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Servitù a domicilio - terza e ultima parte


di eborgo
18.01.2023    |    2.272    |    0 9.5
"«Anziché servire una padrona ne devi servire due..."
Capitolo sesto. La festa comincia ad animarsi.

Sono passate un paio d’ore. M’hanno tirato a lucido come una scultura di Michelangelo e la mia pelle abbronzata è linda e profumata. Ho pisciato e non ho altri bisogni impellenti. Siamo in salotto e la luce del pomeriggio riscalda questo piacevole consesso penetrando gialla attraverso i lembi delle tende.
Sono seduto sul divano, tra le gambe di Marisa, la schiena appoggiata al suo petto. Le sue mani si muovono lente e provocanti sulle mie spalle e sul petto, mentre la sua bocca esplora ogni centimetro della mia pelle. Mi palpeggia piano, quasi distrattamente e altrettanto distrattamente mi sbaciucchia. Ogni tanto mi costringe a girare la testa di lato e carezzandomi la nuca mi bacia sulla bocca dandomi la sua lingua da succhiare. Ogni movimento provoca uno scorrimento del raso dei suoi pantaloni neri contro la pelle delle mie cosce.
Tutto questo chiacchierando con il suo amico che dopo la doccia si è infilato una lucida vestaglia di raso azzurro sul corpo nudo. Le arriva appena alle ginocchia e la tiene blandamente allacciata per lasciare intravvedere le culottes di seta bianca, unico altro indumento che indossa. Saltella da uno scatolone all’altro su un paio di sandali d’argento senza talloniera. Le due scatole di cartone sono piene di tabulati da computer, coperti di dati e disegni tecnici. Se ho capito bene è roba che vale un sacco di soldi. E se ho capito bene anche il resto, questi due hanno sottratto importanti informazioni riservate da un’azienda e le venderanno alla concorrenza per un mucchio di denaro.
Può darsi che mi sfugga qualche dettaglio perché fare il cagnolino di Marisa e ascoltare quello che si dicono non è facile. Ad ogni modo queste cose non si fanno, si chiama spionaggio industriale e ci si becca qualche annetto di galera. Mentre Marisa mi bruca le labbra e esplora la mia cavità orale con la sua lingua penso a quale possa essere la mia attuale posizione. Se potessi me la batterei, questo ve lo dico nero su bianco, ma non mi slegano le mani nemmeno per farmi la doccia e un pezzo di corda di una cinquantina di centimetri mi tiene legate assieme le caviglie. Idea di Marisa che penso ci tenga alla mia presenza in casa sua. D’altronde mi aveva detto che avrei passato qui il weekend, no?
Quasi mi avesse letto nel pensiero, Marisa smette di baciarmi
«Che cosa ne facciamo di questo delizioso ciucciacazzi?» dice rivolto al suo amico.
La Cariatide, che ancora non so come si chiama, molla un fascio di tabulati nello scatolone si raddrizza e viene sculettando verso di noi. La vestaglia di seta azzurra sfrigola di riflessi ad ogni suo passo.
«Se dovesse raccontare a qualcuno dei nostri affari» dice la bionda con la sua voce da baritono, «i nostri soldi si dissolverebbero in un battibaleno.» Si ferma davanti a me. «Siccome voglio quel denaro» continua, «preferisco che rimanga con noi finché non abbiamo concluso l’affare. Del resto mi piace sentire la sua faccia affondata tra le mie gambe.»
Le sue culottes di raso bianco sono davanti alla mia faccia ma lui si piega ed’è la sua bocca questa volta che si posa sulla mia. Mi succhia e mi mordicchia le labbra senza usare la lingua. «Come ti sembra l’idea?» mi chiede con sguardo lubrico. «Anziché servire una padrona ne devi servire due.»
Non rispondo e siccome la sua faccia è ancora a pochi centimetri dalla mia mi bacia ancora carezzandomi i capelli con le dita.
Marisa mi palpa pigramente i fianchi mentre il suo amico continua a baciarmi. É un vero appassionato del bacio in bocca, la Cariatide.
«Lo teniamo con noi fino a domani sera» dice Marisa. «Quando abbiamo il malloppo lo molliamo da qualche parte e andiamo a prendere l’aereo. Prima che riesca a liberarsi saremo già altrove.»
La bionda molla la mia bocca con uno schiocco. «Mi metterei in valigia anche lui» dice umettandosi le labbra con la punta della lingua. «Peccato lasciarlo qui. Potremmo portarcelo dietro per qualche giorno.»
Si raddrizza e torna ad occuparsi delle scatole. Rimette a posto i tabulati e richiude lo scatolone.
«Vedremo» dice Marisa.
E questo mi provoca un aumento del batticuore.
«Vado a mandare un paio di mail» ci informa la Cariatide. «Tanto non mi sembra che tu abbia voglia di mollarlo.» Mi strizza l’occhio ed esce sculettando dal salotto.
Rimaniamo soli, Marisa ed io. Mi attira di nuovo verso di se e mi bacia sul collo. I capelli della lunga parrucca bionda mi solleticano le spalle. Chiudo gli occhi e mi abbandono contro di lui. Non è quello che andavo cercando? Beh, non proprio, ma tant’è, qui di sicuro le mie opinioni contano pochissimo, e mi tocca veramente sottostare ai desideri e agli ordini di questi due.
Lui mi coccola quasi, la sua lingua mi carezza le labbra e si lascia succhiare piano. Le nostre labbra si prendono e lasciano con un movimento lento e strusciato.
«Ti piace?» Sussurra.
Annuisco.
«Dimmi che ti piace» insiste con voce insinuante.
Mi libero della sua lingua e dico: «Sì, mi piace, ma ho paura.»
«Non ti eccita, avere paura?» chiede dopo avermi baciato ancora.
Ci baciamo per altri lunghi secondi con un suono umido e risucchiato. Penso che potrei rimanere tra le sue braccia in eterno, ma alla fine devo riemergere per respirare.
«Volete farmi del male?» ansimo guardandolo negli occhi.
«No» dice. «E comunque se volessi farti del male non te lo direi.»
Cerca di baciarmi ancora ma io volto il capo.
«Non dirò a nessuno, di voi due» assicuro, «glielo giuro. Non so nemmeno cosa stiate facendo.»
Mi bacia ancora infilandomi la mano tra le cosce e quasi stuprandomi con l’altra. La sua lingua mi entra fino in gola. Trasalgo mugolando e un fiotto d’ansia attraversa il mio corpo nudo. Mi sento indifeso e fragile.
«La tua tensione mi eccita» ansima baciandomi e leccandomi il collo. «Ma se non me ne dai motivo, non ti farò nulla, stai tranquillo.»
Spingendo con la punta delle sue grosse dita sulla mia guancia riporta la mia bocca a portata della sua. Sento la sua mano sull’uccello mentre la sua lingua cerca la mia. Ci baciamo ancora, più piano. Non ha quasi più rossetto, me lo sono mangiato tutto io.
«Sei mio» mi sussurra in un orecchio, «questo sì che dovrebbe eccitarti. Vedrai come ci divertiamo, in questi due giorni, sarai la mia puttanella, dolce e disponibile.»
Continua a carezzarmi l’uccello con una mano e con l’altra mi preme contro di se, la mia schiena aderente al suo petto, le sue cosce fasciate di raso nero strette contro la pelle nuda delle mie. Il suo coso in erezione spinge tra le mie chiappe. Ho l’impressione che la mia scappatella con il suo amico gli abbia fatto venire voglia alla Marisa.
«Ho sete» dico. «Ho la bocca asciutta, ho bisogno di qualcosa da bere, per favore.»
Continua a baciarmi il collo e le spalle palpeggiandomi lì. La gola mi brucia, nonostante l’eccitazione che mi attraversa a ondate l’addome, sono teso e preoccupato. La faccenda mi è scappata decisamente di mano. Manco a dirlo nessuno sa che mi trovo in questa casa. Quando si fanno queste cose non lo si spiattella certamente a parenti e amici. Penso tra me e me che potevo almeno lasciare un biglietto in casa mia, due righe per dire dove mi potevano trovare. Siamo tutti degli intelligentoni a posteriori. Mi sento un cretino.
«Sei bello» mormora Marisa strusciandomisi contro. «Ho voglia di portarti a letto, ne hai voglia anche tu vero, amore? Ho intenzione di scoparti per tutto il pomeriggio» continua con voce eccitata. «Adesso preparo un long drink per noi due poi andiamo in camera mia e tu mi farai impazzire, vero, amore?»
Per un bicchiere di qualsiasi cosa con più gradi dell’acqua prometterei i gioielli di mia nonna. Faccio di si con il capo, mite e sottomesso.
Prende il bavaglio dal divano, mi infila la pallina a fondo tra le labbra e rimette il cerotto al suo posto. L’adesivo tiene ancora per bene. Fidarsi è ok, ma non fidarsi è meglio. E poi deve piacergli molto a Marisa, legare e imbavagliare le sue puttanelle.
Mi scavalca con una gamba e si alza dal divano. «Adesso stai qui bravo» ordina. «Preparo da bere e poi andiamo a divertirci.»
Si gira, fa per allontanarsi ma rimane impietrito. Seguendo il suo sguardo volto il capo verso la porta che dà sull’ingresso. Una tipa è entrata nel salotto e fin qui non ci sarebbe nulla di troppo strano. É anche un bel tipo, castana, sui trentacinque e anche questo lo si potrebbe tranquillamente passare. Ma ha una pistola in una mano e una tessera nell’altra e questo è davvero un bel colpo di scena.
«Mmhhh» ci dice, «vedo che avete invertito i ruoli.»
Ha pure una bella voce. E un bel sorriso, anche se il fatto che ironizzi sulla mia disperata situazione un po’ mi ruga. Avanza di un passo verso di noi.
«Investigazioni Barattieri» abbaia mostrandoci la patacca. «Pensavate davvero di farla franca?»
Marisa non ha nulla da dire e io non posso dire nulla. Da come tiene la sputafuoco, la mora ha l’aria di saperci fare: presa decisa, niente dito sul grilletto, ma il cane alzato e pronto ad abbaiare.
Un’occhiata per valutare la situazione e siccome vede che io sono legato come un salame decide che sono inoffensivo. la sua attenzione si concentra su Marisa.
«Dovresti usare pantaloni meno attillati, bellezza» gli dice, «ti si vede tutta la banana.»
Mi sono sempre piaciute le donne di spirito. Gli indica il divano con la canna della pistola.
«Siediti lì da bravo» ordina.
É un bell’esemplare di genere femminile, la piedipiatti, alta, magra e robusta, con lunghi capelli quasi neri. Ha indosso una camicetta di seta verde acido con le maniche arrotolate e porta una gonna sopra al ginocchio di tela color panna. Le gambe abbronzate sono nude e i piedi sottili e ben disegnati calzano un paio di sandali leggeri con il tacco basso. Non è truccata e nemmeno ne ha bisogno.
Marisa indietreggia di un paio di passi e si siede in punta al divano. Al suo posto sprofonderei dall’imbarazzo, lui, al contrario, rimane dritto e impenetrabile a fissare la nuova venuta. La quale si avvicina e, sempre tenendo l’annaffiatoio di decessi puntato su di noi si accoscia a fianco di una delle scatole. Ne spalanca il coperchio, getta un’occhiata al contenuto e torna a guardarci con un sorriso soddisfatto.
«Allora» mi dice piantandomi gli occhi addosso, «ti eri stufato di fare la bionda?»
Un brivido gelato mi corre allora lungo la schiena. Questa è convinta che io sia la Cariatide. É convinta che in casa ci siamo solamente noi due. Probabilmente ha visto entrare due persone e giusto due sono le persone che si trova davanti.
Le grido che si sbaglia ma dalla mia bocca escono solo suoni inintelligibili. Il bavaglio, cazzo, questa non sa che di la c’è un’altra persona.
«Stai calmo» mi impone tirandosi in piedi. «Se non mi secchi non dirò alla tua mamma come passi il tempo libero.»
Mugugno ancora qualche frase con Marisa che mi guarda tesa, ma lei da un taglio alla faccenda.
«Silenzio. State fermi e nessuno si fa male.»
Taccio ma sono terribilmente agitato. La bionda non si vede e sicuramente ha sentito quello che sta succedendo. E se fossi al suo posto starei già prendendo dei provvedimenti. Spero che Philip Marlowe in gonnella, qui, sia sveglia come sembra.
«Adesso facciamo una telefonata» ci dice avvicinandosi al cassettone. «Così concludiamo questa faccenda. All’inizio non capivo bene se foste uomini o donne o tutti e due. ma adesso è tutto chiaro.»
Si accosta al piano del cassettone sul quale si trova il telefono e così facendo da le spalle all’arco che porta dal salotto al corridoio. Sono terribilmente teso, la bimba si fa fottere da questi due. Sicuro come l’oro. Lancio un’ultimo mugugno disperato ma anziché aiutarla le levo praticamente il tappeto da sotto i piedi. Si volta verso di me con aria seccata e prima che possa dire una parola un’ombra azzurra compare alle sue spalle.
Per prima cosa un frustino di pelle nera si abbatte sibilando sul suo braccio armato. Il dolore dev’essere così pungente che la pistola le cade di mano. Fa pure un balzo di sorpresa la nostra detective, un balzo che la fa finire dritta tra le braccia della Cariatide. Questi l’afferra da dietro, la immobilizza bloccandole le braccia contro il corpo e le ficca una mano sulla bocca. Poi la solleva di venti centimetri da terra. É fonte continua di sorprese, la bionda, forte come un toro nonostante l’aria mingherlina.
La ragazza, senza mostrare troppo spavento comincia a divincolarsi cercando una scappatoia ma Marisa è schizzata via dal divano che ancora la sputafuoco non aveva toccato terra. Sono tipi svelti i miei amici. L’occhio privato soffia, mugola e si divincola come un anguilla e riuscirebbe anche a liberarsi dalla stretta della Cariatide, ma l’intervento di Marisa le preclude ogni via di scampo. Aiuta il suo amico ad immobilizzarla poi le ficca una mano sotto la gonna e le strappa via le mutandine assieme a qualche ciuffo di pelo pubico. Lei geme per il dolore.
Io guardo sbalordito la scena pensando che abbia deciso di violentarla. Invece, Marisa appallottola l’indumento e con perizia, non appena la Cariatide leva la sua mano, lo infila nella bocca della ragazza. Con due mosse si sfila il foulard di seta nera che le fa da cintura e la imbavaglia girandoglielo due volte attorno alla testa e annodandoglielo strettamente dietro alla nuca.
Questa mossa repentina e sorprendente non ha affatto tolto combattività alla nostra detective, che nonostante la bocca piena delle proprie mutandine e il foulard di seta che le tiene al loro posto, sbuffa e si dimena cercando di divincolarsi. Ma adesso la Cariatide la può tenere con tutte e due le braccia e questo limita fortemente le sue possibilità. Con l’aiuto di Marisa e con qualche rude strattone, la costringono ad inginocchiarsi per terra e poi, senza aspettare il benestare dell’uomo Delmonte, la fanno sdraiare a pancia sotto. La bionda le si siede sulla schiena e le torce le braccia sul dorso bloccandole le mani con tutto il suo peso. La tipa sembra perdersi d’animo e rimane ferma, ansimando come una giovane cerbiatta senza scampo. Marisa si alza e si toglie i capelli dalla faccia con un gesto stizzito delle dita.
«Tienila ferma» dice, «vado a prendere della corda.»
«Da qui non si muove» risponde la bionda. «Vero, sherlock?»
Le strattona i polsi strappandole un grido soffocato. La bambola mi guarda e questa volta afferra il concetto. Siamo nella stessa barca. Scuoto lentamente il capo e lei chiude gli occhi.
Marisa torna con un rotolo di corde bianche, si accoscia accanto al suo amico e assieme cominciano a legare la loro vittima. Le fanno il servizio speciale, quello per i capi di stato, per i grandi investitori e per le rock star. Le legano per bene i polsi e le braccia subito sopra i gomiti, senza lesinare materia prima e tirando per bene le corde.
Il servizio comprende anche nodi doppi, controllo incrociato e certificato di garanzia, soddisfatti o rimborsati.
I due travestiti si sollevano e la tirano in piedi. Mentre la bionda si riallaccia la vestaglia di seta azzurra, Marisa trascina la sua recalcitrante prigioniera verso il divano. La prende per le spalle per metterla seduta ma la fiera detective cerca di mollargli una ginocchiata nei gioielli di famiglia. Per una questione di centimetri, Marisa riesce ad evitare di ritrovarsi marmellata di marroni nelle mutandine di seta.
Si becca la ginocchiata sull’interno della coscia e si arrabbia. Un pugno sul naso, senza esagerare, e la ragazza si ritrova riversa sul divano. Una sottile gocciolina di sangue le scende da una narice e va a fermarsi sopra al labbro superiore.
Rimane stordita quel tanto da permettere ai due di afferrarla e legarle strettamente le caviglie. Non contenti la immobilizzano tirandole le gambe sul divano e legandole assieme mani e piedi con un’altro pezzo di corda. Chissà se nel manuale del piccolo investigatore è contemplata una situazione del genere?
La bambola accetta la propria sconfitta e rimane ferma ad ansimare, guardando con odio i suoi catturatori. Io sono seduto sul divano ad un metro da lei ma non oso muovere un muscolo. Marisa tranquillizzata dal fatto che Modesty Blaise qui, non può più scappare si avvicina al cassettone e si china a raccogliere la sparapiselli che la ragazza ha lasciato cadere. É piccola nera e lucida ma il buco della canna indica che distribuisce nespole di tutto rispetto. Una PPK calibro nove se non mi sbaglio.
Per qualche attimo rimaniamo tutti in silenzio. Se passasse di lì, una mosca farebbe il rumore di un Jumbo Jet. La gocciolina di sangue supera il labbro della detective disinnescata e si va ad assorbire nella seta nera del foulard che le tiene le mutandine ben pressate in bocca. Ci guardiamo.
«Non possiamo rimanere qui» dice la bionda che sembra avere più sale in zucca della sua amica. «Dobbiamo concludere con il committente entro questa sera. Questi li portiamo via con noi.».
Marisa si siede accanto alla ragazza. «Hai una macchina?» Le domanda, il viso a dieci centimetri da quello di lei.
La nostra damsell in distress mantiene un dignitoso silenzio e tira su col naso guardando dritta davanti a se. Il travestito avvicina di qualche centimetro il viso al suo e le infila una mano tra le cosce premendogliela pesantemente sulla topina. Lei fa un piccolo balzo e si volta furibonda piantando i suoi occhi in quelli di Marisa.
«Posso farti talmente male che nemmeno te lo immagini» le dice il mio amico carezzandole la faccia con la canna della sputafuoco. «Quindi ti conviene fare quello che ti dico.» Le lecca una guancia e lei si ritrae. «Ripeto la domanda» dice ancora con calma. «Hai una macchina?»
La bella abbassa lo sguardo e fa cenno di si con la testa. La bionda le chiede se si trova sotto casa. Altro cenno affermativo. Marisa la fruga fra le gambe con calma, godendosi il suo disappunto, poi sfila la mano dall’area 51 della ragazza e si mette a pensare.
«Useremo l’auto di lei» dice dopo qualche istante di stritolamento di neuroni. «Li portiamo con noi chiusi nel baule e cerchiamo di concludere sto cazzo di affare un po in fretta. La bionda fa un cenno d’assenso lisciandosi la corta vestaglia di seta.
«Che macchina hai?» domanda alla tipa piantandosi davanti a lei. Le toglie il bavaglio e lascia che le sputi in mano la pallottola di tessuto formata dalla mutandina.
«Una Cayenne» mormora la bella guardando la Cariatide dritta negli occhi.
Delusione: quella grossa auto da stronzi che andava avanti e indietro qui sotto e che io stavo per sfregiare era sua... Beh, nessuno è perfetto.
«Dove sono le chiavi?»
«Nella tasca della gonna.»
La Cariatide si china fruga nella tasca sinistra ma è nell’altra che trova quello che cerca. Si solleva facendo dondolare una chiave dalla quale pende un piccolo Milou, il cane di Tintin. Ho un botto di tenerezza, già l’adoro. Questo cancella la Cayenne. La bionda le ricaccia in bocca le mutandine e le rimette il bavaglio.
Marisa si alza in piedi davanti a noi. «Vado a telefonare» dice uscendo dalla stanza. Mentre è via, la bionda richiude gli scatoloni e li porta in ingresso. Pochi minuti e Marisa torna da noi con l’aria raggiante.
«È per questa notte» dice. «Porteranno i soldi.»
La Cariatide gongola. Marisa si avvicina all’occhio privato in gonnella.
«E così hai notato la mia banana» dice guardando la bella con un sorrisetto molto poco rassicurante. «Hai buon gusto, bambola e sono sicuro che la vuoi assaggiare.»
Parlando si carezza lentamente il pube e presto la forma rigida e allungata del suo uccello in erezione comincia a trasparire sotto al raso nero dei pantaloni.
«Dobbiamo far notte» aggiunge, «ed è inutile che stiamo tutti davanti alla tele a guardare Angela padre e figlio, non ti sembra?» Ridacchia. «Abbiamo ben di meglio da fare ci dice.»
La Cariatide gli passa alle spalle e comincia a carezzarlo anche lei. Marisa volta il capo e i due si mettono platealmente a fare lingua in bocca. La bionda le struscia anche il bacino contro al sedere. Si stanno eccitando questi due. Io ho già avuto l’acconto, ma la figlia del tenente Sheridan qui, non credo sappia cosa l’aspetta.
In effetti il luccichio nei suoi begli occhioni indica, se non proprio spavento, almeno una certa preoccupazione.
Marisa si sfila la lingua del suo amico dalla bocca centimetro per centimetro, poi gli dice, prendi lo sgabello in cucina, gli fa, quello alto e prendi dell’altra corda.
Si avvicina a me, mi prende per i capelli e si struscia la mia faccia avanti e indietro sull’uccello bello duro. Il raso dei pantaloni lo rende lucido e scorrevole. Si masturba con la mia faccia per un po poi mi leva il cerotto dalla faccia e leva la pallina di gomma. Si china e mi bacia sulla bocca, per bene, succhiandomi le labbra e passandomi la lingua dappertutto, sul palato, sui denti, sull’interno delle guance. Lo fa in modo che la ragazza possa godersi lo spettacolo. Poi come mi ha preso mi lascia andare spingendomi indietro sul divano. Come se non esistessi più, passa ad occuparsi di lei e le slega la corda che le tiene legati insieme polsi e caviglie.
«Hai visto com’è bravo il ragazzino?» le dice indicandomi con un cenno del capo. «Dovrai darci dentro per essere all’altezza.»
Non appena lei può stirare le gambe lui l’afferra per i capelli e la tira in piedi. Con un lungo mugolio di dolore e non potendo usare le mani ancora legate dietro alla schiena lei è costretta a uno sforzo penoso per tirarsi in piedi e non lasciare metà della sua rigogliosa capigliatura fra le dita di Marisa. Lacrime di frustrazione e di dolore le riempiono gli occhi. Lui la deve tenere in piedi per via delle caviglie impastoiate e se la stringe addosso palpandola e sbaciucchiandola qui e la. La bambola protesta, ansima e mugola ma è come voler fermare una piena con un fazzoletto Kleenex.
Le sta già infilando una mano dalle unghie laccate di rosso sotto alla gonna quando la Cariatide torna portando una specie di sgabello da bar e un rotolo di corda bianca. Mette il primo in piedi davanti a noi e comincia a srotolare la seconda. Marisa spinge la sua vittima verso lo sgabello, la prende sotto le ascelle e la solleva mettendola seduta. Poi le si accuccia davanti tenendole ben salde le caviglie per evitare di prendersi in faccia la ginocchiata del secolo. Se potesse ucciderlo a colpi di rasoio sarebbe felice, la detective in gonnella, si vede da come lo fulmina con lo sguardo.
«Adesso le slego le caviglie» dice la Marisa al suo amico. «Tu devi afferrarle da dietro e tirarle verso di te.»
Scioglie la corda e la ragazza cerca subito di divincolarsi ma la Cariatide è lesta ad afferrare una caviglia per mano e le tira violentemente indietro. Se Marisa non la tenesse appoggiandole entrambe le mani sulle tette, la mora cadrebbe in avanti andando a baciare il pavimento, prendendo la più bella facciata della sua vita. L’aiuta a riprendere l’equilibrio poi si china e comincia a legare la caviglia destra a una delle gambe posteriori dello sgabello. Poi fa la stessa cosa con la sinistra. Ora la poliziotta è costretta a non muoversi perché se perdesse l’equilibrio cadrebbe di nuovo in avanti.
Per stare su con le caviglie legate a quel modo deve tenere le cosce aperte e questo, davvero, non è simpatico. La Cariatide da dietro le afferra le falde della gonna e gliela solleva, tirandogliela via da sotto al sedere fin sopra i fianchi. Ha una topina meravigliosamente fotogenica, la piedipiatti, con un pelo pubico ben disegnato e scuro almeno quanto il suo umore. Il petto le si solleva rapido al suo respiro. É incazzata come un serpente la bambola ma ha anche paura e i suoi occhi grandi e spaventati passano rapidi dall’uno all’altro. Marisa si china tra le sue gambe e le passa la punta della lingua sulle grandi labbra. Lei mugola disperata e scuote il capo facendo no con la testa.
«Non ti muovere, troietta» le dice lui. «Se cadi in avanti questa volta non ti fermo.»
Marisa ci si diverte un po, le da anche umidi baci sulle cosce, mentre la Cariatide, da dietro, le carezza lentamente le tette. Io sono in grave imbarazzo, se c’è una cosa che mi fa proprio incazzare è questo tipo di violenza ma siccome sono legato almeno quanto lei non mi resta che stare in silenzio, preoccupato dalla piega che stanno prendendo gli eventi e anche, diciamolo pure, un poco spaventato.
Lei piange in silenzio, dignitosamente. Sa che tanto non può fare nulla. La lingua di Marisa scorre sulla pelle abbronzata delle cosce, su e giù ma sempre vicino alla zona Cesarini. Poi evidentemente si stufa e si rimette in piedi. Sempre carezzando le tette della sua vittima, la Cariatide si sporge sopra le sue spalle e Marisa lo bacia sulla bocca. Per lunghi secondi l’unico suono nella stanza sono gli schiocchi e gli strusci delle loro labbra e lingue l’una contro l’altra. Mentre bacia il suo amico Marisa sfrega l’uccello satinato contro la topina della ragazza. Lei, presa tra i due, si limita a girare la testa da un lato. I suoi occhi incontrano i miei e io cerco di comunicarle con lo sguardo la mia totale estraneità a tutto questo. Ma credo che lo abbia capito da se, dopotutto è una detective.
Infine, dopo essersi ben bene sbaciucchiati e aver messo la bella in grave imbarazzo, i due si staccano e Marisa ricomincia a strusciare la sua manona dalle unghie laccate sul suo uccellone che spinge duro sul lucido tessuto dei pantaloni.
«Allora» dice alla prigioniera chinandosi per guardarla negli occhi, «sentirai che roba la mia banana.»
«Perché non lo facciamo fare al ragazzino?»
Questa volta è stata la Cariatide a parlare. Il mio cuore esplode nel petto. Quasi quasi faccio un balzo sul divano. Il suo aspetto e i suoi modi più gentili di quelli dell’amico mi avevano ingannato, è un grandissimo stronzo pure lui. Che cazzo di idea, farlo fare a me.
Marisa si volta e mi guarda quasi con curiosità. Il suggerimento evidentemente gli piace. Lui se la può fare in qualsiasi altro momento, se ne ha voglia. La bambola non ha impegni urgenti e non se ne va da nessuna parte.
«Alzati e vieni qui» mi dice facendomi segno con la mano. «Sei stato bravo e meriti un premio.»
Gli rispondo con quello che, essendo proprio di manica larga, uno potrebbe considerare uno sguardo di sfida.
«Io non faccio proprio un bel niente» dico tirandomi indietro. «Non sono un figlio di puttana.»
Marisa e la Cariatide si guardano alzando i sopraccigli come a dirsi ma guarda, sembrava uno inoffensivo e invece è un paladino della giustizia.
«Senti» mi dice Marisa senza sorridere. «Puoi venire qui da solo senza un graffio o posso venire a prenderti io e allora devo farti un po male. Io mi divertirei molto di più, dice, tu molto di meno.»
Non essendoci grandi giri di parole o altri fraintendimenti mi rendo conto che non fare quello che dicono potrebbe risultare in qualche accidente spiacevole. La situazione precipita. Potrebbe sembrare ciò che mi aspettavo accadesse, ma adesso ne va di mezzo un’altra persona che sicuramente vorrebbe essere a qualche milione di chilometri da qui. La Cariatide mi guarda divertito cincischiando i capelli della figlia di Dick Tracy che nemmeno perde più tempo a protestare o a fare gesti di stizza.
Mi alzo, nudo e legato, con il pisello semi molle che mi pende tra le gambe come la coda di un cane bastonato e mi avvio verso il mio destino a piccoli passi, quanto me lo consentono i pochi decimetri di corda che mi legano una caviglia all’altra. Il cuore mi batte fuori giri e questi due li ammazzerei a colpi di stuzzicadenti.
Marisa mi lascia il posto e mi sistema tra le gambe della ragazza. Ci guardiamo negli occhi. Il bavaglio le tiene le labbra aperte. È bellissima e io mi sento male. Lo sgabello è alto al punto giusto, sembra fatto apposta. Se con qualche cabala o artificio riuscissero a farmi venire duro l’uccello mi basterebbe fare un passo avanti per finire in paradiso.
«Non ti piace la topina?» mi chiede Marisa carezzandomi il petto da dietro e baciandomi sul collo.
Io non rispondo ma i suoi reiterati tentativi e il fatto che ad un certo momento mi prende il coso con una mano cominciando a masturbarmi con sapienza vincono la mia resistenza passiva e lo zeppelin comincia a prendere la forma richiesta. Sento i suoi peli pubici che mi stuzzicano la punta del pisello. Mi dico che la situazione sta diventando veramente imbarazzante. Nemmeno Tinto Brass si sarebbe immaginato una roba del genere.
«Dai, bello» mi incita Marisa, «prenditela.»
Mi dà una blanda spinta su una spalla ma io non mi muovo. Allora lui prende dal cassettone il frustino con il quale la Cariatide ha disarmato la poliziotta, qui, e mi rifila due secche frustate sulle chiappe. Lancio un grido e stringo i denti. Bruciano come se mi avessero seduto sulla graticola.
«Forza» insiste, «andiamo in buca.»
Si riempie di saliva la punta di tre dita e la spalma tra le grandi labbra della ragazza, che non apprezza per niente la cosa, ed emette un ringhio da dietro al bavaglio. Un vero signore la Marisa.
Un terzo colpo di frusta e decido che mi basta. Avanzo piano e entro dentro di lei. Spingo appena, per non farle male, perché nonostante la saliva di Marisa non è proprio molto ricettiva la bella. Lei emette mugolii di disappunto e fa dei piccoli movimenti con il bacino, una via di mezzo tra il cercare di togliersi da li e l’aiutarmi a entrare senza dolore. Una piccola lacrima le scende su una guancia e mi brucia il cuore più delle frustate che ho preso sul sedere. I due si godono la scena senza banfare. Marisa si carezza l’attrezzo sotto ai pantaloni e e la Cariatide ha fatto che tirarlo fuori e se lo mena con gran piacere.
Io arrivo a fondo corsa e rimango lì sconvolto e angosciato. Sento il suo profumo e i suoi capelli mi solleticano il petto. Poi la sua fronte si appoggia sulla mia spalla. Avrei voglia di carezzarla, di baciarla piano ma non posso fare molto altro che essere gentile con lei. Sento il suo respiro caldo sul petto. É un respiro angosciato, veloce. Penso che quando uscirà da questa storia andrà a fare un corso di perfezionamento per detectives in erba. Si è fatta prendere come un’allocca, da questi due, la mia bella.
Sento le mani di Marisa che si posano sulle mie chiappe e temo il peggio. Invece, visto che io non mi muovo, comincia a farmi andare avanti e indietro come si dovrebbe sempre fare in questi casi. Io cerco di pensare a cose estremamente spiacevoli, tipo Calderoli presidente della repubblica o una salita in seggiovia a fianco di Gérard Depardieu.
Non voglio assolutamente dargli la soddisfazione di venire, soprattutto dentro di lei. Man mano che Marisa mi spinge avanti e indietro sento il suo respiro farsi più affannato. Altre lacrime mi bagnano il petto. Chino il capo e appoggio la guancia sulla sua nuca. Un suo sospiro mi avvisa che accetta le mie scuse, che non mi considera quel grandissimo cornuto figlio di puttana che sono. Avrei dovuto resistere, prendermi botte e frustate, farmelo tagliare piuttosto, ma non fare il gioco di quei due. Ora posso solo resistere e vedere quanto ci mette Marisa a rompersi le balle di spingermi avanti e indietro senza ottenere nulla.
Andiamo avanti un pezzo, con lei che sospira sul mio petto a ogni spinta, senza provare nulla, come me, trasformandolo in un gesto meccanico, una spiacevole corsa su un tram molto affollato, roba del genere.
Finalmente vengo strappato da lei in malo modo. Marisa mi afferra per un gomito e mi porta dietro al divano. Mi fa appoggiare con il basso ventre contro lo schienale e mi tiene fermo con una mano piantata in mezzo alla schiena, leggermente chinato in avanti. Capisco che sto per prendermi ciò che sarebbe toccato alla poliziotta. Anche la Cariatide molla la ragazza, che tanto se si muove si rompe la testa sul pavimento, e mi viene davanti, l’uccello duro che sporge fuori dalle culottes di raso tra le falde della corta vestaglia.
Sento fruscii di raso alle mie spalle, qualche umido scivolio poi, senza mezzi termini, Marisa mi sodomizza. Dev’essere incazzato perché me lo ficca tra le chiappe come Armstrong ha piantato la bandiera in quelle della luna. Dev’essere umido di saliva ma non basta mi fa un male del diavolo. Con un grandissimo sforzo riesco a non darlo troppo a vedere. La Cariatide aspetta che il suo amico abbia raggiunto la velocità di crociera poi si inginocchia sul divano, mi afferra per i capelli e mi abbassa la testa mettendomi in bocca il suo uccello duro come un palo, Lo succhio svogliatamente ma lui muove il bacino scivolando avanti e indietro nella mia bocca e cercando le sue sensazioni. Non oso guardare verso la ragazza. Vorrei essere in Patagonia o a Montecitorio, in qualsiasi altro posto all’infuori che li. Spero che apprezzi almeno il fatto che me li sto prendendo al suo posto.
La prima a venire è Marisa, con un paio di ultimi colpi che a momenti la fanno uscire dalla mia pancia. I suoi movimenti rallentano e sento il suo uccello pulsare sempre più lentamente dentro di me. Anche la bionda si prende il suo orgasmo e tenendomi stretto per i capelli mi viene in bocca riempiendomela di una quantità incredibile di sperma. Me ne esce anche dal naso. Per non soffocarmi apro le labbra e lascio che tutto il suo seme sgrondi sul divano di Alcantara sotto di noi. Il disastro è pari a quello dello tsunami. Lo può buttare in pattumiera il suo divano la Marisa dopo questo lavoretto.
Mi viene quasi da ridere.
Si sfila da me con un rumore sordo e si accorge di ciò che è successo.
«Ma che cazzo avete combinato» grida in falsetto. «Ma cosa cavolo vi dice la testa?»
Mi tira via dal divano in malo modo e si sporge sullo schienale per vedere l’entità del disastro.
I quattro litri di sperma della bionda ricoprono metà del cuscino e tendono a sgocciolare sulla moquette. I danni dell’uragano Caterina non sono nulla in confronto al seme della bionda.
Marisa è sul limite dell’isterismo. Spedisce la Cariatide a prendere dello scottex e solleva il cuscino in modo che non sgoccioli per terra. Quando la bionda ritorna con il rotolo di carta assorbente glielo strappa malamente di mano. Porta via questi due, le ringhia indicandomi con un gesto del capo, portali in camera da letto e legali bene, dice, non li voglio più vedere fino a stasera.
La Cariatide con grande pazienza e, devo dire, abbastanza divertita, si accoscia di fianco allo sgabello e slega le caviglie della ragazza collegandole fra loro come le mie con un pezzo di spago di una quarantina di centimetri. La fa alzare e la spinge verso di me. Ci scorta lungo il corridoio fino in camera. Forza, dice, sdraiatevi sul letto. Ubbidiamo e lasciamo che ci leghi strettamente le caviglie e che le colleghi ai polsi con un corto pezzo di corda per essere certo che le nostre gambe rimangano piegate.
Sanno legare dannatamente bene questi due, come non avessero fatto altro in vita loro. Poi prende in mano quella cazzo di pallina con i cinghietti e mi si avvicina per imbavagliarmi. Tiro indietro la testa e faccio il mio sguardo di supplica numero 42 barra bis, quello delle grandi occasioni, dei matrimoni in municipio e delle riunioni di famiglia.
«Per favore» imploro, «il bavaglio no... giuro che non mi metto a urlare.»
La Cariatide mi fissa qualche istante poi butta l’aggeggio sul comodino. Ha un debole per me la bionda.
«Se alzi la voce te la faccio pagare» mi avverte.
Si volta per uscire dalla stanza ma lo stoppo sul posto. «Aspetti» dico. Tolga il bavaglio anche a lei. Le giuro che non facciamo casino. Per favore…»
Valuta se darmi retta o no, io sono io, la piedipiatti è solo grane, lo capisco, può mandargli a monte tutta la baracca. Poi le si avvicina e la prende per i capelli voltandole la faccia verso di lui.
«Hai sentito il ragazzino?» l’apostrofa. «Se ti levo il bavaglio fai la brava?»
L’emula di Sam Spade fa cenno di si con la testa e lui la libera del foulard e le permette di sputare le sue stesse mutandine.
«Mi staranno cercando» ansima appena può parlare.
La Cariatide sogghigna. «Non credo che ti troveranno» dice.
Sulla porta si volta e ci punta un dito con aria minacciosa, poi sparisce in corridoio.
Io e la mora ci guardiamo. Lei non ha una gran bella cera. Pensava di aver guadagnato un encomio speciale e invece guarda cosa ti va a succedere.
«Va un po meglio?» Le chiedo rendendomi conto dopo di quanto sia cretina la domanda.
«Sono un po scossa» dice in un soffio. «E mi fanno male le corde ai polsi.»
«Mi spiace per prima» dico. «Sono stato un vigliacco.»
«Non potevi evitarlo» mi consola. «Ti avrebbero fatto davvero male.»
Mi appoggio alla testiera del letto e cerco di mettermi un po più comodo. Anche lei cerca una posizione più favorevole e magari anche di coprirsi un po meglio con la gonna. Ci riesce ed emette un lungo sospiro angosciato.
«Io sono Matteo» dico. «Tu come ti chiami?»
«Valeria» dice. «Com’è che sei coinvolto con questi due?» mi chiede guardandomi negli occhi.
Glielo racconto. E quasi senza arrossire.


Capitolo Settimo. Tre uomini in auto (per non parlar della donna)

«A venticinque anni uno dovrebbe frequentare le ragazze» mi dice Valeria con tono un po’ troppo paternalistico.
«Infatti» rispondo, «tu lo sei.»
Un pallido sorriso le increspa le belle labbra.
Ci siamo raccontati le nostre vite. Beh, almeno le ultime tre ore. É un po stressata ma simpatica, 32 anni, divorziata, senza figli. L’unica pecca della sua vita, a parte la disattenzione sul lavoro, è la Cayenne.
Mi interesserebbe sapere l’entità della merda nella quale ci siamo trovati, profondità, colore, densità, capite quel che intendo
«Cos’hanno combinato esattamente?» chiedo.
«Hanno trafugato un grosso numero di segreti industriali e li stanno vendendo a un acquirente estero» mi rivela la bella.
É sexy così legata, anche se al contrario di me è praticamente vestita. Le guardo i piedi calzati dagli eleganti sandali a tacco basso. Sono piedi sottili, dalle dita lunghe con le unghie naturali, perfettamente curate. Gran bei piedi. Lei nota il mio sguardo.
«Sei un po troppo giovane per me» mi dice senza sorridere. «E poi ho già un fidanzato e, soprattutto, certe cose non le faccio.»
Touché. Alzo lo sguardo e lo poso sui suoi occhi.
«Pensi che ci lasceranno andare?» dico senza badare a quello che mi sta dicendo. «Voglio dire, una volta che avranno finito di fare i loro affari del cazzo, intendo.».
«Non lo so» dice appoggiando la nuca alla testiera del letto. «Ci sono in ballo un sacco di soldi e noi due ne sappiamo abbastanza da rappresentare un problema per loro. Ma se ci lasciano andare il reato è molto meno grave.»
Un brivido mi scorre dalla radice dei capelli alla punta dei piedi. Ci manca solo che questi due mi facciano la pelle per una ragione tanto cretina.
«Ma qualcuno saprà bene cosa cazzo stavi facendo» dico in un rantolo. «Se non ti vedono tornare in ufficio ti cercheranno.»
«Può darsi che mi cerchino» ammette guardando fisso il soffitto. «Ma se succederà lo faranno lunedì e intanto questi due ci avranno portati chissà dove.»
Fuori dalla finestra la notte avanza sempre più scura e silenziosa. La stanza è ormai in penombra, rischiarata solamente dall’abat-jour sul comodino. Non so più nemmeno da quanto tempo stiamo su quel cazzo di letto legati come salami.
«Hai paura?» mi chiede voltandosi verso di me.
«Certo che ho paura» ammetto. «Non me ne frega un cazzo che quei due vendano segreti industriali a chicchessia. Non me ne frega proprio un cazzo, io voglio tornare a casa mia. E possibilmente tutto d’un pezzo.
Silenzio. Un paio di macchine passano giù in strada. Mi metterei ad urlare ma quelli mi sarebbero addosso in pochi secondi.
«Sono spaventata anch’io» dice la sorella di Philip Marlowe. «Se questo ti può consolare.»
Consolare un cazzo, è lei la professionista, io speravo che mi salvasse la pelle, non che si spaventasse. Ce ne stiamo in silenzio. Un paio d’ore fa Valeria ha provato a sciogliere le corde che le legano i polsi dietro alla schiena ma tutti i suoi tentativi non sono serviti a niente. La guardo. É bella, avrei voglia di baciarla. Anche lei mi guarda, senza sorridere. Non c’è proprio niente per cui sorridere in effetti.
«Sei uno strano tipo» dice di punto in bianco. «Che cosa diavolo ti passa per la testa?»
«Ho voglia di baciarti» rispondo.
Questa volta alza un sopracciglio e mi sorride. Non è né un si, né un no. Potrebbe essere un forse.
«Ce la caveremo» dice poco convinta e mi fa l’occhiolino.
Un ticchettio di passi nel corridoio ci annuncia una visita. La Cariatide entra nella stanza. Forza, ragazzi, dice, andiamo a fare un giro. Indossa di nuovo la stessa camicetta di raso color panna annodata in vita e la stessa minigonna lucida d’argento che aveva quando è arrivata. Calze nere e sandali a fascetta dal tacco alto completano il suo elegante e raffinato abbigliamento. É vagamente truccato ma non porta rossetto.
Ha in mano due palline di gomma e un rotolo di nastro adesivo bianco in microfoam, quello morbido ed elastico. Si siede sul letto accanto a Valeria e posa gli oggetti sul copriletto.
«Non dateci problemi» dice, «e vedrete che tutto si risolve per il verso giusto.»
Prende una delle palline e con due dita afferra il mento della ragazza.
«Apri la bocca, bellezza» dice, «da brava.»
Le infila la pallina di gomma fra le labbra e la preme bene al suo posto. É sufficientemente grande da costringere la bella a tenere la bocca spalancata.
«Così, brava la bambina.»
Prende il nastro adesivo e le fa cinque o sei giri intorno alla testa, tirandolo ben bene e passandolo abbondantemente sopra le labbra e sul mento. Fatto, con questo trattamento tutto ciò che può esprimere vocalmente la poliziotta, qui, è l’apprezzamento per una fetta di torta al cioccolato.
La bionda controlla che sia un lavoro ben fatto lisciando con i pollici il nastro adesivo sulle guance della sua prigioniera. Poi si volta verso di me e mi fa l’occhiolino come per dirmi che adesso tocca a me. Oggi mi fanno tutti l’occhiolino. È evidente che mi prendono per un poppante. Effettivamente la Cariatide arraffa la seconda pallina, il rotolo di scotch e viene a sedersi dalla mia parte.
«Avanti un’altro» mi fa con la sua voce da consiglio di amministrazione. «Apri la tua bella bocca.»
La apro e lui mi incastra la pallina di gomma fra i denti poi mi fa chinare la testa in avanti e mi rifila una dose da adulti di nastro adesivo attorno alla testa. lo tira ben bene sulle labbra, sopra e sotto. É spiacevole come avere le dita sporche di miele e non potersele pulire.
«Ecco fatto, amore» dice. «Adesso fate i bravi cinque minuti poi ce ne andiamo»
Poi questo qui, la Cariatide, voglio dire, mi copre il naso con le labbra e mi ficca la punta della lingua prima in una narice e poi nell’altra. Roba da pazzi, ve lo dico io, poi con uno schiocco se lo leva di bocca. Si alza dal letto ed esce dalla stanza lasciandomi di stucco. Valeria mi guarda come se fossi un marziano. Faccio per dirle che, voglio dire, che tutto questo, cioè faccio per dirle... Beh, chi se ne frega tanto tutto quello che riesco a dire è una serie di “g” seguite da un certo numero di “h”. E poi se uno ti fa una roba del genere, la bionda voglio dire, se ti succhia il naso e ti ci ficca la lingua dentro per farti arrapare, beh, vuol dire che ha in mente qualcosa di diverso dall’intenzione di farti fuori. Mi appoggio alla testiera del letto, chiudo gli occhi e aspetto che mi vengano a prendere.
Passano alcuni lunghi minuti di silenzio. Io e la detective qui non possiamo nemmeno più fare quattro chiacchiere come se stessimo prendendo il tè. Il nastro adesivo è già fastidioso dopo due minuti e mi immagino quanto mi romperà il cazzo tra un paio d’ore. Passi nel corridoio, tacchi e ciabattio, arrivano i nostri. Marisa e la Cariatide entrano nella stanza, il primo ciabattando con le infradito di gomma nera, il secondo ticchettando sui suoi sandali a fascetta. La bionda ha indossato quella specie di spolverino lucido e setoso di nylon nero, stretto in vita dalla cintura. Marisa è fasciato in quella orrenda tuta da ginnastica di acetato blu che sembra fatta di quel raso finto dei grembiuli delle bidelle ai tempi di mio nonno. Sono pronti a levare le tende. Ne abbiamo diritto a uno ciascuno, io e la nipote del tenente Colombo, a me la bionda a lei Marisa. Ci slegano gambe e caviglie e ci tirano giù dal letto. Io mi reggo in piedi a malapena, ma le gambe di Valeria fanno giacomo e si trova seduta sul pavimento. Marisa la tira su prendendola sotto le ascelle e ne approfitta per carezzarle le tette. La bella si divincola e si libera dalla sua presa facendo uno sforzo per camminare da sola. Ci spingono lungo il corridoio e torniamo in salotto.
Gli scatoloni pieni di documenti sono scomparsi. Se dicessi che sono tranquillo e rilassato la sparerei grossa. Tanto per cominciare mi stanno portando fuori di casa legato, imbavagliato e nudo come un verme. Mi fermo e mi strappo dalla presa della bionda. Lui cerca di riacchiapparmi, la bionda, ma io le scappo e riesco a passare dietro al divano.
«Cosa stai cercando di fare?» Dice cercando di prendermi da sopra lo schienale. «Non essere stupido, vieni qui.»
Io muggisco e mugolo indicando i miei pantaloni che ancora stanno nel punto esatto dove li ho lasciati. La Cariatide scavalca il divano con un’agilità che alla sua età tanto di cappello e mi afferra per i gomiti.
«Che diavolo mugugni» dice, «zitto e cammina.»
«Sta dicendo che vuole che gli metti i pantaloni» dice Marisa confermando di essere il più perspi dei due. «Non vuole uscire nudo, il signorino.»
La bionda sbuffa e va a raccogliere le mie braghe di tela beige, le stazzona da brava massaia e torna da me. Valeria ci guarda con aria vagamente sbalordita, una roba tipo vedere un tram che decolla o sentire un politico dire una cosa intelligente. Comincia a pensare di essere finita in una gabbia di matti, la regina dei detective. In gabbia c’è di sicuro e io con lei, se poi sia di matti, beh, le probabilità sono elevate.
Mettendosi a giocare alla brava istitutrice, la Cariatide mi aiuta a infilare le braghe, prima una gamba, poi l’altra. Poi me li allaccia e tira su la lampo prendendoci dentro un ciuffo di peli. Muggisco di dolore ma le i mi da una spinta per incoraggiarmi a raggiungere gli altri stoppando la commedia.
Siamo in ingresso. Marisa ci sventola la pistola sotto al naso, cosa che se gli parte un colpo ci stira tutti e due.
«Adesso scendiamo di sotto e raggiungiamo l’auto di questa stronza» dice. «Se fate casino o cercate di darmi dei problemi uso questa. Tanto non abbiamo nulla da perdere. Dopo questa sera non torneremo certo in questa casa, quindi se anche vi sparo le cose per me non cambiano molto. Sono stato chiaro?»
Io annuisco ripetutamente, per me è stato chiarissimo. La bella si limita a guardarlo in cagnesco come sanno fare solo lei e Sam Spade. Lui l’afferra per i capelli e le sbatte la nuca contro il battente dell’ingresso un paio di volte. Fa un brutto suono.
«Hai capito?» le ringhia in faccia.
Lei fa un lento cenno di assenso, gli occhi chiusi e un’espressione infastidita sul viso.
La Cariatide, intanto mi coccola strusciando il petto contro la mia schiena e stuzzicandomi i capezzoli con la punta delle dita. Aspetta che il socio abbia finito la ramanzina, lui, e intanto si diverte con me.
Marisa sposta la bionda di lato e apre la porta. Fa per prenderla per un braccio, ma lei solleva la gamba e gli rifila una ginocchiata come si deve nei gioielli di famiglia. Gliela dà così bene che fa male pure a me.
Mentre il metro e ottantacinque della su figura implode con un gemito, lei lo spinge via e schizza all’esterno correndo attraverso il pianerottolo. La Cariatide mi getta fuori dall’appartamento e le corre dietro senza aspettare i rulli di tamburo.
Intanto Valeria si è buttata a capofitto giù per la scala ma le mani legate le impediscono di mantenere l’equilibrio facendola inciampare in un gradino. La vedo andare giù come un sacco di patate. Per qualche momento riesce a rimanere dritta strusciando contro la ringhiera, ma siccome non ci si può afferrare, dopo un inutile sforzo per restare in piedi, cade in avanti e va a picchiare contro il muro al fondo della prima rampa. Poi rotola sul pavimento.
Mostrando una impressionante capacità nel gestire la deambulazione sui tacchi alti, la bionda le è addosso in un battibaleno. La bella è intontita e non può fare granché per sottrarsi alle mani di quella specie di donna che la ghermisce cercando di rimetterla dritta.
Valeria soffia e mugola come una gatta in un sacco, cosa che riporta Marisa nel ventunesimo secolo. Si alza dolorante e mi afferra per i capelli trascinandomi con sé giù per gli scalini. Protesto a monosillabi espirati, ma siccome ci tengo alla mia fluente capigliatura gli tengo dietro.
Raggiungiamo il piccolo pianerottolo tra una rampa e l’altra sul quale la Cariatide è intanto riuscito a rimettere in piedi la figlia di Lemmi Caution e l’ha inchiodata nell’angolo tenendola ferma con una mano piantata tra i seni e guardandola con riprovazione. Il suo grosso amico lo scosta con un gesto scortese, quindi afferra la ragazza per il bavero della camicia e le molla un pugno che stenderebbe un cavallo. Essendo molto meno robusta, lei si accascia sulle piastrelle senza passare dal via. Sono stupefatto, ma del resto se l’è cercata. Marisa si china, la solleva come un fuscello e, siccome l’ha spedita nel mondo dei sogni, se la carica in spalla come un pacco.
Mi fissa. «Adesso mi avete rotto i coglioni» dice. «Fammene ancora una e vi ficco una pallottola in testa. A te e a lei, è tutto chiaro?»
Annuisco perché a questo punto rischio di farmela nei calzoni. La nostra eroina da romanzo l’ha fatta grossa, stavolta, a Marisa girano le palle a velocità stratosferica. Purtroppo, essendoci solo uffici e data l’ora tarda, nessuno ha colto tutto questo trambusto.
Con il suo carico in spalla Marisa si avvia giù per le scale. La Cariatide mi guarda con un sorrisetto divertito, poi mi impone di precederlo dandomi una piccola spinta sulla schiena. Arriviamo nell’androne dove la Cayenne Turbo nera di Valeria ci aspetta con il baule spalancato. Visto che possiede un’auto da centotrentamila euro, delle due una: a) la ragazza è un buon partito; b) fare l’occhio privato, anche in quella maniera approssimativa, rende un mucchio di quattrini.
Attraverso i vetri intravvedo i due scatoloni posati sul sedile posteriore. Senza particolare cura, Marisa rovescia il corpo esanime della sua prigioniera all’interno del vano e la spinge in malo modo per far spazio a me.
«Forza» mi dice infine, «salta dentro.»
Quel cubicolo ristretto mi mette in testa la claustrofobica idea che finiremo soffocati, lei e io. Non ha l’aspetto di un posto dove circoli troppa aria, quello. Di conseguenza indietreggio scuotendo il capo senza troppa convinzione, ma alle mie spalle trovo il corpo setoso della Cariatide che mi blocca la ritirata.
«Se non ci entri da solo» minaccia Marisa, «ti ci butto dentro a modo mio.»
Data la situazione, decido che è meglio se lo faccio da solo. E dunque mi ci appresto. Mi siedo sul bordo e aiutato dalla bionda, che non perde occasione per potermi toccare, mi sdraio sulla ruvida moquette del baule. Lui prende un pezzo di corda dalla tasca dell’impermeabile e lega assieme le mie caviglie con quelle di Valeria. Infine tira il telo che copre il vano e lo aggancia prima di richiudere il portellone.
Accanto a me il corpo della bella non dà segni di vita. Mi auguro che con quella mazzata non l’abbia spedita d’ufficio nelle verdi praterie di Manitù. Rannicchiato in quel buio che puzza di tessuto sintetico e gomma, mi dico che quella storia è ben lungi dall’essere finita. Capitolo Ottavo. Casa nuova, vita vecchia.

Da una quindicina di minuti siamo fermi da qualche parte. Non posso vedere nulla; buio quasi completo, per me, in quel cazzo di baule. Grazie al cielo Valeria, la donna che ha rivoluzionato il trito concetto di detective in trench, cappello sugli occhi e cicca all’angolo delle labbra, ha dato segni di vita e adesso si lamenta di tanto in tanto. Si starà pure chiedendo dove diavolo è finita. Tuttavia, essendo un’investigatrice, sono certo che riuscirà a capirlo piuttosto in fretta.
Seduti davanti, i due parlottano, ma quello che dicono non è al momento intelligibile, in parte perché bofonchiano, in parte perché qui nella stiva le loro parole arrivano come un rumore ovattato. Sono certo che poco fa stessero anche facendo delle sconcezze perché la Cariatide stava ansimando e i suoni di contorno non davano adito a fraintendimenti. Del resto, questa situazione piuttosto insolita deve eccitarli parecchio.
Sento accanto a me il corpo della bella. Non si muove, ma percepisco il suo respiro che mi pare tranquillo. Se non avessi il bavaglio che mi chiude la bocca le chiederei come si sente, anche se nemmeno posso vederla in faccia perché è sdraiata dietro di me.
Sto valutando se palpeggiarla con le mani che sono a contatto con il suo addome quando qualcosa succede. Le portiere si aprono e i nostri sequestratori danno il benvenuto ad altre persone. Li sentiamo chiacchierare fuori dall’auto e a occhio e croce i nuovi venuti sono due. C’è anche una donna. Parlano degli scatoloni e di una ventiquattrore che contiene del denaro.
Si apre la portiera posteriore e sento scattare le serrature della valigetta. Marisa sta controllando che il denaro sia roba buona e che non gli abbiano rifilato carta da pacchi. Ne fa frusciare un paio di mazzette, quindi dice che è tutto a posto. Parlottano e intanto scaricano gli scatoloni. Poco lontano si ode lo schiocco di un altro baule che si chiude, poi un motore che si accende, poi un’auto che parte. Poi i due rientrano in macchina.
La Cariatide è su di giri. Sento che riapre la valigetta e dai gorgheggi che emette immagino si sia messo ad annusare fiumi di banconote. Intanto siamo ripartiti anche noi.
L’odore all’interno del baule è nauseante. Se pensate che la vostra vita non sia delle migliori, dovreste provare a farvi chiudere in un posto come questo, legati come salami e con un cerotto di merda che vi gira appiccicoso attorno alla testa. Per non parlare della pallina di gomma che ci sta dietro e che vi impedisce quasi di deglutire. Vi rendereste subito conto che bollette e affitto non sono poi quella grande catastrofe.
Percorriamo quelli che a me sono parsi due milioni di chilometri prima che l’auto si metta a sballonzolare facendo scivolare il mio corpo contro quello della sorella di Joe Petrosino, la quale si limita a lamentarsi appena con un verso soffocato. Segno che anche lei si trova in ottima salute.
Evidentemente stiamo passando su una strada sterrata e piena di buche, perché in pochi secondi il cocchio sembra una barchetta in un oceano in tempesta. Infine si ferma con un’ultimo sussulto. Mi chiedo dove ci abbiano portati e cosa intendano fare di noi.
Pochi istanti e la serratura del baule scatta con un colpo secco che mi fa fare un salto della madonna. Il portellone si alza e due figure nere si stagliano contro il nero più sfumato della notte. Contro il chiarore indaco del cielo vedo chiome degli alberi. Ne siamo circondati e il mio intuito portentoso mi suggerisce che ci troviamo in una radura.
«Forza» dice la voce di Marisa, «tiriamoli fuori.»
Sento le loro dita che sciolgono la corda che lega le mie caviglie a quelle di Valeria. Lei si lascia sfuggire un mugolio, segno che è sveglia. Vengo afferrato per le braccia e mi sollevano il busto in modo da aiutarmi a mettere le gambe fuori dal bagagliaio. Una spintarella ulteriore e mi ritrovo in piedi. Mi gira la testa e la Cariatide mi deve sostenere. La seta di cui è vestito mi struscia sulla pelle dandomi un brivido. Infine cavano fuori anche la donna.
Ci ritroviamo uno accanto all’altra, un po’ suonati, il sedere poggiato al retro dell’auto. Vorrei dirle ciao, ma il bavaglio non ce l’hanno levato. Sento il nastro adesivo che tira e la gomma della pallina contro i denti.
I nostri carcerieri sono davanti a noi e ci guardano con l’aria di un gatto che si è pappato un canarino. Mi chiedo se spareranno prima a me o prima alla nipote di Sam Spade.
«Abbiamo concluso il nostro business» dice invece Marisa. «E adesso abbiamo una montagna di soldi. Quello che ci serve è giusto qualche ora per lasciare il paese. Quindi vi lasciamo qui nel bosco. Siamo piuttosto lontani dalla civiltà. Per liberarvi ci metterete un po’, e poi gambe in spalla. Non arriverete in un centro abitato prima di domani a mezzogiorno.»
«E noi saremo già altrove» aggiunge la bionda. «Forse su un volo per Rio o magari per i Caraibi.»
«Ma c’è ancora una cosina che voglio fare» sogghigna Marisa avvicinandosi a Valeria. «Prima di andare mi scopo questa bellezza, così imparerà a farmi dannare.»
La acchiappa per un ala e la trascina dietro girando attorno alla macchina. Lei mugola e si dibatte, ma legata com’è non è che possa fare granché. Spariscono nel buio e la Cariatide e io rimaniamo soli. Mi viene accanto e prende il posto della ragazza.
«Potresti lasciare un bel ricordino anche a me» dice carezzandomi il petto, simile per bellezza a quello del David di Michelangelo. «Adesso ti levo il bavaglio. Puoi gridare fin che vuoi, siamo a chilometri dalla casa più vicina.»
Detto fatto svolge il nastro e finalmente mi leva la pallina di bocca. Mi sento la bocca anchilosata e faccio qualche smorfia per rimetterla in sesto.
«Ci penso io» dice la bionda.
Chiudo gli occhi e mi abbandono contro di lui, le labbra schiuse e la sua bocca che le bruca, le succhia, la lingua inquieta contro il mio palato e i miei denti. Ogni tanto si stacca e le sue labbra scorrono sul mio collo e sulle mie spalle, mentre contro il ventre sento premere il suo sesso sempre più gonfio e palpitante nelle mutandine di seta.
Infine smette di baciarmi, mi allontana leggermente e mi costringe a mettermi in ginocchio nell’erba. Quindi mi porge il suo pube a malapena coperto dal lucido tessuto delle mutandine. Dopo una breve esitazione, mentre lui divarica un poco le cosce, mi chino e poso le labbra sulla forma ben definita del suo uccello, e le lascio scorrere lentamente sulla seta per tutta la sua lunghezza, avanti e indietro.
Sento gonfiare sotto la bocca la forma rigida del suo membro e a tratti lascio scorrere le labbra sulla pelle scura delle sue cosce, fino ad incontrare la parte finale delle calze di seta. Lo faccio gemere e mugolare di piacere mentre il suo glande scuro sporge già di alcuni centimetri sopra il bordo delle mutandine che non riescono più a trattenerlo.
Mi prende con due dita il mento e mi costringe a sollevare il viso verso il suo. Le sue labbra mi si incollano nuovamente sulla bocca e la sua lingua si insinua a cercare la mia. Vorrei non rispondere al suo bacio, lasciarlo fare senza partecipare. Sarebbe la mia sola protesta, ma lui mi da la sua lingua da succhiare per diversi momenti. Tra le labbra sembra viva, tant’è che mi scopro a succhiarla come un mottarello. Infine riprende a baciarmi lentamente ma con foga, una mano sul collo per far si che le nostre bocche siano premute l’una contro l’altra. Lascia le mie labbra e mi porge il petto coperto di seta. Lascio scorrere sotto le labbra i suoi capezzoli velati dal serico tessuto, stuzzicandoli con i denti e con la punta della lingua. Lui mugola di piacere porgendomi ora uno ora l’altro.
Quando con una carezza un po’ brusca riporta infine la mia testa verso il pube il suo uccello è duro e arquato, del tutto fuori dalle mutandine, e aspetta la mia bocca. Schiudo le labbra e le richiudo sul suo grosso glande rosa, titillandolo leggermente con la lingua. Ha un gusto forte e un po salato e una strana consistenza. Lui si muove in modo da variare la sua posizione all’interno delle mie labbra. Io succhio, mordicchio e bacio. Mi viene così, seguo un istinto che non so da dove mi arrivi. Forse è solo sesso.
Mi rendo conto adesso che anche il mio affare è duro come un palo e spinge sulla patta dei calzoni. La Cariatide allunga le mani, cala la zip e lo prende fra le dita e nel far questo, con un movimento dei fianchi, spinge a fondo il suo uccello nella mia bocca. Io continuo a succhiare, facendo scorrere avanti e indietro le labbra lungo l’asta, dalla radice all’attaccatura del glande, lentamente, accarezzandola con la lingua e nel contempo muovendo leggermente il bacino per facilitare e enfatizzare la sua presa sul mio coso. Vengo per primo tra le sue dita, con lunghe pulsazioni che partono profonde dall’interno del mio ventre.
Lui sfila il suo uccello dalla mia bocca e me lo da da leccare e succhiare, porgendomi ora un lato ora l’altro, facendosi baciare i testicoli e, soprattutto costringendomi a solleticargli il perineo, quel lembo di pelle tra lo scroto e il buco del sedere, dove la mia lingua gli scatena un godimento feroce. Mi viene fra le labbra mentre succhio la sua cappella, una serie di getti lattei, caldi e cremosi, che sento in bocca e mi colpiscono sul mento e sulle guance. Accade come al rallentatore, lunghi spasmi di piacere, che scuotono il suo sesso davanti alla mia faccia. Il tempo si è come fermato, il mio cuore batte più lentamente e il respiro di lui è lungo e soddisfatto.
Esausto per la tensione, abbandono il volto tra le sue gambe e a occhi aperti ascolto il suo uccello pulsare sempre più lentamente contro la mia guancia.
Rimaniamo in silenzio, al solo suono dei nostri respiri, nella luce calda della tarda mattinata. La bionda mi aiuta a rimettermi in piedi. Mi attira verso di se e con uno straccio che ha preso nel baule mi pulisce il viso dal suo seme. Sa vagamente di Agip senza piombo 95 ottani.
Un ultimo bacetto, poi mi rimette il bavaglio alla bene e meglio. Un fruscio di frasche e Marisa e Valeria tornano da noi. La donna ha l’aria un po’ sbattuta, ma essendo una detective, le sarà capitato di peggio.
Ci fanno sedere sull’erba e ci legano le caviglie senza lesinare sui nodi. Sono gli ultimi saluti, i fazzoletti che sventolano, una lacrimuccia, ci scriveremo e compagnia bella. Infine salgono in auto e se ne vanno lasciandoci legati e imbavagliati in mezzo alla radura.
Valeria guarda i fari della sua bella auto che si allontanano fino a svanire nel buio, poi volta il viso verso il mio. Ci fissiamo per qualche momento, poi cominciamo le pratiche per liberarci. Se ci diamo una mossa, magari riusciamo a liberarci un po’ in fretta e ci possiamo scapicollare nel posto più vicino per avvertire la madama. Così li facciamo acchiappare prima che salgano su quel famoso aereo per Rio. Anche se per la Cariatide, tutto somato, mi spiace un po’.
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