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Servitù a domicilio


di eborgo
13.01.2023    |    6.938    |    0 8.8
"Lo fa bene, con una certa perizia, almeno immagino, perché sotto la pancia il palo sta raggiungendo dimensioni mai viste e le sensazioni che mi regala mi si..."
Capitolo primo. Ogni cosa ha un inizio.

A venticinque anni, e venticinque non sono pochi, dato che a quaranta uno ha già un piede nella fossa e a sessanta è morto stecchito, a venticinque anni, dicevo, non si può passare tutta la giornata attaccato a internet come uno di quei mostri con gli elettrodi che escono dal cervello.
Stare attaccato a internet tutto il giorno è esattamente quello che facevo io. Cominciavo la mattina alle nove e smettevo la notte alle due. Non lavoravo più, avevo una pelle che faceva schifo, la barba sempre malfatta e le mie occhiaie potevo usarle come borse del tabacco. Roba che Bukowski, in confronto a me, sembrava un divo di Hollywood. E la faccenda è durata circa sei mesi, minuto più minuto meno.
Penso a tutto questo e a sei milioni di altre faccende, mentre guido la mia vecchia Volvo 256 verso casa di Marisa, con il cuore che batte come un tamburo e vampe di adrenalina che scuotono il mio corpo di vigliacco. Perché ho dovuto accettare la realtà, ve lo posso anche dire, la realtà di quello che sono e di ciò che sto cercando. Anche se ho una fifa blu e girerei volentieri la macchina per tornarmene a casa ad attaccarmi di nuovo al mio computer come una patella.
Non potevo immaginare che quella sera a casa di Silvia avrebbe avuto inizio una storia del genere. Se lo avessi saputo non ci sarei andato. Se uno potesse sempre immaginare il peggio non sarebbe un gioco leale, questa puttana di una vita. E invece l’incognita è sempre lì, dietro l’angolo, che ti aspetta per darti una barrata in testa.
Comunque eravamo da Silvia e non ti arriva questo tipo da Napoli, uno alto e magro, con l’aria da checca malaticcia, non t’arriva questo accompagnato da un travestito che non vi sto nemmeno a descrivere. Un pezzo d’uomo alto tre metri, vestito da donna, e che camminava su un paio di tacchi che se cadeva di sotto si rompeva lo stramaledetto collo.
Insomma, arrivano questi due e l’imbarazzo lo potevate tagliare con il coltello. Almeno i primi quindici minuti. Le donne, poi, erano imbronciate da morire e schizzinose come gatti. E sapete perché? Ve lo dico io il perché, ve lo dico io. Perché questo travestito o quel che diavolo era, insomma, quello vestito da donna, voglio dire, quello lì, beh era davvero vestito da donna.
Tutte le mie amiche avevano addosso vecchi jeans che sembravano stracci, quelle magliette che hanno l’aria che le porti da tre mesi e quelle pance fuori che se non sei proprio Eva Erzigowa somigli a un quarto di sottofiletto abbandonato nel frigo da una settimana. Erano spettinate, struccate, in scarpe da ginnastica. Quello lì invece, il travestito, aveva una gonna di pelle nera sopra al ginocchio, una blusa di seta che nemmeno la regina Elisabetta e delle calze scure che gli fasciavano ’ste due gambe che sembravano infinite. E veleggiava su quei tacchi che potevano andar bene per fare gli spiedini.
Insomma, voglio dire che quello lì, il travestito, era davvero vestito come una donna, avete capito no?, come si vestivano le donne quando erano donne e non femministe. E non sto criticando, beninteso, perché io vado pazzo per le femministe. E insomma, tutte le mie amiche erano piuttosto indispettite dal fatto che un uomo sembrasse più donna di quanto lo sembravano loro. Ma poi tutti si sono lasciati un po’ andare, la serata è andata avanti, si rideva, si chiacchierava, si mangiava e quello lì, il travestito, era un gran simpatico con quel suo vocione in falsetto e andava di qui e di la sui suoi tacchi e faceva gesti da donna e si lisciava i capelli con le dita e fumava con il bocchino e accavallava le gambe e gli si vedevano le mutandine e, voglio dire, tutti si divertivano un mondo e sembrava che non avessero fatto nient’altro in vita loro che frequentare travestiti.
Tutti, ma non io.
Io, nel momento stesso in cui quello lì, il travestito, aveva messo piede in casa ero rimasto come fulminato, proprio come quella storia della strada di Damasco e quel tizio che rimane lì e che ha avuto una rivelazione. Voglio dire che mi sentivo come se mi fosse caduta in testa una cassaforte. Mi mancava solo la bavetta che mi scendeva dal labbro.
Quando mi ha stretto la mano e mi ha detto piacere Gilda, quando mi ha detto piacere Gilda, mi è venuto duro nei pantaloni. Non ci potevo credere, non era possibile che mi venisse duro nei pantaloni, voglio dire. Quello era un uomo. D’accordo indossava i vestiti e le scarpe della sua ragazza, era truccato per benino e aveva la parrucca bionda, va bene anche questo, ma quello sotto la gonna aveva un’arma micidiale, aveva un missile che l’esercito americano se lo sognava. E io stavo lì a stringergli la manina e me lo facevo venire duro nei pantaloni.
Non sono stato molto di compagnia quella sera, turbato come un’educanda alla quale il marchese del castello accanto ha ficcato una mano nelle mutande.
Ho passato la serata a guardarlo facendo finta di nulla, facendo finta che non mi interessasse, facendo finta che le sue gambe fasciate di nylon non mi attirassero, facendo finta che quando intravedevo quelle mutandine di seta l’uccello non mi venisse duro, facendo finta che non volevo chiedergli il numero di telefono, facendo finta che non avevo nessuna voglia di toccarlo, facendo finta di un mucchio di altre cose.
É stata una serata faticosa a dover fare finta di tutto. E non potevo nemmeno andare da Silvia a domandarle di lui, tanto valeva dirle che quello lì, il travestito, mi faceva un sangue dell’accidente. E questo proprio non lo potevo fare. In questa società bigotta e moralista nella quale siamo impantanati nessuno deve sapere niente. Puoi avere tutte le perversioni che vuoi basta che non lo dici in giro. Puoi scoparti qualsiasi cosa in circolazione che abbia due o più gambe ma devi sempre avere l’aria del buon padre di famiglia. E io quello lì, il travestito me lo mangiavo con gli occhi ma facevo finta di non averlo neppure notato.
La notte mi sono rigirato nel letto come un serpente a sonagli con il sedere che prude. Non riuscivo a levarmelo dalla mente, ero in stato di perenne erezione e credo di essermi fatto una decina di seghe. E non è che io me ne faccia molte. Qualcuna, di tanto in tanto, pensando a Silvia con indosso la sua camicetta da notte. Quella in felpatino con i fumetti di Calvin e Hobbes.
Ero anche spaventato, non posso negarlo, e centinaia di domande mi frullavano per la testa senza una risposta. Ma il peggio doveva ancora venire. Ricordatevelo, non c’è mai fine al peggio. Quando cominci a camminare su un’asse spalmata di grasso è difficile smettere di scivolare verso il basso. La gente poi ti guarda scuotendo la testa, ti guarda come un lebbroso, soprattutto i benpensanti, quelli con tanto buonsenso, quelli che vanno in chiesa e si pentono in continuazione.
Comunque io avevo cominciato a scivolare e mi apprestavo a godermi il viaggio.
Alle quattro di quella notte mi sono seduto al computer per la prima volta, la prima volta che non lo usavo per prenotare un treno o un aereo o per vedere che faccia avesse Javier Marías. Mi sono seduto al computer per la prima volta con la ferma intenzione di cercare in rete foto di travestiti. E ne ho trovate, ragazzi, ne ho trovate una montagna. Sembrava che il sessanta per cento delle foto che si trovano sul web fossero foto di travestiti. Ce n’erano di bianchi, di gialli, di neri, di rossi. Americani, inglesi, francesi, tedeschi, italiani, spagnoli, polinesiani, maori, nepalesi. Mancavano solo quelli che abitano sulla luna. Ero sconvolto dall’attrazione che provocavano su di me.
Certo, le donne mi piacevano ancora, che diamine, anche se nelle mie scopate con Silvia, da lì in avanti, a volte saltavano fuori visi spigolosi, seni piatti, gambe forti e muscolose, uccelli duri che trasparivano da seriche mutandine.
Ma quello che provavo guardando quelle foto su Internet era diverso. Voglio dire che quando pensavo a Silvia o alla sua amica Manuela o a Lilly Gruber o a Emma Marcegaglia, quando pensavo a una donna che mi piaceva, voglio dire, mi vedevo bello e maschio, seduttivo e forte, che le prendevo fra le braccia e le baciavo lasciandole di stucco con il mio fascino animale.
Tra quelle foto di internet, invece, quelle che mi eccitavano erano quelle oscure, morbose, feticiste. Mi piacevano quei travestiti con l’aria sicura di se, vestiti di seta o di pelle, con sandali inesistenti che lasciavano vedere piedi forti, fasciati di nylon. Mi immaginavo in ginocchio tra le loro gambe, a carezzare le loro caviglie forti, spaventato e indeciso se guardare o meno i loro sessi in erezione. Mi piaceva sentirmi senza scampo, costretto ad affrontare quelle fantasie così perverse, così poco per bene.
E le seghe fioccavano.
Silvia mi ha mollato tre mesi fa. Aveva ragione da vendere. Per staccarmi da quel computer ci volevano le cannonate. Ho avuto altre due storie dopo di lei, robetta, giusto per tenere sotto controllo la mia passione regolare, quella che piace alla gente che piace. Sono andato a letto con Manuela ma quando Silvia lo ha saputo si è incazzata come una vipera e abbiamo dovuto piantar lì. Poi c’è stata un’altra ma mi ha beccato a guardar foto come dire, un po’ fuori dalla norma e se n’è andata dandomi del finocchio. Sempre li ad etichettarti, la gente per bene.
Insomma questo è il succo. Alla fine, l’ultimo mese, ho deciso che se non provavo ad andare più in la delle foto sarei impazzito o sarei rimasto con il pirillo in mano.
E così è cominciata l’avventura in chat line. Difficilissima. Non so se avete mai provato, ma agganciare qualcuno in chat line è più difficile che centrare un obiettivo con le bombe intelligenti. Su venti travestiti che contatti diciassette non ti rispondono, uno ti dice che era lì per sbaglio, uno faceva gli scherzi e l’ultimo ti dice che cerca solo donne o altri travestiti.
Una strada lunga ed estenuante quella della chat line, un Camino de Santiago, un passaggio della Beresina, un viaggio nel sistema solare a bordo di una Trabant.
Poi è arrivata Marisa.
Le sue foto le ho trovate su un Group o come cazzo si chiamano quei siti lì, una di quelle comunità dove ci si iscrive e si mettono in linea le proprie foto, in genere oscene. Quarantasei anni a dovergli credere. Me lo sono sognato tre notti di fila. Non appena lo pensavo mi veniva un batticuore infernale e un’erezione che non mi passava più. Era alto e robusto, corpulento ma non grasso. Sempre vestito di pelle o di raso, a volte indossava sandali sottili altre volte stivali con il tacco alto. L’annuncio sotto la sua foto era in inglese ma lui era della mia città. Non potevo crederci.
TV mistress, si definiva. Non mi avrebbe mai risposto, ne ero sicuro.
Aveva i capelli neri corti, probabilmente i suoi, cosa che mi eccitava da morire, e qualche altra volta indossava una parrucca biondo platino tagliata a paggetto. Era leggermente sovrappeso e la sua mascolinità era evidente nonostante l’abbigliamento femminile. Il naso era affilato e sottile e la bocca non tanto grande aveva labbra carnose e ben disegnate. I suoi occhi leggermente a mandorla, scuri e bistrati mi pietrificavano. Il volto era largo, con un lieve accenno di doppio mento e un’ombra grigia che il fondotinta non riusciva a nascondere del tutto. Non era proprio una bellezza ma andava a colpire i miei sensori erotici con la precisione di un cecchino.
Un uomo vestito da donna. Ci ho messo tre giorni a contattarlo. Continuavo a ciondolare intorno alle sue foto, indeciso e eccitato, pensando che un suo rifiuto mi avrebbe annientato. Poi gli ho scritto un’e-mail. Mi ha risposto dopo tre giorni. Era via ha detto. Tre giorni di contorcimento di budella aspettando una sua risposta. La mattina che l’ho trovata nella mailbox a momenti mi prendeva un’infarto. Prima di leggerla ho tracannato un bicchiere di rum. Tremavo come una foglia.
Mi diceva che la mia foto gli era piaciuta, che ero un bel ragazzo e che era contento che gli avessi scritto. Mi diceva pure che si poteva anche combinare un’incontro, ma che voleva prima parlare con me.
É cominciata così, con un indirizzo di chat. Abbiamo avuto lunghe conversazioni nelle quali mi sono a poco a poco svelato. Gli ho detto che avevo 23 anni, che non ero sicuro di ciò che volevo, che ero confuso, che lui mi era piaciuto perché aveva l’aria di potersi imporre, eccetera, eccetera. Lui mi ha principalmente ascoltato. Ogni tanto faceva delle domande e io rispondevo. Avevo la sensazione di parlare con una persona che amava tenere tutto sotto controllo. Ero eccitato da morire e aspettavo solo di poter chattare con lui. Siamo andati avanti un mese prima che mi dicesse che voleva incontrarmi. Da lui, la sera seguente alle nove. Una roba improvvisa che mi ha gettato nel panico più totale.
Ho dovuto prendere un sonnifero perché non volevo arrivare all’appuntamento con le occhiaie che strisciavano per terra. Se non lo avessi fatto credo che non avrei chiuso occhio. Non mi facevo più una sega dalla nostra prima chiacchierata perché lui mi aveva proibito di farlo. Quindi il mio ventre era spesso battuto da violente tempeste di eccitazione che non trovavano sollievo. Lo so, che non mi poteva vedere, ma le sue parole avevano un tono autoritario e paternalistico che mi convinceva a fare come voleva lui. Quindi tremavo battendo sui tasti, avevo freddo nonostante fossimo a metà luglio e la mia salivazione era aumentata. In sostanza mi sentivo totalmente succube suo.
Adesso sono qui, in macchina e sto andando da Marisa. Per via della tensione faccio quasi fatica a guidare. E non vi dico respirare. Ho passato la giornata cercando di convincermi che non ci dovevo andare, che dovevo scrivere una mail dicendogli che non se ne faceva nulla e amici come prima. Ma l’idea di incontrarlo, pur terrorizzandomi, ha avuto la meglio. É bene che tu sia qui, mi dico, che affronti la situazione da uomo, dico, tanto se poi non ti va prendi e levi le tende.
Così, quando arrivo sotto casa sua ho la pressione sanguigna di uno che abita su Saturno.
Casa signorile fuori dal centro cittadino, una di quelle zone dove dopo le otto di sera non si incontra più nessuno. Tutti a casa a farsi una cultura guardando Panariello.
Mi fermo accanto alla fila di macchine posteggiate per parcheggiare in retromarcia.
Uno di quei suv, o come diavolo si chiamano quegli affari che comprano quelli che ce l’hanno piccolo, quei macchinoni orrendi, uno di quelli, mi passa accanto a novanta all’ora mentre sto per fare retromarcia. Due secondi dopo e mi riduceva il muso in polpette. Lo insulto mentalmente e parcheggio. Lo spavento mi ha fatto passare un po’ l’ansia, Scendo dall’auto e chiudo a chiave, poi mi volto a guardare la casa. Marisa è lì che mi aspetta. È probabile che sia eccitata quanto te, mi dico, quindi, smettila di tremare e fatti sotto.


Capitolo secondo. Una montagna di carne.

Quando mi trovo davanti al campanello le mie mani sono sudate e il mio corpo è scosso da un tremito che non riesco a fermare. Il cuore mi batte in petto come un a-solo di Ginger Baker e le gambe mi tengono in piedi solo perché non hanno nient’altro da fare. Attraversando la strada sembravo un ubriaco. Anziché fare una linea retta ho zigzagato di qui e di la per metterci più tempo. Alzo la mano per suonare il campanello ma poi la rimetto in tasca. Ho solo una giacchetta blu, una camicia bianca e un paio di pantaloni di cotone bordeaux. Mocassini senza calze e un fazzoletto nel taschino. Sono lindo e pulito, i denti lavati, le ascelle profumate, sbarbato e pettinato. Sembro proprio un ragazzino per bene, che cazzo d’altro vado cercando? Premi quel cazzo di campanello, mi dico.
Mi guardo intorno. Il n’y a personne, come dicono i francesi che hanno sempre la parola giusta. Mi volto di nuovo verso il campanello. Lo guardo come se dovesse parlarmi, ma lui non mi dice niente. Muto.
Sollevo di nuovo la mano e lo premo. É fatta, questa volta è fatta. Potrei voltarmi e darmela a gambe, invece rimango li ad aspettare. Due, tre secondi poi la serratura scatta e una voce dal citofono mi dice terzo piano.
Spingo il battente e entro nell’androne. Cammino lentamente, respirando a fondo. Devo calmarmi perché se arrivo di sopra in queste condizioni Marisa si farà quattro risate. Un respiro profondo, un’altro, un terzo. Quando arrivo alla scala quanto meno non mi tremano più le mani. C’è l’ascensore ma decido di salire a piedi. Avrò un po più di tempo per calmare il mio animo di pusillanime. La scala è a spirale, elegante, di marmo bianco, con una ringhiera di ferro arzigogolato e un mancorrente di legno chiaro.
Un gradino, due gradini, tre gradini. Salgo come Pollicino forte del fatto che la paura fa novanta. Purtroppo, come tutte le belle cose, anche i gradini finiscono e mi ritrovo sul pianerottolo del terzo piano. Ci sono due porte, una di rimpetto all’altra. Quella alla mia sinistra è uno studio di avvocati con quattrocentocinquanta nomi sulla targhetta. Ne deduco che per Marisa devo bussare alla mia destra. Mi avvicino al battente. Pochi passi mi dividono dal mio destino. Se mi voltassi per scapicollarmi giù dalle scale potrei sfuggire a quello che cerco da mesi. Viceversa, un breve incontro tra le mie nocche e il legno della porta mi introdurranno in un affascinante quando sconosciuto universo. Controllo che il mio coltellino Laguiole sia nella mia tasca, fedele servitore come sempre. Non me ne separo mai, può sempre tornare utile, anche se la lama non supera le quattro dita.
Busso leggermente.
Passano alcuni secondi prima che un ciabattio in avvicinamento risuoni sul pavimento. Uno scatto secco e la porta si apre quel tanto da lasciarmi entrare.
Entro e lui la chiude alle mie spalle. Siamo in un ingresso sobriamente arredato. Un’attaccapanni Tonet, un cassettoncino con su un telefono a tastiera e alcuni oggetti quotidiani, che so, corrispondenza, un mazzo di chiavi di casa, le chiavi di una Lancia, una foto che ritrae il mio ospite con una signora elegante, ma cosa diavolo ve ne frega, le solite cose che ci sono a casa di tutti.
Alle pareti un paio di quadri mediocri e una fotografia incorniciata di Helmut Newton che ritrae una donna inguainata in vinile che fuma una sigaretta seduta sul letto. Se è autentica significa che il tipo qui, il padrone di casa, è uno danaroso.
Una lampada posata sul piccolo cassettone illumina l’ingresso di una luce fioca.
Mi volto verso di lui.
Santo cielo ragazzi, è grande Marisa. Sarà quattro dita più alto di me e nemmeno porta i tacchi o quelle zeppe che aveva nelle sue fotografie. Non mi ero reso conto che potesse essere così grande, così più grande di me, così tanto più grande di me. Io sono robusto ma sottile, questo è grande e grosso e alto e spesso. Mi agito. Se questo decidesse di farmi a fettine con un coltello da cucina, ficcarmi a pezzi nel freezer e servirmi brasato ai suoi parenti, non avrei molte possibilità di difendermi. Ma lui non lo vuole fare, perché mai dovrebbe farlo? Nossignore che non lo vuole fare. Mi spremo per trovare un modo di uscire da quella casa, per tornare alla mia macchinetta e filare via a tutta birra.
Così dico: «Bene, ci incontriamo di persona.»
E lui: «Si, ci incontriamo. Sei carino, è un po di tempo che volevo farti venire qui ma avevo altri impegni.»
La sua voce è profonda, senz’alcun che di femminile per intenderci, ma scorrevole e morbida, la voce di uno che sa quello che vuole e al quale piace decidere.
Ha indosso una camicia di rayon nero lucida, aperta sul collo e con le maniche arrotolate a metà dell’avambraccio. É un po stretta alle spalle e evidenzia i suoi pettorali e le punte dei capezzoli. É un po grosso ma non ha pancia. Sotto una leggera pinguedine dev’essere muscoloso. La camicia la porta sopra i pantaloni lucidi e neri di una tuta di acetato, leggermente scampanati, che si adagiano sui piedi nudi calzati da un paio di infradito nere. I piedi sono grandi ma affusolati e ben curati, insolito per uno di quella stazza. Porta i capelli corvini vagamente spettinati, appena striati di grigio qui e là, ma non sono ancora acconciati come nelle sue foto e non è truccato per niente. Nonostante sia rasato alla perfezione una leggera ombra grigia vela il mento e la pelle sopra al labbro superiore. Penso che tra una mezzora magari starò li a baciarlo e subito ricomincia il batticuore. Anche la voglia di filarmela ri fa risentire.
Tanto per fare gli dico: «Non sembravi così grande sulle fotografie. Scusami» aggiungo, «sono un po’ imbarazzato, dico delle sciocchezze.»
«Dammi del lei» mi dice lui con un lieve sorriso, «e chiamami Marisa. Non ti piaccio di persona, allora?» Mi chiede. Ha qualcosa del gay, il modo di fare, l’intonazione della voce, il modo di muovere le mani. Sono spaventato e questo già lo sapete, ma anche eccitato. Sono eccitato perché vorrei levare le tende ma il suo magnetismo me lo impedisce.
Così dico: «No, sei attr.... Lei è molto attraente, avevo una voglia pazzesca di incontrarla. Solo, non pensavo che... voglio dire, guardando le foto...»
«Sei spaventato?» mi chiede incrociando le braccia. Il rayon della camicia si tende e le pieghe brillano alla luce fioca della lampada.
E io: «No, non sono spaventato» mento. «Cioè, forse un poco. Sono molto teso, è il mio primo incontro di questo tipo e mi sto chiedendo se non farei meglio ad andare.»
Mi viene vicino e mi prende delicatamente per un braccio. Aspiro il suo profumo mentre mi guida verso il salotto.
«Non devi essere spaventato» mi dice, «perché te ne puoi andare quando vuoi. Quella è la porta, non ho nessuna intenzione di fermarti. Ma se rimani» aggiunge, «allora farai quello che dico io, d’accordo?»
Annuisco mentre la sua mano carezza dolcemente il mio bicipite.
«Va bene, lei è molto gentile.»
«Non sono gentile» ribatte con un sorriso, «mi piace essere ubbidito.»
Si fa precedere attraverso la porta e entriamo in salotto, Anche qui luci fioche, tende alle finestre e un confortevole salotto di alcantara grigio scuro. Il pavimento è su una moquette color ferro. Due divani e due larghe poltrone. Altri mobili più o meno in stile, altri quadri alle pareti. Un tavolino basso al centro del salotto è coperto di libri, giornali, fotografie incorniciate e altri oggetti che non starò qui ad elencarvi. Tutta roba costosa ad ogni modo, l’amico ama sperperare o nel suo porcellino di terracotta ne ha davvero tanti.
Mi fa sedere sul divano a tre posti e lui si accomoda in poltrona accavallando le gambe. Io mi siedo sul bordo del cuscino come suor Maria a cospetto del Diavolo, le gambe serrate, le chiappe strette e lo sguardo fisso sull’infradito che dondola appesa alle sue dita dei piedi. Tra le foto sul tavolo c’è di nuovo quella donna, quella che c’era in ingresso, quella con lui nella foto, dico, quella lì.
Vede che la guardo così dice: «É la mia ex moglie. il mio hobby non le piaceva, così se n’è andata.»
Annuisco e gli do modo di continuare. «É meglio così» commenta, «sono più libero e d’altra parte io sono sempre stato gay, l’ho sposata per convenienza. Succede.»
Metto le cose in chiaro, tanto vale. «Io non credo di essere gay» lo informo stando sempre seduto come suor Maria. «In realtà non credo di essere nulla, ho dei pensieri, delle fantasie.»
Lui mi sorride. Guardandomi riesce a malapena a nascondere il desiderio che prova. Un giovanotto quasi imberbe, liscio e seducente, non dev’essere proprio ciò che solitamente si trova nel piatto.
«La cosa importante» dice, «è che nelle tue fantasie ci sono io e adesso tu sei qui per realizzarle, no?»
Francamente sarei anche qui per realizzarle, ma in giro non vedo calze da donna, vestaglie di seta o sandali con i tacchi alti. Vedo un tizio seduto davanti a me, un uomo senz’ombra di dubbio, checca magari, ma sempre un uomo.
Così gli faccio: «Nelle foto era diverso. Io pensavo che avrei incontrato direttamente Marisa.»
«Adesso mi cambierò, ma mi piace che i miei amanti mi vedano così. Aumenta la soggezione che hanno di me e alimenta la loro incertezza. Non devi essere teso, ti piacerà molto stare con me. Ti farò fare delle cose molto eccitanti, ma sarà un processo graduale.»
La spiegazione è chiara e limpida ma io sono confuso. Intanto sono già nel suo salotto. Non posso lamentarmi, essere costretto è quello che volevo, adesso sono qui e non posso mica lamentarmi. Altrimenti la porta è quella e me ne posso andare con la coda tra le zampe. Non posso proprio lamentarmi.
Infatti lui mi dice: «Quindi devi prendere una decisione: puoi alzarti e andartene oppure rimanere e fare quello che ti dico.»
Ci guardiamo negli occhi. Che faccio? Mi alzo e scappo? Troppo facile, poi mi devo riattaccare a internet e ricominciare tutto da capo. E un’altra mistress o come si chiama, una di quelle con frusta e stivali, una così, a venti minuti di auto da casa dove la trovo? Penso a Silvia, a Manuela, a quell’altra che mi ha dato del finocchio. E che male c’è a essere un finocchio? Sempre meglio che un politico.
«Allora?» Chiede con tono morbido e avvolgente. «Cosa decidi?»
«Va bene, farò quello che vuole lei.»
«Allora comincia a spogliarti, ti voglio nudo.»
Deglutisco e lo guardo.
«Una cosa dev’essere chiara» mi fa. «Quando ti dico di fare qualcosa lo devi fare subito, altrimenti non va bene. Non devi mai farmi aspettare.»
Mi alzo, mi sfilo la giacca e comincio lentamente a spogliarmi, prima le scarpe, poi la camicia e infine i pantaloni. Faccio per sedermi ma lui mi dice: «Nudo.» E io mi levo anche le mutande.
Poi mi risiedo sull’orlo del cuscino imbarazzato come una donna musulmana nuda sulla piazza del mercato. Però comincia a essere eccitante, magari saltano fuori cose meno piacevoli ma intanto un brivido di eccitazione mi corre lungo la schiena. É il primo fottuto brivido di eccitazione autentico che provo dall’inizio di questa storia. E questo qui ancora non si è vestito da donna.
Lui mi indica un grosso mobile scuro.
«Nel primo cassetto c’è un rotolo di corda» dice. «Vai a prenderlo e portamelo qui.»
Siccome lo guardo perplesso, ingiunge: «Forza, muoviti.»
Mi alzo come una molla e vado ad aprire il cassetto che mi ha detto. Ne tiro fuori un lungo rotolo di corda bianca. La mia eccitazione si raffredda un pelo.
Comunque ubbidisco e glielo porto. Lui si alza e mi dice: «Voltati.»
Ehi frena, penso, che cazzo di storia è questa? Che diavolo ci vuole fare con quello spago? Ma mentre penso, intanto, giro su me stesso dandogli le spalle. Prima di perderlo di vista penso che senza le mie scarpe sono ancora più basso. Questo tipo mi sovrasta.
Lo sento in piedi dietro di me. Lui mi ha detto di voltarmi e io l’ho fatto, più semplice di così. Ma la cosa assurda è che non avevo voglia di farlo. La cosa assurda è che ho voglia di mettermi la mia giacchetta, raccogliere i miei stracci e darmela a gambe. Invece rimango immobile, ascoltando il mio cuore che batte come un tamburo sotto la pelle nuda del petto.
Sento le sue mani sulle spalle. Mi accarezza attirandomi contro di sé prima sulle braccia, poi le sue mani grandi scivolano sul mio petto, sono vogliose, mi si muovono sull’epidermide piene di desiderio. I tessuti lucidi di cui è vestito scivolano piano contro la mia schiena. Faccio fatica a respirare, tanto sono teso ed eccitato.
«Sei bellissimo…» mi sussurra all’orecchio. Mi bacia sul collo facendomi sentire la lingua. Per farlo deve chinarsi e questo mi fa sentire ancora più suo.
«Ti piace?» chiede facendomi scorrere le labbra lungo il collo.
Deglutisco chiudendo gli occhi e dico: «Sì.»
Adesso le sue mani sono sulle mie braccia nude e lascio che le porti dietro la mia schiena. Si tratta di secondi, amico mio, mi dico, questo ti sta legando i polsi dietro alla schiena e fra meno di un istante sarai in suo totale potere, quindi, dico, quindi, se devi interrompere lo spettacolo sarà meglio che ti dai una mossa perché è solo una fottuta questione di secondi. Robe che in genere passano in fretta.
Sento le corde stringere sui polsi, prima più blandamente poi si tirano e stringono per bene, ormai è fatta, sono roba sua. Questa sera non vado più da nessuna parte. Next stop il letto di questo qui, ve lo dico io.
Allora gli dico: «Perché mi ha legato?»
«Perché mi piace farlo, amore» dice. «Hai lasciato che ti legassi le mani. Perché non me lo hai impedito?»
«Volevo che lei lo facesse» ammetto con un filo di voce. «Volevo sentirmi inerme.»
Ho il fiato sempre più corto, mi sento quasi svenire. Lui lo sa, lo capisce, è uno navigato, lui, sa come vanno queste cose. Mi eccita da morire sentirlo dietro di me, sentire il suo profumo.
Mi prende per le spalle da dietro e mi tira di nuovo verso di sé, sento il rayon della camicia contro la pelle. In che cazzo di roba mi sono ficcato? Un uomo di novantacinque chili mi sta abbracciando dopo avermi legato. Devo essere impazzito.
Si china su di me e riprende a baciarmi sul collo. D’istinto cerco di sottrarmi ma lui mi trattiene e le sue labbra continuano a scivolare sulla mia pelle coprendola di piccoli baci leggeri. Sono percorso da brividi gelati e da sensazioni che non riesco a decifrare.
Allora lui mi fa: «Lasciati andare, è quello che vuoi, essere mio e farmi godere.» Mi bacia ancora, prima di continuare, sul collo e sulle spalle. «Ho voglia di scoparti da quando abbiamo cominciato a chattare e adesso lo farò. Ormai non c’è più nulla che tu possa fare per impedirmelo.»
Chiudo gli occhi e lascio che le sue labbra scorrano sulla mia pelle. Provo piacere? Un uomo mi sta baciando e io provo piacere. Provo piacere nel non potergli sfuggire, questa è la verità, anche se quella stronza che mi dava del finocchio perché guardavo un paio di foto probabilmente aveva ragione.
Smette di baciarmi e mi prende per un braccio. Ci dirigiamo verso una porta che da su un corridoio. «Vieni» mi dice, «andiamo di la che comincio a cambiarmi. Voglio che tu mi veda e magari intanto facciamo qualcosina.»
Qualcosina. Penso di essere pentito, pentito di essere venuto qui, pentito di esserci rimasto e ancora più pentito di essermi lasciato legare. Già questo è più forte di me, per giunta ho i polsi stretti dalle corde, se gli gira storta può fare di me quello che vuole.
Quindi gli dico: «Preferirei aspettarla qui, sarà una sorpresa.»
Ed è uno sbaglio perché lui si ferma, mi gira verso di se e mi fa: «Senti tesoro, adesso sei qui, sei legato e fai quello che ti dico io.» Non è aggressivo, è quasi dolce, come se conoscesse la situazione a menadito. «Ti posso costringere con la forza se vuoi» continua mettendomi una mano sul dietro del collo. «Nessuno sa che sei qui e se ti imbavaglio nessuno ti potrà sentire. Prima o poi farai come voglio io. Ti ho dato la possibilità di andare e sei rimasto. Tanto vale che la pianti di discutere e collabori.»
Si china su di me e mi da un leggero bacio sulla bocca.
Sono pietrificato, altro che rilassarsi. Sento le corde stringere sui miei polsi come una pianta carnivora che vi affondi i denti. Tanto per fare, provo a muovere le mani. Roba genuina, la legatura, mica ha fatto per finta.
Attraversiamo il corridoio in ombra e entriamo in camera da letto. É una grande camera da letto, una camera da letto con la “C” maiuscola. Il letto è grande come una piazza d’armi, moderno, ma con una testiera in ferro battuto dipinto, del seicento o giù di lì. Sopra al copriletto è gettato un morbido e sensuale lenzuolo di raso nero. In fondo alla stanza ai due lati dell’ampia finestra c’è un’intera parete di armadi.
Alla sinistra della porta vedo un grande comò con sopra appeso uno specchio antico che riflette il letto sul quale fra poco lui si farà una grande scopata con il sottoscritto. Ma il suo regno si trova dall’altra parte del talamo e consiste in un immenso tavolo da trucco con specchi e lucine, coperto da centinaia di boccette e flaconcini, pennelli, pennellini, spazzole, pettini, rossetti, creme e scatole di fazzoletti di carta e ombretti e ciprie e chi più ne ha ne metta come diceva Messalina ai trecento di Leonida. Ci siamo, penso, te la sei cercata e alla fine eccola qui.


Capitolo terzo. E se questo non è un uomo?

Anche qui in camera da letto la moquette si spreca. Cosa non si spreca in questa casa è la luce. A Marisa piace la penombra, luci soffuse, angoli scuri, quelle robe lì, quelle robe che alimentano il mistero, che lo alimentano per bene. Penombra ovunque tranne che sulla toeletta da trucco dove attorno allo specchio ci sono due milioni e mezzo di lampadine. Se ti ci metti davanti ti sembra di essere alle primarie nel New Hampshire.
Entriamo e mi spinge seduto sul fondo del letto. Si china su di me e mi bacia sulla bocca. Ci dà dentro, questa volta, mi mordicchia le labbra, me le succhia con le sue e per finire mi ci spinge dentro la lingua. La differenza dal bacio di una donna mi fa quasi sobbalzare, la sua bocca è meno morbida, più vorace e possessiva. Pietrificato, lo lascio fare senza protestare, ma mi astengo dal partecipare.
Dopo aver scrutato per bene con la lingua la mia cavità orale, si stacca da me e ne passa la punta sul labbro inferiore.
«Quando ti bacio voglio che partecipi» dice, «voglio sentire che baciarmi è la cosa che ti piace fare di più al mondo, hai capito?»
Annuisco.
«Stai lì seduto» conclude carezzandomi una guancia. Ha l’aria che piaccio di più io a lui che lui a me. Tant’è, siamo qui e stiamo a vedere cosa succede. A contatto con le mie chiappe il raso nero mi provoca una piacevole sensazione. Una sensazione lucida, come di qualcosa di molto liscio e morbido che ti scorre sulla pelle, una cosa così. In effetti è molto liscio.
Comincia a spogliarsi e si leva prima la camicia rimanendo a torso nudo. Sulle braccia non è depilato e questa è un’altra cosa che mi mette in agitazione. Si sfila i pantaloni, li piega per bene e li appoggia su una sedia Thonet che trova lì da quelle parti. Mi guarda spesso mentre si spoglia. Già pregusta il suo piattino. Si sfila le mutande e rimane nudo davanti a me, l’uccello grosso e molle che gli pende tra le gambe. Grosso è grosso, anche da piccolo, voglio dire anche da molle, cioè quando non l’ha duro, così, voglio dire, e quindi mi immagino quando si eccita che cosa salta fuori. Vorrei alzarmi e levare le tende ma a questo punto ho anche paura di farlo incazzare e così me ne sto lì buono a guardarlo fra le gambe senza fiatare.
Marisa, la grande Marisa va a sedersi su uno sgabello imbottito davanti alla toeleta. La luce lo investe, lo avvolge, lo schiarisce, lo esalta, lo trasforma in un essere mitologico. Prende una spazzola e si tira per bene indietro i capelli, li liscia per bene e poi li ferma al loro posto con un cerchietto di plastica nera. Prende vari vasetti di creme e flaconi e altre boccette e se li mette davanti. Con una maestria evidentemente dettata dall’abitudine comincia a mettere sul viso il fondotinta. Ora lo posso vedere di profilo, guardo attentamente il naso sottile e pronunciato, lievemente curvo, le labbra schiuse nella concentrazione di ciò che sta facendo. Lo guardo di profilo e mi chiedo cosa fa nella vita uno che poi si veste da donna e fa la mistress o quello che è, quelle li che ti mettono in ginocchio e poi te lo ficcano in bocca, quelle. Potrebbe essere un dirigente d’azienda o un commerciante, magari ha un negozio di abbigliamento per signora, gli verrebbe anche utile. Oppure potrebbe essere un’avvocato dello studio di fronte, uno dei seicento che ci sono scritti sulla targhetta, uno di quelli li, un principe del foro, se mi passate il gioco di parole.
Lo vedo lentamente trasformarsi davanti a me. Il fondotinta ha reso la sua faccia più liscia, ha tolto un po’ di imperfezioni e ha notevolmente mascherato l’ombra della barba. Scende lungo il collo dove il colore leggermente più chiaro sfuma in quello vero della pelle. Con un largo e morbido pennello lo sfuma ancora leggermente e poi si incipria il naso e le guance. Posa gli strumenti e si volta verso di me. É diverso, adesso, così nudo, la pelle del viso liscia, il cerchietto sui capelli. Non è più l’uomo di prima, è qualcosa d’altro. Anche la sua bocca, senza rossetto e così leggermente schiusa è un’altra bocca.
Un brivido di freddo mi corre lungo la schiena quando mi alzo e vado verso di lui. Un poco sorpreso, per via che la mia iniziativa non è cosa contemplata dal protocollo, si volta leggermente verso di me. Mi chino e lo bacio sulla bocca. La punta della sua lingua mi guizza tra le labbra ma è un attimo. Si volta verso lo specchio e prende una scatoletta di ombretti colorati. Io rimango li in piedi, leggermente chinato, il sapore della sua lingua ancora sulle labbra.
Così lui mi dice: «Torna a sederti. Ti devi alzare solo quando te lo dico io.»
Non è che ci rimango male, solo che d’improvviso mi era saltato in testa che avevo voglia di baciarlo, di sentirmi la sua lingua in bocca, volevo che mi toccasse, mica un’affare di stato, solo quello.
Mi volto per tornare a sedermi ma lui si gira di nuovo verso di me.
«Ho cambiato idea» mi fa. «Mettiti in ginocchio lì per terra e cerca di stare dritto. Così forse impari a rimanere al tuo posto.»
Lo guardo sorpreso. Cioè, mica tanto sorpreso perché quello che sta accadendo non è molto lontano dalle fantasie che ho avuto in questi mesi. Mi rendo conto che non è uno scherzo o un gioco o una cosa combinata. Questo ha deciso che io da lì non mi muovo e che devo fare quello che vuole lui. Non credo che abbia intenzione di lasciarmi andare prima che la cosa sia finita.
«Muoviti» insiste indicando il pavimento. «Mettiti in ginocchio.»
Mi abbasso lentamente e appoggio per terra prima un ginocchio e poi l’altro, piano, guardandolo negli occhi. Grazie al cielo c’è la moquette.
«Pensi che tutto questo sia un gioco, eh?» Dice tornando a rimirarsi nello specchio. «Be', ti renderai conto che non lo è.» Prende a darsi un ombretto scuro sulle palpebre, un grigio scuro o un color cenere, una cosa così. Poi mi dice ancora: «Noi non siamo qui perché tu mi hai chiesto di incontrarti, non siamo qui per giocare alla padrona e allo schiavo per fare piacere a te.»
Passa all’altro occhio e continua: «Tu sei qui perché la foto che mi hai mandato mi ha fatto tirare l’uccello e perché hai vent’anni e ho pensato che, tanto per cambiare, non mi spiacerebbe farmi succhiare l’uccello da un ragazzino anziché dai soliti vecchi bavosi che girano qui intorno.»
Si volta a guardarmi prima di posare la scatoletta dell’ombretto sul piano della toeletta. Poi torna a rimirarsi attentamente allo specchio.
La lezione non è ancora finita, così mi dice: «Con te ci faccio tutto quello che mi pare, faccio tutto quello che piace a me. Non mi interessano le tue fantasie, erano soltanto chiacchiere da chat. Devi soltanto ubbidire, altrimenti sono dolori.»
Passa alle ciglia finte e mentre se le applica se non altro sta zitto. Ci mette un bel pezzo, ogni tanto si avvicina allo specchio e controlla che sia un lavoro ben fatto. Poi ci da di bistro e di eyeliner e si mette anche a posto le sopracciglia. Io me ne sto li in ginocchio come un seminarista e penso che forse andare a vedere il suo gioco potrebbe anche essere interessante. Non c’è rosa senza spina a questo mondo e chi non risica non rosica direi, tanto per usare due meravigliosi luoghi comuni.
Il lavoro che Marisa sta facendo sulla sua faccia larga e senza mento è degno di nota, è una roba da Modigliani, quel pittore là, quello che tirava il collo alle sue modelle, quello la, è roba fina quella che sta facendo.
Sono colpito dalla sua perizia, dalla mano sicura e dalla velocità con cui ottiene l’effetto desiderato. Non avevo mai visto un uomo truccarsi fino a diventare una donna o quello che ne viene fuori, un travestito o un transessuale, non so nemmeno che differenza ci sia. C’è sicuramente una differenza ma io non la so.
Io non credo di saper far nulla così bene, nemmeno trovarmi il partner giusto su una cazzo di chat line.
Adesso prende un tubetto di rossetto, quel rossetto che si da su con il pennellino, quel rossetto lì e comincia ad applicare un colore scuro sulle labbra, una via di mezzo tra rosso e marrone, nemmeno troppo scuro, un rosso lacca cinese, una cosa così.
Ed è proprio quello che trasforma la sua faccia in una cosa diversa da quella che era prima, trasforma una faccia da uomo in una faccia tipo da donna. Tipo.
Lo applica con cura maniacale. Prima traccia i contorni e poi li riempie di quella materia lucida e colorata. É affascinante, ho sempre invidiato chi sa fare particolarmente bene una cosa. Io so fare molto bene l’omelette confiture, ma non so se sia la stessa cosa.
Comincio a sentire l’eccitazione che si diffonde nel mio corpo. Così truccato, nudo, intento nella trasformazione, mi attrae, mi eccita. Lui controlla ogni particolare allo specchio, muovendo la faccia di qui e di la, di su e di giù, allontanandosi e avvicinandosi allo specchio. É sexy da vendere.
Così gli dico: «La trovo molto attraente, molto di più che in fotografia.» Glielo dico stando in ginocchio sul pavimento, come vuole lui, senza muovermi, lì inginocchiato sulla moquette.
Invece di rispondermi si china, apre un cassetto della toeletta ne tira fuori un aggeggio e lo lancia sul letto proprio accanto a me, lì sul lenzuolo di raso. É una pallina di gomma rossa, tipo un po’ più grossa di quella del calciobalilla e un po’ meno di una pallina da tennis, una via di mezzo tra le due, e ha due cinghietti attaccati, di pelle nera, uno da una parte e uno dall’altra. Uno dei due ha una fibbia e l’altro ha i buchini. Come un lungo cinghietto da orologio.
Poi mi dice: «Se parli ancora senza essere interpellato, ti imbavaglio. Devi stare zitto e rispondere solo alle mie domande. É chiaro?»
Mi sembra esagerato ma tant’è, faccio di si con la testa. Intanto le corde che mi legano i polsi cominciano a darmi fastidio. Sono costretto a muovere le mani perché non mi vengano le formiche alle dita. Mi ha proprio legato sul serio quello lì, mica per finta. Ho un po di batticuore.
Lui si alza e con il pirillo che ciondola tra le gambe viene verso di me. «Non ti muovere» dice passandomi accanto, «e stai zitto.»
Esce dalla stanza. Da qualche altra parte della casa deve aver alzato la cornetta del telefono. C’è una presa anche in camera da letto perché sento scattare i relais quando compone il numero.
Silenzio, poi lo sento parlottare, chiacchierare, ma non riesco a capire una sola parola di quello che dice. Sono teso, anche se sono inginocchiato per terra sono teso. Tra l’altro comincio anche ad essere stanco.
Lo sento che riaggancia il telefono. Poi un tintinnio di vetri, bicchieri direi, e poi bottiglie, si, anche bottiglie. E poi un classico, una mano che prende una manciata di cubetti di ghiaccio da una glacette e li butta in un bicchiere.
Quando rientra nella stanza ha in mano un tumbler con dentro un cocktail di qualche genere dal colore ambrato, ghiaccio e una scorza di limone. Mi viene l’acquolina in bocca. Me ne farei un paio anche io, un paio di Manhattan o di Martini Dry o di qualsiasi altra cosa che abbia più gradi della mia saliva.
Si risiede davanti allo specchio, beve un sorso di quel nettare e ne posa il bicchiere sul piano della toeletta tra creme e profumi. Prende un grosso pennello morbido e lo passa in una scatoletta piatta poi si spolvera leggermente le guance sugli zigomi. Un tocco di rosso, appena appena, per ravvivare e illuminare il viso. Poi si guarda allo specchio, poi controlla che le ciglia finte aderiscano bene, poi sembra soddisfatto, poi si alza e si avvicina all’armadio. Fruga in un cassetto e ne tira fuori alcuni capi di biancheria intima che appoggia sul letto. Calze di nylon nere, delle mutandine di seta nere pure quelle, un reggicalze dello stesso tessuto delle mutandine, idem per il reggiseno. E poi ci sono quelle due robe mollicce, rosa pallido, opalescenti, che sembrano due tette asportate chirurgicamente da Jack lo Squartatore.
Viene a sedersi sulla sponda del letto e comincia a infilarsi le calze. Sono di quelle che usava mia nonna, con il bordo superiore alto e più scuro, una fascia più alta e una più bassa e con la riga che corre dietro. Se le tira per bene sulle gambe carezzandole con le mani e il mio pisello ha un piccolo moto di eccitazione. Si rialza in piedi e mentre si cinge in vita il reggicalze e ne appende le estremità ai gancetti penso che mi piacerebbe tanto baciarlo sull’interno delle cosce, proprio li, in quella zona dove le calze finiscono e comincia la pelle. Glielo vorrei dire ma poi lascio perdere per non farlo incazzare. Dato che si incazza per niente lascio proprio perdere e mi tengo tutto per me.
Intanto lui si rimira nello specchio, di davanti, di dietro, di fianco, fa le mossette, si tocca l’uccello, si piace. Prende le mutandine dal letto e se le infila mettendo bene a posto il suo pisello all’interno del serico tessuto. Spingendo sulla seta il suo sesso forma una protuberanza lucida dalla quale non riesco a levare gli occhi. Lui se ne accorge perché con tre passi mi arriva davanti.
«Lo vuoi baciare?» chiede mettendomi il pube davanti al naso. «Dai, bacialo ma solo con le labbra.»
Mi sporgo leggermente avanti e chiudendo gli occhi appoggio le labbra schiuse su quella protuberanza erotica. É lucida e morbida e scorre liscia sotto le mie labbra. La bacio due o tre volte e la sento irrigidirsi piano piano sotto alla seta. Poi ci appoggio su una guancia e la lascio scorrere lentamente su e giù, su e giù. La seta liscia e morbida mi massaggia la guancia, la scalda. È una sensazione molto erotica.
Poi lui si allontana e prende il reggiseno dal letto. Se lo infila e all’interno delle coppe mette quelle due protesi, o come diavolo si chiamano quelle due cose molli opalescenti.
Torna davanti allo specchio a rimirarsi. Questa volta si siede e si leva il cerchietto che trattiene i capelli. Prende una spazzola e si acconcia con molta attenzione, un ciuffo di qui e uno di la, una cioccca sulle guance e un paio sulla fronte. Adesso sono molto eccitato. Non pensavo che guardare un uomo che si traveste fosse così erotico, soprattutto l’uomo che dopo essersi messo in ghingheri mi darà una bella ripassata.
Anche il mio respiro è accelerato e il cuore mi batte nel petto come un tamburo di guerra. Non sento praticamente più le ginocchia e i polsi mi fanno male. Lui intanto si rifila un’altro sorso di quella roba che ha lì nel bicchiere. Darei cinquecento euro per farmene un goccio anch’io di quella roba, me la berrei a garganella, me la berrei direttamente dalla bottiglia.
Si alza e dall’armadio prende un paio di sandali e un vestito di pelle nera o è una gonna o qualcosa del genere. Si siede sullo sgabello e si infila quei sandali, di pelle nera anche quelli. Mi piacciono, quei sandali, hanno una leggera zeppa sotto alla suola, non più di due centimetri e un tacco piuttosto alto.
Il sandalo in se è formato da due fascette di pelle che si incrociano subito sopra le dita e altre due che si incrociano sul collo del piede girando attorno alla caviglia. Finisce di allacciarli e si alza in piedi. Adesso è addirittura imponente. Così abbigliato, truccato e pettinato è la figura più erotica che abbia mai visto in vita mia. Deglutisco a fatica. Lui prende il vestito di pelle e se lo infila stando in piedi davanti allo specchio. Si rivela essere un miniabito di pelle nera, molto leggero, che lascia scoperte completamente le spalle e le braccia. Da sopra al seno partono due bretelle che passando sulle spalle si incrociano a metà della schiena. É lucido, morbido e pieno di pieghe brillanti. La gonna arriva a malapena a coprire le chiappe e lascia intravvedere sia le mutandine di seta che, largamente, il sopra delle calze e i nastri del reggicalze che le tengono su.
Sono assolutamente senza fiato. Per l’emozione mi fischiano le orecchie e mi si annebbia la vista.
Finalmente viene verso di me. «Alzati, andiamo di la» dice prendendomi per un braccio.
Mi tiro su ma le gambe fanno momentaneamente sciopero e sono costretto ad appoggiarmi a lui. Mille sensazioni invadono i miei sensi eccitati, la pelle morbida e lucida contro il mio corpo il suo profumo, la presa delle sue dita sul mio braccio. Chiudo gli occhi e mi lascio condurre. Torniamo in salotto e mi fa sedere sul divano. Lui si accomoda in poltrona davanti a me e accavalla le gambe. É uno spettacolo grandioso dal quale non riesco a levare lo sguardo. Lui se ne accorge e mi provoca carezzandosi lentamente le gambe. Mi sento meschino e avvilito, nudo come un verme e con le mani legate dietro la schiena. Sto seduto in punta al cuscino con il mio membro semi eretto che riposa tra le mie cosce strette. Lui mi guarda insistentemente, mi trapassa come un raggio laser e io fatico a reggere il suo sguardo. Rimaniamo così qualche minuto mentre la mia tensione sale e il cuore mi pulsa nelle orecchie. Anche lui è eccitato, si vede da quella luce che ha negli occhi bistrati, ma è tranquillo, ha tutto sotto controllo, fa queste cose da un sacco di tempo. Per me, invece è la prima volta. E lui lo sa bene. E questo lo manda letteralmente in visibilio.
Infatti mi dice: «Vieni qui, in piedi vicino a me.»
Mi alzo lentamente, molto lentamente, come se avessi quattro tonnellate appese al sedere e altrettanto lentamente cammino verso di lui. Mi vuole? Che mi aspetti.
In realtà in pochi secondi sono accanto a lui e la sua mano è già attorcigliata attorno al mio pisello. Lo cincischia con le dita, distrattamente, per qualche secondo, poi infila la mano tra le mie cosce e mi accarezza li. Mi fa morire, brividi di piacere mi corrono sulla schiena come levrieri da corsa che inseguono un coniglio di pezza. Ansimo chiudendo gli occhi e lascio che le sue dita si spingano su, contro i miei testicoli, che si insinuino in profondità, che carezzino le parti più sensibili della mia pelle nascosta. Il mio uccello è duro e teso, arcuato contro il mio addome piatto. Mi fa quasi male da tanto che tira. Mi fa girare di spalle e tocca le corde che stringono i polsi, poi mi passa le mani sulle chiappe e le riinfila tra le mie cosce e di nuovo mi tocca lì. Lentamente mi fa voltare di nuovo verso di lui, la mano sempre fra le mie gambe, una mano calda, insinuante, carezzevole. Vorrei che mi masturbasse, che mi facesse venire.
Invece lui leva la sua mano da lì e mi dice: «Mettiti in ginocchio e baciami i piedi.»
Riapro gli occhi e lo guardo disperato.
Con la punta del piede mi carezza una coscia. «Forza» mi fa, «in ginocchio.»
Mi metto in ginocchio e lui mi porge il piede calzato dal sandalo e velato dalla calza. Appoggio le labbra sulle sue dita. Un misto di cuoio e profumo colpisce le mie narici.
Comincio a baciarlo sulle dita, tra le dita, intorno alle dita, baci sempre più lunghi e profondi. Sento le sue dita penetrare tra le labbra mentre lui le muove per facilitarmi il compito. Alzo lo sguardo mentre la mia lingua cerca di insinuarsi tra un dito e l’altro spingendo sulla calza. Si è sollevato la gonna e si sta carezzando piano l’uccello, enorme tra le sue dita.
«Continua» mi dice, «usa la lingua tesoro.»
E io lo faccio, pur nella mia incapacità dovuta alla mancanza, come dire, di esercizio mi sforzo di farlo godere. La mia bocca è incollata al suo piede, lo succhio e lo lecco, sento il nylon della calza scorrere sotto le labbra, contro la lingua. Mi insinuo tra le sue dita, le prendo in bocca e lui è sempre più eccitato, il suo uccellaccio è sempre più mostruosamente grande tra le sue dita. E lo muove per bene il suo piede, lo muove bene nella mia bocca, contro le mie labbra, si fa succhiare le parti più sensibili e se la gode come un matto. La mia lingua scivola tra piede e suola, si insinua, stuzzica. Vorrei avere le mani libere per potergli toccare le gambe, per carezzargliele, per risalire piano verso il suo sesso gigante e poterlo prendere tra le dita. E invece me le devo tenere legate dietro alla schiena. E lui lo sa bene cosa mi passa per la testa, lo sa bene che vorrei essere libero, la sa lunga su queste cose qui, lui, ed è per questo che mi ha legato così, perché la mia frustrazione lo eccita da morire. Poi, senza avvertirmi, nemmeno due righe al fermoposta, sfila il suo piede dalla mia bocca e si tira a sedere dritto, in punta alla poltrona e allarga le gambe. Mi prende per un braccio e mi attira verso di se. Lo assecondo camminando sulle ginocchia alla maniera di Toulouse Lautrec. Mi trovo faccia a faccia con lui, la mia bocca a pochi centimetri dalla sua. Quella sua bocca scura, quasi femminile, lucida di rossetto. Ne immagino il sapore, ne sogno la morbidezza, ne desidero il contatto.
Invece lui mi dice: «Adesso fammi un bel pompino. Chinati e prendimelo in bocca.»
Così dicendo mi posa una mano sulla nuca e spinge la mia testa verso il suo uccello. Cerco di resistere ma non c’è storia e il suo glande si appoggia tra le mie labbra. Una piccola resistenza da parte mia e poi lui me lo spinge in bocca.
Sono sconvolto, l’ho immaginato per mesi, l’ho sognato, me lo sono visto da tutte le angolazioni, non ho praticamente pensato ad altro per gli ultimi sei mesi e adesso, in questo momento stesso, adesso che ne ho uno vero nella bocca, uno grande, duro, enorme, adesso che le mie labbra si stringono sulla sua asta possente, beh, adesso mi prende una leggera nausea. La colpa, la vergogna, la morale, mi piombano tutte sulla schiena nello stesso tempo con i loro stivaloni chiodati. Ha un sapore strano, acre, e anche la consistenza non mi torna, lo credevo più morbido, più, che so, più mottarello e invece è un sacrosanto palo della luce. Così resto lì, immobile, la bocca piena di carne, senza saper cosa fare, se devo succhiare, leccare o quant’altro. La mano di lui mi afferra per i capelli e mi scuote leggermente la testa.
«Dai puttanella» mi incita. «Lo sai come si fa un pompino o hai bisogno che ti faccia un disegno?»
Se non stessi soffocando arrossirei. Lui, sempre tenendomi per i capelli costringe la mia testa ad andare brevemente su e giù, e su e giù, e avanti, su e giù. E il suo uccello pulsante comincia a scorrere tra le mie labbra, umido della mia saliva, strusciando contro la mia lingua. In breve non ho più bisogno di accompagnamento e mi applico quasi con passione. Il respiro di Marisa aumenta d’intensità.
«E bravo» ansima, «così, così amore» dice, «continua, continua.»
É come andare in bicicletta, prima ti sembra di non poter fare a meno delle rotelle poi, un bel giorno, dai una pedalata e via e sei padrone del mezzo. E infatti lo succhio e lo ciuccio proprio bene, è contenta di me Marisa, geme di piacere che è un piacere e vado pure senza mani. Lo lecco, anche, lo avvolgo nella mia lingua, dentro e fuori dalla mia bocca. L’eccitazione cresce anche dentro di me, anche il mio uccello è teso e duro da farmi male, qualche secondo e parte per la luna, Vorrei che le sue mani mi accarezzassero, che mi facesse venire, che mi desse sollievo. Ma lui ha altro per la mente. Leva l’uccello dalla mia bocca, si alza in piedi e fa alzare anche me.
Mi trascina letteralmente in camera da letto. Tutto succede come in un brutto film porno, magari anche al rallentatore che fa tendenza. Raccoglie la pallina di gomma che aveva buttato sul lenzuolo e me la ficca tra le labbra legandomi il cinghietto dietro alla nuca. Ne risulta che la pallina mi tiene la bocca spalancata e che i miei suoni di protesta sembrano piuttosto della musica dodecafonica. Mi butta di pancia sul letto. Il cuore mi batte all’impazzata, fa badabim badabum tagadan, le orecchie mi pulsano e ho paura, mica una roba da tutti i giorni. Giro il capo e lo vedo prendere un boccetto trasparente con il quale si asperge l’uccello che sporge dalle mutandine di seta in piena erezione. Non essendo più tardo della media, capisco che è arrivata la mia ora e tento una fuga cercando di scendere dal letto. Ma lui mi riacchiappa. La stanza prende a girare attorno a me, vorticosamente, finché non sento di nuovo il raso del lenzuolo che struscia contro la mia pancia. E le sue mani sulle braccia che come morse mi tengono fermo.
È un attimo, qualcosa di nuovo succede là in basso. A momenti faccio un salto quando mi affonda la faccia tra le chiappe e comincia a leccarmi e succhiarmi lo scroto muovendoci piano la lingua contro. Lo fa bene, con una certa perizia, almeno immagino, perché sotto la pancia il palo sta raggiungendo dimensioni mai viste e le sensazioni che mi regala mi si ripercuotono come onde di calore nell’addome.
Smette proprio quando cominciavo a prenderci gusto e mi infila un cuscino sotto il ventre per sollevarmi le chiappe in posizione più ricettiva.
Potendo, quando si mette a mordicchiami ancora un poco la pelle dei testicoli mi metterei a urlare, invece il bavaglio soffoca tutto in un lamento prolungato. Mi divincolo ma già sento il suo glande farsi strada tra le mie chiappe. Si china su di me e mi soffia nell’orecchio:
«Se rimani così teso ti farà molto più male» mi sussurra all’orecchio, «quindi rilassati e lasciami fare.»
É meglio che gli dia ascolto, mi dico tra me. Che forse quando vado dal dentista gli dico io quale dente deve togliere? L’esperto è lui, facciamo come desidera.
Lo sento entrare e fa male. Che io sappia, negli ultimi vent’anni mai nulla di tanto grosso è entrato o uscito dalle mie chiappe. Spinge piano, un millimetro alla volta, carezzandomi i fianchi e spingendo contro il bacino sollevato, lentamente, guadagnando terreno. Un’avanzata inesorabile, una resa incondizionata, bandiera bianca.
Mugolo di dolore e la cosa lo eccita, arriva fino ad infilare la mano sotto la mia pancia per afferrarmi l’uccello e lo carezza con la punta delle dita. Ma finisce lì, l’orgasmo non me lo concede ancora. Pensa solo a se stesso, Marisa, e non appena ha introdotto a fondo il suo coso nel mio ventre comincia a muoversi lentamente avanti e indietro, gemendo e mugolando di piacere. Mi dice anche le parolacce, mi chiama troietta, puttanella, in un crescendo inarrestabile, sempre più veloce, sempre più frenetico. Le sue mani ormai stringono le mie chiappe mentre mi stantuffa come un treno.
Lo sento venire dentro di me, lunghe pulsazioni del suo uccello dentro la mia pancia, sussulti di piacere che si spengono lentamente come son venuti.
Come Artù con la spada nella roccia, sfila il suo coso dalle mie chiappe con un rumore acquoso e si alza in piedi. Mi afferra per un braccio e mi tira su dal letto. Armeggia dietro la mia nuca e mi leva il bavaglio. Sono ancora duro come un palo quando mi slega le mani. Lo guardo negli occhi massaggiandomi i polsi.
Poi lui mi dice: «Adesso vestiti e vattene» ordina. «In fretta perché aspetto una persona.»
Ci rimango male, mi sento ferito e umiliato e poi penso che questo è ciò che piace a lui, ferirmi e umiliarmi, è questo che lo eccita.
Mi accompagna in salotto. Io avrei solo voglia di farmi abbracciare, di farmi baciare, di sentire la sua bocca sulla mia, la sua lingua tra le labbra. E invece raccatto le mie mutande e le indosso coprendo il mio pirillo in erezione. Sento il suo seme che esce da là sotto e ne impregna il tessuto. Continuo a vestirmi e lui mi guarda. Si è seduto sul bracciolo della poltrona e mi fissa, senza sorridere. Mi tira da morire con quel vestito di pelle e quei sandali così sexy.
Indosso la giacca e sono pronto.
«Sono pronto» dico voltandomi verso di lui.
Si alza e mi prende sottobraccio accompagnandomi verso la porta. É immenso, potrei baciarlo sulla punta del mento sollevando leggermente il viso. Siamo arrivati, chiudo gli occhi e appoggio la testa sulla sua spalla nuda. Ho una voglia terribile di lui.
Sento scattare la porta e il battente si apre.
Allora mi dice: «Voglio che tu ti tenga libero tutto il prossimo fine settimana. Verrai qui da me sabato mattina e ti fermerai fino a domenica sera o lunedì mattina, devo ancora vedere. Ricordati, sabato alle 9 in punto devi essere qui. Un minuto di ritardo e puoi tornartene a casa.»
Annuisco ed esco sul pianerottolo, La porta si chiude alle mie spalle. Mi sento come uno di quei cani bastonati, quelli con la testa bassa e la coda tra le zampe, quelli. E ho anche un po di nausea scendendo le scale. E ho anche un po male al culo.
Arrivo nell’androne proprio mentre il portone si sta aprendo. Una donna entra e viene verso di me. Una donna alta, molto alta e un po goffa nel camminare. Indossa un impermeabile nero di nylon leggero, calze e sandali con il tacco alto. Ha una cascata di capelli biondi, con la frangia che le copre un’occhio.
Ci incrociamo sotto la luce e capisco che non è una donna, è un’altro amico di Marisa, quello che stava aspettando, quello che si divertirà al mio posto, quello che si prenderà ciò che non ho avuto io. Mi guarda di sfuggita e tira avanti.
É anche passatello questo qui, il travestito che incrocio nell’androne, non meno di cinquanta primavere, ci metterei la mano sul fuoco. E questa sera mi sento di manica larga.
Raggiungo il portone mentre il ticchettio dei suoi passi si spegne sulla scala. Spalanco il battente e esco in strada. Quel coglione con il suv o come cazzo si chiamano quelle specie di camion per minorati mentali, quelle robe li, quel coglione ha parcheggiato proprio davanti alla mia auto. Gli farei tutta la fiancata raspandola con una chiave, se fossi un teppista. Ma sono solo un po’ incazzato e non sono un teppista, così lascio perdere.
Salgo in macchina e siccome non c’è nessuno in giro, prima di partire mi faccio proprio una sega coi fiocchi, una di quelle a quattro mani, quelle lì. Quando ci vuole ci vuole. E mi pulisco tutto nella camicia.


Capitolo quarto. Servo di scena.

Una settimana nella quale aspetti solo che finisca, nella quale non riesci a fare nulla perché aspetti solo che il tempo passi, una settimana nella quale il tempo non passa mai perché non riuscendo a far nulla ogni minuto è lungo dieci anni, nella quale le notti sono periodi storici e il soffitto è li davanti ai tuoi occhi un’ora dopo l’altra. Una settimana nella quale ti fai milioni di domande, nella quale non riesci a darti nemmeno una risposta. Una settimana così è la cosa più dura che ti possa capitare. Una settimana così è quella che ho passato io dopo essere uscito da casa di Marisa. Dal momento stesso in cui ho messo piede in casa non ho visto altro che una scritta luminosa, laggiù, proprio vicino all’orizzonte, sfumata dalla distanza e dalla foschia. Una scritta che diceva “sabato mattina” e che si avvicinava lentamente, lentamente.
Ho provato a distrarmi, ho provato anche a lavorare, sono andato al cinema, ho sbevazzato, ho mangiato di malavoglia ma sempre, davanti a me, c’era lui, con il suo cazzo di vestitino di pelle, le calze nere, i sandali e quella bocca lucida e scura.
Nel mio letto, la notte, mentre contavo inutilmente quelle dozzine di pecore belanti, sentivo le sue mani che stringevano le mie braccia, la sua bocca sulle mie spalle che mi baciava. Sentivo persino il suo profumo. E le corde sui polsi. Un vero sensitivo, l’unica cosa che non riuscivo a sentire era la nullità della mia vita. Ma tant’è, così andavano le cose e perché mai uno dovrebbe lamentarsi quando c’e sempre chi sta peggio.
E poi quel sabato mattina è arrivato, inevitabile come la diarrea dopo le ciliegie o il mal di testa dopo una bella sbornia.
É arrivato e mi ha trovato pronto ad aspettarlo, saldo come una roccia, bello come un dio azteco, sicuro di me come una finanziaria.
Ho fatto la doccia, ho il deodorante sotto le ascelle, il fiato alla menta, biancheria pulita e la riga ben fatta. Sono in macchina sotto casa di Marisa fin dalle otto e trenta, e faccio quello fa chiunque altro stia in macchina sotto casa alle otto e trenta: aspetto le nove. Alla radio c’è l’ispettore Callahan che dice, do you feel lucky, do you, punk?, poi parte la colonna sonora del film. Bella, un drago il vecchio Lalo. Mi rilasso anche se Marisa sa già che sono qui sotto perché il battito del mio cuore fa tremare la casa.
Secondo segue secondo, qui giù da basso, come formichine che passano sul pavimento della cucina cariche di briciole, in quelle file, quelle robe nere, interminabili e assurde, quelle. É così che passa il tempo: lento, quando hai fretta, svelto quando non hai niente da fare. Mai quando hai paura.
Le nove meno due, scendo dalla macchina e chiudo a chiave. Attraverso la strada e mi posiziono davanti al citofono, un dito sul campanello e un occhio sull’orologio. Vuole essere fiscale? E io l’accontento. La lancetta dei secondi si arrampica verso la sua meta e quando sono le nove in punto premo il campanello.
Passano alcuni secondi prima che la serratura del portone scatti con il solito ronzio.
Nello stato d’animo di un israeliano che gira nudo per la Striscia di Gaza, attraverso l’androne e comincio a salire le scale. Cerco di vedere il lato positivo, in genere il mio orologio è in ritardo e oggi invece marcia che è una meraviglia. Altrimenti mi avrebbe rispedito a casa. Un minuto di ritardo mi ha concesso. É uno di manica larga.
La porta degli avvocati e chiusa sprangata. Con quello che si mettono in tasca lasciando a piede libero ogni sorta di delinquente non hanno certo bisogno di lavorare anche il sabato. Il battente di Marisa è socchiuso. Che a casa mia, in codice, significa: entra, caro. Cosa che faccio richiudendomi la porta alle spalle. Lui mi viene incontro arrivando dal salotto. Rivederlo mi da una grande emozione, e il mio batticuore si accentua. I sapori e i colori dell’altra volta mi tornano improvvisamente in mente.
Mi appoggio alla porta perché sono esausto per la tensione di questi ultimi giorni, sono agitato e nervoso. Dovrei
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