una voglia matta» ha gorgogliato. «Ma se preferisci di no, puoi dirlo. In quel caso me ne vado.»
«Davvero?»
«No, scherzavo.»
Mi ha baciato sul collo, un bacio umido e indolente che ha solleticato la mia pelle provocando un brivido che mi è corso lungo la schiena. Intanto, il suo corpo fasciato di raso – ne ignoravo il colore – si muoveva sinuoso contro la mia schiena e le spalle, mentre dita birbone si facevano insinuanti e stuzzicavano le mie zone erogene provocando reazioni che faticavo a tenere sotto controllo. Mi sono reso conto che contro il palmo delle mie mani legate, separato soltanto da un lucido velo di morbida seta, stava scivolando su e giù l’enorme uccello duro di Shontasia.
«Facciamo le cose per bene» ha gorgogliato costringendomi a voltarmi verso di lui.
Nella penombra ho visto che indossava una sorta di lungo négligé scuro, trasparente, che ne mostrava il corpo nudo come sfumandolo appena. I suoi muscoli neri, sottili e asciutti, e i pettorali robusti, i cui capezzoli pungevano il tessuto quasi inesistente, avevano poco o nulla di femminile; soltanto il viso dagli zigomi pronunciati e la bocca grande e carnosa, assieme agli occhi bistrati, potevano far pensare a una donna mascolina.
Mi ha attirato contro di sé e senza bisogno del visto per l’espatrio mi ha ficcato in bocca cinque centimetri di lingua dandomela da succhiare. Siccome dovevo tenerlo buono, mi ci sono messo d’impegno. Le sue labbra grandi e morbide coprivano le mie scivolandovi sopra. Sentivo la sua lingua muoversi all’interno della mia bocca mentre e le sue mani erano dappertutto, sulle mie chiappe, sulla schiena, a volte premevano sui fianchi per schiacciare il mio corpo contro il suo.
Si è voltato sulla schiena e mi ha sistemato i ginocchio tra le sue gambe. Sotto al tessuto quasi impercettibile del négligè traspariva un fisico del tutto differente da quello di Stepan; era solido, teso, specie nei fianchi che facevano una curva leggera prima di sfumare nella muscolatura scolpita delle gambe. Non aveva un filo di grasso.
Tra le cosce si ergeva il suo uccello, un enorme bastone ricurvo, il cui colore scuro sfumava in quello più rosato del glande. L’ho fissato incapace di muovermi, le mani legate che mi pendevano inerti sul sedere. Sentivo la manetta alla caviglia e la catena tesa che mi teneva attaccato al letto.
«Forza» ha detto Shontasia «prendilo in bocca e succhialo per bene.»
Per rendere più esplicita la richiesta ha passato le dita lungo l’asta scura che presto sarebbe finita tra le mie labbra. Un vero e proprio invito. Mi sono piegato e ho baciato il glande, poi l’ho carezzato con la punta della lingua. Aveva un sapore acre con un accenno dolciastro. Lui si è lasciato sfuggire un mugolio d’approvazione. L’ho succhiato piano bassando la lingua sulla base della cappella, facendola scorrere dentro e fuori dalle labbra. Ogni volta che scendevo ne prendevo i bocca un poco di più e questo mandava in visibilio il nero che ha iniziato a muovere piano il bacino per trarne il massimo del piacere.
Sono riuscito a trovare il ritmo e ho cominciato a fare un pompino con tutti i crismi strappandogli gemiti e mormorii di piacere. Se ne stava con la schiena appoggiata ai miei cuscini, le palpebre abbassate e le grandi labbra schiuse sul candore dei denti, quasi un’estasi per quella prestazione nella quale, devo dire, mi stavo impegnando per bene. Del suo enorme uccello potevo prenderne in bocca poco più di metà e già sentivo il glande in gola. Per supplire allo spazio utile, ho aumentato il ritmo lavorando per bene con la lingua, come pensavo si aspettasse, attento al momento dell’orgasmo in cui, ho immaginato, mi avrebbe inondato con una quantità esagerata di sperma.
Ma Shontasia aveva altre idee. A un certo punto ha sfilato il suo missile dalla mia bocca e mi ha attirato accanto a sé, mettendomi in modo che gli dessi le spalle. Mi sono ritrovato contro i glutei il suo uccello duro come un bastone. Lo faceva scorrere piano contro la mia schiena per tenerlo bello teso.
A un certo punto la sua mano si è insinuata in mezzo alle mie gambe. Era bagnata di saliva che mi ha spalmato per bene tra le chiappe facendola entrare ovunque con la punta delle dita. Ho cercato di divincolarmi ma lui mi ha abbracciato tenendomi ancora più stretto contro di sé.
«Non voglio…» ho protestato.
Mi ha chiuso la bocca con una mano e ha cominciato a penetrarmi piano, con piccole spinte intervallate da brevi pause. Con le mani legate e la caviglia incatenata al letto non potevo fare nulla per sottrarmi. Quando ho capito che più resistevo e più faceva male, ho smesso di agitarmi. Cercando di calmarmi con piccoli baci sul collo e tra i capelli, e continuando a lubrificare con altra saliva, Shontasia non ci ha nesso molto a spingermi tra le chiappe il suo uccello fino alla radice. Dava l’impressione di sedere a cavalcioni di un tronco, ma la sensazione era di averlo dentro.
Quando ha iniziato a muoversi aventi e indietro mi ha finalmente levato la mano dalla bocca. Ho mugolato lasciandomi andare contro di lui per assecondare i suoi movimenti. Sentivo quel cilindro di carne muoversi avanti e indietro nella mia pancia, una sensazione che mai sarei riuscito a immaginare.
Mi ha fatto girare il capo in modo da poter coprire la mia bocca con la sua e mi ha dato la lingua da succhiare. Avevo cose che andavano e venivano da tutte le parti. A un certo punto le sue dita si sono chiuse sul mio uccello e Shontasia ha preso a masturbarmi piano, con metodo. Nemmeno mi ero accorto di averlo duro. Sono venuto con le sue labbra sulle mie, la lingua che mi esplorava ogni angolo della cavità orale.
Infine anche lui si è preso il suo orgasmo. Ho percepito nel ventre gli spasmi del suo uccello, intanto che lui gemeva di piacere dentro la mia bocca. Esausto, ho posato il capo sui cuscini, mentre il mio corpo si lasciava andare come fosse improvvisamente disossato. Sentivo l’uccello di Shontasia che si stava sgonfiando nella mia pancia mentre lei lo muoveva piano tra le mie chiappe. Ho percepito il tepore dell’alito sulla guancia, poi la sua lingua si è posata sul mio collo e lo ha percorso piano, scivolando umida e tiepida sulla mia pelle.



VI

Nemmeno le tre tazze di caffè che avevo bevuto a colazione erano riuscite a rimettermi in sesto dopo quella notte in cui mi erano successe cose ferali, quasi mortificanti per un giovane di belle speranze come me, convinto di essere un maschio alfa tra le sue coetanee.
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