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Il nero vince in due mosse (cap. 1)


di eborgo
07.06.2023    |    2.277    |    0 9.6
"Prende un foulard dal tavolino a destra del letto e torna da me..."
Capitolo primo. Nives

Nives Anyanwu. Il cartellino sulla buca delle lettere mi informa che abita al sesto piano. Sono entrato nella scala B di ritorno dalle commissioni. É la seconda quindicina di giugno, la temperatura è meravigliosa, le donne indossano tessuti leggeri e calzano già i sandali. Arrivato in fondo all’ingresso chiamo l’ascensore. Due passeggini stazionano di fianco alle scale e i muri avrebbero bisogno di essere ritinteggiati. Di fianco alla porta dell’ascensore un cartello incorniciato in legno informa i signori inquilini sul regolamento di condominio. Il vetro è rotto. Per il resto è lo stesso cartello che c’è di fianco alla porta dell’ascensore nella scala bella, quella dove abito io, con portineria a tutto il resto.
La cabina si ferma con uno scricchiolio davanti a me. Salgo e premo il bottone del sesto piano. Nives Anyanwu, lo stesso nome che c’era sulla busta e sulla pubblicità di una banca che ho trovato a terra sul pianerottolo davanti alla porta di casa un paio di giorni fa. Mentre entro nella cabina penso che avrei potuto fare un salto su da me a prenderle per restituirle alla proprietaria. Lo farò un’altra volta.
L’ascensore comincia a salire lentamente, con tutti i rumori che l’età comporta. Perché mi trovo qui? Perché proprio io?
Nelle ultime due settimane ci sono stati dei furti nella casa, apparentemente solo nella parte “chic”. Purtroppo ne sono stato vittima anch’io, si sono fregati la mia telecamera semi professionale; seimila euro volatilizzati in un lampo. L’ho lasciata dieci minuti in macchina, nel garage sotterraneo davanti al mio box. Dieci minuti soltanto. Sono salito, ho preso un paio di libri e quando sono sceso era sparita.
L’amministratore ha convocato un consiglio di guerra. Stranamente tutti erano d’accordo che me ne occupassi io.
«Lei fa il regista» Ha detto la signora Barzini «sa sicuramente come si fa in questi casi. Se ne occupi lei.»
Esther Barzini è la proprietaria dell’appartamento dall’altra parte del pianerottolo. Le ho detto che faccio documentari, non polizieschi, ma non c’è stato verso.
Ho permesso all’amministratore di convincermi a controllare se c’erano stati furti nella scala B. Avevo la posta di questa signora Anyanwu e ho pensato che avrei potuto cominciare da lì. Magari i ladri hanno rubato anche da lei e hanno gettato via le buste sul pianerottolo quando hanno alleggerito la Barzini di tutta la sua preziosa lingerie di seta.
Con uno schianto asmatico l’ascensore si ferma al sesto piano. Esco sul pianerottolo. Ci sono due porte una a destra e una a sinistra della cabina. Su quella a destra non c’è nome. Una targhetta rossa fatta con il dymo mi informa che “Anyanwu” abita all’altra porta. Mi avvicino, mi schiarisco la gola e busso leggermente.
Pochi secondi e il battente fa ciò che ci si aspetta che faccia quando si bussa, si spalanca. Nives Anyanwu è una signora di colore, nigeriana a occhio e croce, di circa quarantacinque anni, forse qualcuno di meno. Ha un volto perfettamente ovale reso molto espresivo da grandi occhi scuri bistrati di nero e sopracciglia sottili. Sono leggermente corruciate e le danno un’aria decisa e determinata. Il naso tipico della sua razza non è troppo grande ed è ben disegnato. Le labbra sono grandi, piene, di un magnifico color prugna e la sua pelle è marrone scuro con leggeri riflessi ambrati. Ha un pelo di doppio mento, Nives Anyanwu, ma è ancora bella e, ai suoi tempi, te lo faceva sicuramente venir duro nei pantaloni.
I capelli lisci, nerissimi, sono raccolti dietro la nuca in una complicata acconciatura. Mi squadra con aria interrogativa e mi domanda cosa desidero.
La saluto educatamente, come mi ha insegnato la mamma, le dico chi sono e che la disturbo per conto dell’amministratore.
Un’attimo di indecisione poi con un grande sorriso si scosta per lasciarmi entrare. Indossa un abito senza maniche nero di qualche materiale lucido e leggero, nylon o raso sintetico che le arriva fino alle caviglie fasciandola di morbidi riflessi setosi. I piedi nudi sono calzano un paio di scarpe senza talloniera con il tacco alto e un largo nastro alla caviglia.
Chiude la porta alle mie spalle poi mi fa strada attraverso una piccola entrata ingombra di soprammobili africani e non, un portamantelli con appeso un impermeabile leggero e un paio di cappelli, due seggiole di cui una male in arnese e un leopardo a grandezza naturale seduto in un angolo. È di ceramica dipinta, ma mentre gli passo davanti scruta minaccioso il mio basso ventre.
Entriamo in un salotto ampio, anche questo ingombro all’inverosimile di oggetti di ogni tipo. Mezzari e grossi foulard di seta indiana sono gettati un po ovunque, vuoi per arredare vuoi per coprire inadeguatezze di divani e poltrone. Anche libri e riviste concorrono al caos, molte di moda ma anche tante di informatica e diversi quotidiani di alta finanza.
Su un tavolino davanti a una delle due finestre c’è un computer con due schermi e una mezza dozzina di periferiche tra dischi esterni, modem e stampanti.
«Io prego di voler scusare disordine» mi dice, sorridendo, con una voce morbida, dello stesso colore della sua pelle.
Le dico che non si deve preoccupare, che non ha visto casa mia e, scavalcando una pila di libri di viaggio, mi accomodo sul divano che mi ha indicato con un cenno. Si siede davanti a me, accavalla le gambe e incrocia le mani in grembo in attesa che io le dica il perché e il percome.
Cosa che mi accingo a fare. Le racconto dei furti avvenuti nella nostra ala, che l’amministratore è preoccupato e che mi hanno “costretto” ad occuparmi della cosa. Le racconto anche delle due buste indirizzate a lei che ho trovato sul pianerottolo e che le farò avere al più presto. Sfortunatamente non le ho dietro con me perché arrivo da fuori.
Le chiedo se anche qui nella scala B hanno avuto brutte sorprese.
«Dei furti qui da noi, in nostra scala?» mi domanda con un sorriso sorpreso. «Non credo possibile questo... In questa scala abitano persone che non fanno gola a ladri.»
Solleva il busto e mi indica ridendo «Da voi sì avete persone abbienti, la vostra è scala signorile, questa scala non è signorile.»
Le dico ridendo a mia volta che se avesse la possibilità di conoscere i miei condomini della scala A non li chiamerebbe signorili.
Ride anche lei. Ragazzi, è magnetica.
Tornando seri, mi dice che no, non ha sentito nessuno lamentarsi per furti, che in verità non ha molta confidenza con gli altri condomini.
«Una donna nera ha ancora difficoltà con suoi concittadini» mi dice «anche se vive in questa città da venti anni. Sono gentili ma poca confidenza.»
Le dico che capisco cosa vuole dire. «Verrebbe a cena da me una di queste sere?» Le domando all’improvviso
«Io? A cena in sua casa?» Sorride, ma molto, molto sorpresa.
«Si, a cena da me... cucino io, lei porta il dolce, chiacchieriamo e beviamo del buon vino. Lei beve vino?.»
Ride di nuovo. Ci rilassiamo. Mi guarda con un sopracciglio alzato, il braccio adagiato sullo schienale del divano.
«Io bevo vino, si. Sono cattolica anche se in mio paese metà di persone è musulmana.»
«Benissimo allora... le posso telefonare uno di questi giorni?.»
Ride e mi dice che si, le posso telefonare ma non sa se verrà a cena.
É tempo di togliere il disturbo. La ringrazio del tempo che mi ha dedicato e mi alzo dal divano. Giro intorno al tavolino basso che ci divide per andarla a salutare ma con la goffaggine che mi contraddistingue urto un piccolo cassettone alla mia destra. Una delle antine si spalanca e la borsa della mia telecamera rotola sul pavimento. Per lo meno, se non è lei è la gemella.
Nives è in piedi dall’altra parte della stanza, vicino alla libreria e mi guarda sorpresa.
Mi chino sulla borsa e me la rigiro tra le mani. É la mia senz’ombra di dubbio.
«Ma questa è la mia telecamera, come...» Alzo lo sguardo verso la donna ma le parole mi muoiono in bocca. Nives Anyanwu mi sta puntando addosso una piccola pistola automatica dall’aspetto un po antiquato ma non per questo meno inquietante. Non ride più.
«Questa fa rumore di un colpo di tosse» mi avvisa gelida. «Non fare delle stupidaggini nessuno farebbe caso a sparo.»
Mi sforzo di non sembrare troppo cretino, accosciato con la borsa della mia telecamera in mano.
«Senta signora» le dico cercando di reagire allo stupore, «é solo una telecamera... vuole spararmi per una stupida telecamera?.»
La mia voce è malferma ma almeno sembra una trattativa.
Lei si mette un dito sulle labbra per dirmi di fare silenzio. Credo che i suoi ingranaggi stiano girando a mille, ne sento quasi il rumore.
«Rimetti borsa dentro l’armadio e chiudi» mi dice infine. Per rendere più esplicito l’ordine mi indica il mobile con un gesto della pistola.
Non mi sembra il momento di discutere, quindi faccio come mi ha detto. Poi mi alzo lentamente in piedi.
«Ascolti» biascico «possiamo ancora arrangiare tutto senza problemi. La prego metta via quella pistola.»
Ho il cuore che batte e la Lacoste appiccicata addosso. Nives mi fissa per qualche secondo senza smettere di tenermi sotto tiro.
«Non posso farlo adesso. Togli le scarpe e andiamo nell’altra stanza.» Con un movimento della testa mi indica la porta alla mia sinistra. Ce n’è anche una a destra ma si intravede la cucina.
Calmi, stiamo calmi... faccio come mi dice e mi sfilo i mocassini. Sono senza calze e il pavimento freddo mi calma un poco.
Sempre tenendomi d’occhio, Nives si china e con la mano libera apre un altro cassetto. Prende quello che sembra un rotolo di corde bianche e viene lentamente verso di me. «Non posso lasciarti uscire di questa casa» mi dice secca, «anche se tu adesso non può capire. Non rendere cose più difficili.»
Un nuovo fiotto di adrenalina irrompe nelle mie arterie.
«Che cosa vuole fare con quelle?» domando con un filo di voce.
Invece di rispondermi, sventolando la pistola mi indica la porta della camera da letto.
Entro prima di lei anche se mi rendo conto di quanto ciò non sia gentile nei confronti di una signora. La camera da letto è piena di oggetti; vestiti, libri, qualche cosmetico e varie boccette di profumi dall’aria esotica. Ci sono due finestre, una delle quali porta su un balcone, entrambe protette da tende gialle. Se pensavo che la signora Barzini, vedendo in che guaio mi ha cacciato, chiamasse i pompieri mi sono sbagliato.
Il letto è basso, grande e senza testiere. Un copriletto di chintz a disegni astratti in toni blu e un paio di cuscini all’uncinetto ne completano l’aspetto. A sinistra del letto c’è un comodino moderno da quattro soldi e a destra un cassettone basso anche questo coperto di roba, foto, libri, un paio di foulard di seta indiana e una lampada da tavolo moderna, tipo Ikea. Ce n’è una uguale anche sul comodino.
Mi volto verso di lei.
«Sdraiati sul letto con faccia in giù» mi impone «e non tentare nulla... non conviene. Come vedi non ho molto da perdere.»
Sono senza parole. Tutto questo per una telecamera e poche altre cose. Tant’è... Mi sdraio sul copriletto di chintz come mi ha detto lei. La sento trafficare alle mie spalle. Probabilmente svolge il rotolo di corde.
Ragazzi, questa mi sta per legare, è una cosa da pazzi! Penso che ora mi volterò e le dirò che la cosa è assurda, che si tenga la telecamera e non mi rompa i coglioni, ma la canna fredda della pistola sulla mia nuca chiude la faccenda
«Fermo» sibila «Incrocia tue mani dietro la schiena.»
Detto fatto. Con un’abilità che non avrei detto mi afferra i polsi e me li lega strettamente assieme. Non si tratta mica di una cosa da film di Totò, è piuttosto una di quelle legature da sadomaso. Mi fa quasi male. Quando ha finito con i polsi fa lo stesso lavoro con le mie caviglie e, voilà, non si torna più indietro.
Si china su di me. «Mi spiace, dobbiamo rimandare nostra cena» mi dice vicino all’orecchio. «Ma se non fai cose stupide non ti faccio del male. Fai quello che ti ordino e tutto finisce in qualche giorno.»
In qualche giorno? Questa vuole tenermi legato come un salame per “qualche” giorno? Io ho delle cose da fare, ho da lavorare... Faccio per protestare ma sento la sua mano che entra in una delle mie tasche.
«Ho bisogno di tue chiavi di casa» mi informa. Spinge a fondo la mano e incontra una cosa che nemmeno mi ero reso conto fosse successa. Il mio affare, la sotto, è teso e duro, a causa della tensione e della paura penso. La sua mano lo palpa e la sento ridacchiare.
«Mmmhhh» fa lei. «Ma allora ti piace quando una donna ti lega... Voi uomini tutti uguali.»
Rosso di vergogna, il cuore che batte a mille, teso e spaventato come mai prima evito di rispondere. Lei cambia tasca e trova le chiavi che cercava.
Si siede sul letto di fianco a me.
«Adesso ho bisogno che mi indichi dove trovo mia posta in casa tua» mi dice senza più ridere. «É importante che io abbia quelle lettere nuovamente.»
Dalla mia posizione riesco solo a vedere il suo ventre non più giovane. Il vestito di nylon nero lucido fascia qualche rotolo di ciccia sulla pancia, in parte contenendolo in parte evidenziandolo. Mi prendo un paio di secondi per pensare.
«Perfavore» le dico infine, «mi sleghi e io l’accompagno a prenderlo. Non farò nulla per danneggiarla.»
Sospira e con una mano rimette a posto una spallina del vestito che era scivolata sul braccio. «É meglio che vada io» fa con tono spazientito «Tu devi aspettare qui, poi parliamo.»
«Se non vengo anch’io non riuscirà a trovarla» mento. In effetti la sua roba è sul mio tavolino in ingresso.
Si alza dal letto e ne fa il giro facendo frusciare il vestito. Prende un foulard dal tavolino a destra del letto e torna da me. Lo appallottola per bene e poi me lo infila in bocca. Altro batticuore, altra adrenalina. Non la vedo ma sento le sue mani su uno dei miei piedi nudi. Il dolore arriva improvvisamente, fortissimo, come una scarica elettrica che mi blocca il respiro per alcuni secondi. Se non avessi avuto in bocca il bavaglio avrei urlato. Invece quello che ne esce è un suono soffocato.
Mi riprendo poco a poco, ansimando, la fronte imperlata di sudore, il fiato corto e il cuore che picchia all’impazzata. Lei torna a sedersi accanto a me. Con una mano mi toglie una ciocca di capelli dalla fronte. Mi lascia il tempo di riprendermi, di ritrovare il fiato, di riaprire gli occhi.
«Questo purtroppo non è un gioco» mi dice con una certa dolcezza «penso che adesso tu mi vuoi dire dove trovo la mia posta, è così?.»
Faccio cenno di si con il capo, rassegnato come un generale che si arrende al nemico.
Mi leva il foulard appallottolato dalla bocca. Le dico dov’è la sua maledetta posta e il bavaglio torna al suo posto tra le mie labbra. Un secondo foulard piegato a striscia e annodato dietro la mia nuca lo tiene fermo al suo posto. Dulcis in fundo, mi fa piegare le gambe all’indietro e con un pezzo di corda collega polsi e caviglie costringendomi a una scomoda posizione. Piccola ispezione ai nodi poi lascia la stanza. Cerco una posizione più comoda e mi lascio cadere su un fianco. Purtroppo le mie gambe sono sempre piegate dietro alla schiena e tirano sui polsi.
Nives rientra nella stanza. Ha indossato l’impermeabile leggero sopra al vestito nero e sta infilando la pistola in una tasca. Vedendomi sdraiato su un fianco si ferma per un paio di secondi poi mi si avvicina. Si siede sulla sponda del letto e mi fissa negli occhi mordicchiandosi il labbro inferiore, segno che sta pensando.
«Ti do avvertimento» mi dice con voce tranquilla «puoi anche provare di liberarti ma ti consiglio di riuscire prima di mio ritorno. Se ti colgo devo farti di nuovo male.»
Si alza, prende il telefono dal cassettone vicino al letto e ne stacca la spina. Uscendo dalla stanza lo porta via con se. Mi chiedo cos’abbia fatto Anyanwu nella sua vita. La rapinatrice di banche? La sequestratrice di ereditiere?
Sento la porta dell’appartamento chiudersi alle sue spalle. Sono solo, con i miei pensieri. Cerco di calmarmi. Provare a liberarsi? Si direbbe che i miei polsi siano saldati assieme. Ci vorrebbe del tempo e non credo che Nives ci metta sei mesi ad andare a casa mia dietro l’angolo, prendere le sue cose e tornare indietro. E non voglio riprovare il doloroso scherzetto di prima o magari qualcosa di peggio.
Dalla mia posizione posso vedere la porta che dà sul salotto, uno dei divani, una poltrona e un bel pezzo del tavolo con quel po’ po’ di computer sopra.
Dove diavolo sono finito? Non si rapisce una persona perché ti ha beccato a rubare in un appartamento. Minacciandola, per giunta, con una pistola.
Provo a parlare ma quello che esce da sotto al bavaglio è un suono pieno di "H", con tante “F” e tante “G”.
Chiudo gli occhi e cerco di rilassarmi. Il mio cuore batte ancora la rumba.
Passano i minuti. I rumori della strada giungono ovattati alle mie orecchie. La sotto nessuna sa che sono qui, nessuno mi cerca. In compenso il mio coso è ancora teso; forse paura e eccitazione portano allo stesso risultato.
Il rumore della porta d’ingresso mi fa nuovamente montare i battiti ricordandomi che è tutto reale. Ticchettio di passi e Nives Anyanwu rientra nella stanza con il suo vestito nero, lucido e pieno di riflessi. Trovandomi come mi ha lasciato, sorride soddisfatta. In mano ha la pistola. Mi passa alle spalle e comincia a sciogliere i nodi che mi legano. Che sia tutto finito?
Le prime a raddrizzarsi sono le gambe. Mi scioglie le caviglie e quindi mi slega i polsi. Mentre mi metto seduto sul letto lei si allontana tenendomi la pistola puntata addosso. Non dico nulla, preferisco massaggiarmi i polsi, ma ci guardiamo negli occhi, come avversari. Sempre tenendomi sotto tiro apre un cassetto del cassettone vicino alla finestra e ne tira fuori un pacchettino di raso giallo oro che mi butta sul letto.
«Togliti tutti tuoi vestiti» mi dice «e indossa quello.»
É tutto talmente surreale da non provocarmi ulteriore sbalordimento. Sollevo il pacchettino che si rivela essere un paio di ampi pantaloni da pigiama di raso giallo oro. Un poco da checca se volete la mia opinione. Siccome non mi muovo la mia vicina agita il ferro.
«Forza» sbotta, «ubbidisci.»
E io ubbidisco. Mi alzo in piedi e mi sfilo la lacoste e i pantaloni gettandoli sul letto. Quando tocca alle mutande e rivelo la mia, ormai parziale, eccitazione lei mi strizza l’occhio. Prendo lo straccetto di raso e me lo infilo. É la mia prima volta da odalisca ma lei non sembra farci caso.
«A pancia giù sul letto» ordina la Nives «e incrocia mani sulla schiena.»
Conosco la procedura e non le complico le cose. Mi appoggia la canna della pistola sotto la scapola sinistra e finché un po’ di corda non è attorno ai miei polsi non la leva. Per la seconda volta mi lega strettamente le mani dietro alla schiena.
«Bravo» mi dice stringendo i nodi «così è conveniente per tutti.»
Questa volta, legandomi le caviglie lascia tra loro una trentina di centimetri di corda. Piccoli passi soltanto, per il suo prigioniero, caso mai dovessi andare in bagno.
Mi volta sulla schiena, sistema un paio di cuscini e mi aiuta a mettermi più comodo.
«Non ti metto bavaglio» mi dice raccogliendo la pistola dal letto «ma se urli o alzi tua voce o se tenti di alzarti di questo letto ti faccio pentire.» Italiano un poco stentato ma concetto chiarissimo. Del resto, vorrei parlare io il dialetto yoruba così bene.
Sottolinea la frase con un segno del dito indice ed esce dalla stanza. La sento armeggiare qualche secondo con il telefono in salotto e quindi compone un numero. Suono ormai inconsueto, quello di un telefono a disco.
Una breve attesa e Nives comincia a parlare con il suo interlocutore in una lingua africana che contiene una vocale ogni venticinque consonanti. Inutile dire che non capisco di cosa stiano parlando, anche se presumo di essere io l’argomento principale della conversazione. Nives è a tratti alterata e dice lunghe frasi al telefono con un tono perentorio. Poi le acque si calmano. Ancora qualche battuta e riaggancia.
La sento camminare nervosamente in salotto poi il ticchettio dei passi viene verso la camera da letto. Entra nella stanza. É ancora alterata per la telefonata. Del resto non penso che sequestri persone tutti i giorni. Senza dire una parola punta dritta su di me. Prima che io abbia il tempo di banfare me la ritrovo inginocchiata in grembo mentre la sua bocca si incolla alla mia e la sua lingua penetra a forza tra le mie labbra. Ci metto qualche secondo a superare lo stupore e a rispondere al suo bacio frenetico. Le nostre labbra si succhiano a vicenda, un bacio animalesco accompagnato dal suo ansimare selvaggio.
Mi si struscia contro come un’ossessa e sfrega eroticamente il suo pube contro il mio sesso che, senza farselo dire due volte, si mette nuovamente sull’attenti. Sento il tessuto serico contro la mia pelle, pieno di riflessi e di luci, morbido e avvolgente. Vorrei sentirlo sotto le mani, sentire il suo corpo maturo che mi eccita da morire. Ma non posso. Lei si solleva appena, e con la mano libera (con l’altra mi tiene afferrato per la nuca mentre continua a baciarmi furiosamente), sbottona la patta del mio grazioso pigiama e libera il mio coso in erezione. Questa situazione deve eccitare pure lei, perché di punto in bianco molla la mia bocca e fissandomi negli occhi con sguardo appannato si impala su di me senza troppe storie, cominciando a muoversi su e giù, gemendo e ansimando. Si prende il suo orgasmo in meno di un minuto poi, con due o tre mosse del pube, che vorrei tanto sapere dove ha imparato, si commissiona anche il mio.
Rimaniamo a fissarci negli occhi ansimando come mantici, lei seduta su di me e io appoggiato ai cuscini con le maledette mani legate dietro alla schiena. Infine si solleva e si sfila dal mio coso con il rumore di un tappo di champagne. Prende un paio di salviette da una scatola di Kleenex sul comodino e mi pulisce quasi dolcemente. Poi, sempre senza una parola si alza dal letto e si chiude in bagno lasciandomi ansante e stupefatto.
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