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Tempi duri - Seconda parte


di eborgo
18.01.2023    |    3.035    |    1 9.7
"Il mio amico, si fa per dire, lo ha preso per un braccio e sono usciti dalla stanza..."
VI

Nemmeno le tre tazze di caffè che avevo bevuto a colazione erano riuscite a rimettermi in sesto dopo quella notte in cui mi erano successe cose ferali, quasi mortificanti per un giovane di belle speranze come me, convinto di essere un maschio alfa tra le sue coetanee. Oltre a un leggero dolore nelle parti basse, essere sodomizzato da Shontasia aveva in qualche modo ridotto in frantumi quel poco che ancora restava della mia mascolinità, già messa a dura prova.
Legato e inchiappettato senza nemmeno il diritto di replica. Non mi aveva manco chiesto se avevo voglia o meno di farlo. Del resto lo aveva detto nel pomeriggio, “uno schiavo deve soltanto ubbidire”. Quello ero, per loro, uno schiavo pronto a soddisfare qualsiasi desiderio. Magari Shontasia era uno di quei travestiti con la passione per fruste e le sculacciate, uno cui piaceva essere, appunto, ubbidito. E Stepan ne approfittava per prendersi tutto ciò che gli avevo negato nei mesi precedenti.
Per non parlare di quel tipo, Donato, che ancora non avevo inquadrato e che mi sembrava solo un vecchio perverso che pagava i ragazzini per portarseli a letto. Se non altro, lui ancora non aveva preteso nulla e aveva addirittura diviso il suo drink con me. Ma ero certo che prima o poi si sarebbe fatto sotto.
Ho preso un pezzetto di biscotto e l’ho messo in bocca masticandolo con aria pensosa. Avevo ancora un fondo di caffè nella tazzina, ma doveva essere freddo, proprio come la mia anima in quella mattina di inizio giugno che, nonostante il sole alto nel cielo, mi pareva irrimediabilmente cupa.
«Non mi sembra che tu abbia dormito molto bene» ha detto la voce di Stepan. «Troppi stravizi.»
Ho sollevato lo sguardo e ho incontrato il suo. Era seduto in poltrona e mi stava fissando con un sorrisetto. Era pronto per andare in negozio; indossava una morbida camicia bianca in tessuto leggero misto seta e un paio di comodi pantaloni estivi in poliestere di aspetto vagamente lucido e cangiante, la cui giacca era appesa allo schienale di una sedia. Portava ai piedi un paio di infradito con suola in cuoio e fascette di pelle nera molto sottili, ma ero certo che prima di uscire avrebbe infilato i mocassini. Non lo avevo mai visto in negozio meno che elegante. Era uno che teneva alla forma, Stepan.
Siccome non rispondevo si è alzato ed è venuto accanto al tavolo della colazione sul quale erano rimaste anche le sue stoviglie sporche della colazione e quelle di Shontasia che in quel momento si stava facendo la doccia.
«Stavo dormendo» ha detto. «Non mi sono mica reso conto che quella zoccola veniva a scoparti.»
«L’avresti fermato?» ho chiesto.
«Certo, sei il mio fidanzato.»
Ci siamo guardati e mi ha strizzato l’occhio. Ero seduto a tavola, libero ma nudo come un verme, cosa che mi tratteneva dal provare a schizzare verso la porta di casa che, tra l’altro doveva essere chiusa a chiave per prevenire i miei eventuali colpi di testa.
«Questa mattina dovrai rimanere qui solo» mi ha informato Stepan. «Forse si riesce a tagliare i tempi con la vendita e potremo liberarti prima del tempo.»
«Quando?»
«Non lo so, qualche giorno. Vedremo come procede la cosa.»
Ho esitato «Senti… Quando uscite, non potete soltanto chiudermi a chiave nella mia stanza? Senza legarmi, dico.»
«Non se ne parla nemmeno» ha detto la voce di Shontasia.
È entrato nella stanza allacciando la stringa in vita delle sue braghe da ginnastica in acetato lucido nero. Sopra indossava un body di spandex grigio cangiante che fasciava i suoi pettorali privi di seno. Era privo di trucco e portava la solita parrucca (o forse erano i suoi veri capelli), accessorio essenziale per l’uomo effeminato che aveva scelto di essere. Anche se dubito che qualcuno avrebbe avuto il coraggio di farglielo notare. Vederlo arrivare mi ha dato una fitta al sedere
«Ma non ci sono nemmeno le finestre» ho belato cercando di convincerli.
«Quella porta la apri con una forcina di capelli» ha detto il nero. «Riusciresti a scappare in meno di mezz’ora.»
«Giuro che non lo faro.»
«Di questo ne sono sicura» ha detto con un sorriso piuttosto freddo.
Siamo rimasti lì a guardarci mentre lui finiva di allacciare i pantaloni. Stepan non sembrava troppo preoccupato per il mio futuro. Si è seduto al suo posto e si è versato an goccio di caffè tiepido dalla moka. Ha aggiunto un goccio di latte freddo dalla bottiglia, poi ha bevuto un sorso.
«Cerca di non essere troppo scrupoloso con il nostro amico» ha detto rivolgendosi a Shontasia ma guardando me con la coda dell’occhio.
Il nero si è accostato al tavolo, ha preso la tazza di Stepan e ha bevuto un sorso mentre lui gli carezzava il sedere con aria distratta.
«Farò solo il necessario perché sia ancora qui al nostro ritorno.» ha posato la tazzina. «E poi, secondo me, questa situazione di sottomissione non gli dispiace mica. Non è vero, zuccherino?»
Il mio amico ha riso brevemente, poi si è pulito le labbra con il tovagliolo. Si è alzato da tavola e si è spostato dietro di me posandomi le mani sulle spalle.
«Sono affezionato a Matteo» ha detto carezzandomi appena. «È una persona carina e simpatica. Cerca di trattarlo bene.»
«Nessuno lo ha costretto a ficcare il naso negli affari nostri» ha ribattuto Shontasia, il cui caratteraccio sembrava fatto apposta per mortificarmi. «Comunque lo tratterò con i guanti di velluto, il tuo ragazzino.»
Forse era solo gelosa. Del resto, a parte palparle il culo, Stepan non aveva attenzioni che per me.
«Bene» ha concluso. «Fra poco dobbiamo andare, è meglio se lo sistemi.»
Il nero mi ha fatto segno con il pollice, indicando la porta del corridoio. Di malavoglia mi sono alzato da tavola e l’ho preceduto nella mia stanzetta. Mi avevano fornito uno spazzolino e del dentifricio e mi ha concesso una doccia e il tempo di lavarmi i denti.
Sul letto erano gettati alla rinfusa un paio di rotoli di spago bianco e una specie di straccio di seta grigioverde che non capivo cosa fosse. Ha visto che lo guardavo.
«Indossalo» ha detto.
Ho esitato e lui ha fatto un cenno con il mento come per dire di darmi una mossa. L’ho preso scoprendo che si trattava di un paio di ampie braghe leggere in un tessuto tipo raso, con una fascia elasticizzata al giro vita. Siccome Shontasia mi stava fissando come un parcheggiatore abusivo che aspetta la mancia, li ho infilati e me li sono sistemati in vita. Sembravo una via di mezzo tra Simbad e un’odalisca.
Si è avvicinato e con un gesto lento mi ha fatto scivolare una mano tra le chiappe. «Mmhh…» ha fatto passandosi la lingua sul labbro inferiore, «Ti scoperei seduta stante. Forza…»
Ha preso la sedia e l’ha spostata in mezzo alla stanza. Senza dire una parola, ha preso un pezzo di spago, ne ha controllato la lunghezza, poi mi è venuto alle spalle. Mi ha preso i polsi e li ha incrociati dietro la schiena, quindi ha cominciato a legarli. Mentre stringeva la corda girandola, rigirandola e dando piccoli strattoni, ho avuto la sensazione che stringesse di più. Forse era l’ansia che avevo addosso, dovuta all’idea di dover rimanere solo in quella casa senza la possibilità di poter scappare.
«Senti stringere?» mi ha domandato mentre faceva un paio di nodi. Ho annuito. «Sto usando una corda di quattro millimetri» mi ha spiegato come se fossimo a una lezione di taglio e cucito. «È per questo che la senti più stretta.»
Mi ha fatto sedere sulla sedia aiutandomi a far passare le braccia oltre l’alto schienale.
«Non è che mi blocca la circolazione?» ho chiesto mentre già mi immaginavo con le mani in cancrena.
«Stai tranquillo, so quello che faccio. Lo spago sottile serve a evitare che tu possa provare a slegarti. Prova a liberarti e vedrai che il dolore te ne farà passare la voglia.»
Rassicurante. Ha preso un’altro pezzo di corda ed è venuto ad accucciarsi davanti a me. mi ha passato il doppino attorno alla vita, ha fatto un bel nodo, poi lo ha girato dietro la schiena e me lo ha fatto passare sotto al sedere.
«Spostati avanti» ha ingiunto mettendomi due mani selle chiappe e tirandomi verso di sé.
Mi ha costretto a sedermi in punta alla sedia. Mi ha sfregato brevemente le labbra sul sesso coperto di raso, poi ha passato il doppino in una delle stanghe orizzontali che tenevano ferme le zampe, lo ha tirato per bene e ha fatto un bel nodo. Siccome non ero molto comodo, ho cercato di tornare nella posizione precedente ma la corda, che era bella tesa, me lo ha impedito. Shontasia ha ridacchiato.
«Mi spiace, starai un po’ scomodo» ha detto. «È il solo modo ritrovarti qui al mio ritorno.»
«Non puoi farmi questo, io…»
«Se non chiudi il becco ti imbavaglio subito» ha brontolato interrompendo la mia protesta.
Si è alzato, ha preso altro spago e si è messo dietro di me. L’ho sentito di nuovo armeggiare sui miei polsi e in breve li ha legati alle stanghe dello schienale in modo che non le potessi muovere. Poi ha fatto la stessa cosa con le braccia passando qualche giro di corda poco sotto le spalle e fissandola ai montanti.
Avrei voluto gridare, incazzarmi, protestare per quel trattamento, ma da una parte sapevo che non sarebbe servito ad altro che farli incazzare, dall’altra dovevo ammettere che lo trovavo pure un po’ eccitante. Legarmi i quel modo doveva eccitare anche lui, perché la forma del suo uccello in erezione gonfiava il davanti delle lucide braghe da ginnastica. Pareva che avesse una grossa banana nascosta nelle mutande.
Mi si è di nuovo accucciato davanti e ha passato due o tre giri di corda attorno alla mia caviglia destra, poi l’ha annodata lasciandoci attaccato un pezzo di doppino di una quarantina di centimetri. Quindi ha fatto la stessa cosa con la sinistra. È tornato alle mie spalle e si è inginocchiato sulla moquette. Ha afferrato le mie caviglie e le ha tirate indietro all’esterno della sedia. Tra la zampa davanti e quella posteriore c’erano due traverse; una dopo l’altra ha legato le caviglie a quella più alta bloccandole alla gamba dietro con qualche giro di corda. Due o tre nodi e la storia era finita.
Le me gambe erano tirate indietro, con i piedi sollevati e appesi alla stanga posteriore della sedia. Mi sono reso conto che l’equilibrio precario con cui ero sistemato mi impediva, sia nelle braccia che nelle gambe, qualunque sforzo di intensità utile a liberarmi.
Dulcis in fundo, siccome il lavoro era finito, mi ha posato una mano sulla nuca e si è chinato a baciarmi. Ha posato la sua bocca sulla mia e ci ha infilato la lingua di prepotenza. L’ha mossa costringendomi a succhiarla e muovendola piano contro la mia. Debole resistenza e blando mugolio di protesta, ma non c’era modo di sottrarsi. L’ho dovuto baciare per bene, ciucciandogli lingua e labbra come se fossero le migliori prelibatezze del mondo. Infine, siccome bisogna respirare, si è staccato da me con un brontolio di piacere.
Pensavo fosse soddisfatto, invece si è messo a cavalcioni delle mie gambe e ha sciolto il cordoncino dei pantaloni sotto ai quali sembrava ci fosse un palo della luce. Li ha abbassati e si è avvicinato portando il pube a una decina di centimetri dal mio viso. Portava un paio di mutandine di tessuto nero simile al raso i cui riflessi a malapena trattenevano il suo cazzo enorme.
Afferrandomi per i capelli mi ci ha sfregato contro la faccia con un movimento lento e rotatorio, cosa che ne ha ancora aumentato le dimensioni. Ha liberato l’uccello dal serico indumento e senza trovare troppa resistenza me l’ha infilato in bocca cominciando a muoverlo avanti e indietro. Lì per lì sono rimasto passivo, ma è bastato un leggero ma doloroso strappo ai capelli perché la mia lingua si mettesse in funzione, carezzando e succhiando la grossa verga nera di Shontasia. Mugolii di piacere e leggera accelerazione del moto rettilineo. Ho cercato di tirare un po’ indietro il capo, per levarmene un po dalla bocca ma sono soltanto riuscito a risalire verso il glande, cosa che deve aver gradito perché ho sentito il sapore dei primi umori che si mescolava al bagnoschiuma della doccia.
«Se ne lasci cadere una sola goccia» ha sussurrato, il tono ammorbidito dal piacere, «ti frusto.»
Prima che il mio cervello cogliesse il significato di quelle parole, mi ha spinto l’uccello tra le labbra di qualche altro centimetro ed è venuto. Un primo spasmo, poi la bocca mi si è riempita di sperma tiepido. Ho stretto le labbra sull’asta e ho cercato di deglutire evitando che mi andasse per traverso, ma era tanto e una parte m’è uscita dal naso e dagli angoli della bocca colandomi sul petto nudo. Anche perché per accompagnare le ultime contrazioni, ha ancora continuato a muoverlo avanti e indietro.
Quando lo ha levato ho addirittura tossito.
«Shonta, quando vuoi possiamo andare.» La voce di Stepan è arrivata dal solotto.
«Due minuti e ho finito» ha ansimato il nero rimettendo via la mercanzia.
Ha riannodato le braghe, poi da un cassetto del comò ha preso qualche kleenex e mi ha pulito per bene la faccia e il petto. Avevo le narici piene dell’odore del suo seme. Ha gettato i fazzoletti sporchi sul letto, poi si è rimesso ad armeggiare nel cassetto. Quando è tornato da me aveva in mano una pallina di gomma nera di cinque centimetri di diametro e un largo pezzo di cerotto bianco dall’aspetto satinato.
«Apri la bocca» ha ordinato.
Potevo mettermi a discutere, ma non sarebbe servito a niente, quindi ho spalancato le fauci. Mi ha infilato la pallina tra le labbra e l’ha premuta per bene.
«Di più» ha insistito.
Ho obbedito ed è riuscito a spingermela in bocca di un altro paio di millimetri, a quel punto non potevo più spiccicare parola. Per tenerla al suo posto, ha preso il cerotto e ce lo ha messo sopra coprendomi mezza faccia. andava dal mento alla radice del naso e mi arrivava fino alle orecchie. Lo ha steso per bene con le dita, poi si è tirato indietro per guardarmi con aria soddisfatta. In quel momento Stepan è entrato nella stanza.
«Ci sei?» ha chiesto. «Sono in ritardo.»
«Possiamo andare» ha detto il nero.
Stepan mi ha guardato. «Sei proprio un maniaco» ha commentato rivolto a Shontasia.
«È il solo modo per ritrovarlo qui quando rientriamo» ha risposto.
Il mio amico, si fa per dire, lo ha preso per un braccio e sono usciti dalla stanza. Si sono chiusi la porta alle spalle e ho sentito la chiave che girava un paio di volte nella serratura. Passi ovattati si sono allontanati sulla moquette del corridoio, poi, dopo qualche momento, m’è parso di sentire l’ingresso di casa che si chiudeva.
Silenzio. Avevo un po’ di batticuore e una certa quantità d’ansia. Stavo piuttosto scomodo e senza la minima possibilità di cambiare posizione. Neppure la bocca tenuta aperta dalla pallina era piacevole e il cerotto mi tirava sulla pelle. Per fortuna avevano lasciata accesa la lampada a piantana, perché al buio sarebbe stato tutto più spaventoso. Ho saggiato la resistenza delle corde ma, a parte il fatto che erano strette a dovere, la posizione in cui mi aveva legato mi rendeva impossibili i movimenti che sarebbero serviti per cercare di liberarsi. Shontasia non doveva essere nuovo a quel genere di attività, perché nonostante i miei polsi e le mie caviglie fossero saldamente legati alla sedia, non avevo la sensazione che la circolazione del sangue ne fosse in qualche modo compromessa.
Con un sospiro ho tirato indietro la testa cercando di rilassare i muscoli e mi sono preparato pazientemente a una lunga attesa. Dovevo solo fare come i santoni indiani: meditare, concentrarmi e, con una grande serenità di spirito, spedire la mia mente in un luogo lontano da lì


VII

Saranno passate tre ore o forse tre secoli. Di certo a me erano sembrati secoli. Mi sentivo anchilosato, senza forze, le corde che tiravano mordendo la pelle perché un poco mi ero lasciato andare, anche se il modo in cui ero legato non mi permetteva di afflosciarmi, ma mi manteneva comunque eretto, come un oggetto molle tenuto in piedi da dei tiranti. Poteva anche darsi che mi fossi assopito. A tratti, il largo cerotto che avevo sulla faccia, forse per via del caldo, mi prudeva e io non avevo alcuna possibilità di grattarmi. Insomma, un inferno.
Stavo cominciando a chiedermi quando sarebbero tornati, quando mi è parso di sentire il battente dell’ingresso che si chiudeva. Mi è giunto qualche altro rumore ovattato, un paio di porte che si aprivano, cose spostate, ma nessuno si è fatto vivo. Poi è tornato il silenzio.
Stavo quasi pensando di aver avuto un’allucinazione dovuta alla prostrazione, quando la chiave ha girato nella serratura e si è aperta la porta. Donato è entrato nella stanza ancora umido de doccia, asciugandosi i capelli con un asciugamano di cotone giallo. La sera prima non avevo fatto caso alla sua stazza. doveva essere alto un metro e novanta, grosso e poco tonico, con un ventre prominente dovuto più a mancanza di addominali che non agli stravizi. Era nudo, a parte un ampio slip femminile di raso elastico nero i cui riflessi rendevano evidente il rigonfiamento del sesso e un paio ciabatte gialle con un pelo di tacco.
Si è fermato a osservarmi qualche momento, poi è uscito dalla stanza. È tornato in meno di un minuto con il telefonino in mano e ha cominciato a farmi una serie di foto girandomi attorno. Adesso le mutandine mostravano il suo uccello in erezione messo per traverso, da cui ho capito che vedermi legato in quel modo doveva eccitarlo parecchio.
Terminato lo shooting fotografico, come lo chiamano gli esperti, ha posato il cellulare e, con una certa difficoltà dovuta alla mole, si è accucciato accanto a me. Non capivo cosa avesse in mente e, data la situazione, stavo piuttosto sui carboni ardenti. Ha liberato le mie caviglie e le ha portate davanti alla sedia. Mentre lo guardavo legare assieme i due capi sciolti, mi sono reso conto che quasi non sentivo più le ginocchia. Ha stretto bene i nodi in modo che da una caviglia all’altra non rimanessero che una cinquantina di centimetri di corda, forse per permettermi di camminare, ma con piccoli passi.
Ha slegato lo spago che mi costringeva a sedere in punta alla sedia e mi ha aiutato a rimettermi indietro. Si è appoggiato alla mia coscia per aiutarsi mentre si alzava in piedi e ne ha approfittato per infilarmi le dita tra le gambe sfiorando il mio uccello coperto dalla seta leggera dei pantaloni.
«Carine ste braghe» ha ansimato, «Sono una calamita per le mani.»
Ha atteso qualche momento che gli passasse il fiatone, poi è passato alle mie spalle e ha sciolto la corda che mi teneva i polsi attaccati allo schienale. Le mani, però, le ha lasciate legate.
«Riesci a stare in piedi?» ha chiesto.
Siccome non mi aveva tolto il bavaglio, ho accennato un forse con un movimento del capo.
«Dai, ti aiuto io»
Tenendomi per un braccio mi ha sollevato dalla sedia. Lì per lì ho pensato che le gambe non reggessero, ma è stato un attimo. Benché insicuro sono riuscito a fare un paio di passi e, siccome sono giovane e forte, non mi ci è voluto molto per recuperare, anche perché Donato mi ha portato un po’ in giro per la stanza tenendomi una mano insinuante tra le chiappe.
«Va meglio?» ha detto.
Cenno affermativo. Adesso potevo fare da solo, quindi poteva anche levarmi la mano da in mezzo alle chiappe. Ma lui non la pensava nello stesso modo è ha continuato a palpeggiarmi. Ho immaginato che se ti piace un culo maschile, trovarne uno coperto di raso possa mandarti in visibilio.
«Dai, andiamo di là» ha suggerito.
Siamo usciti dalla stanza e infilato il corridoio. “Infilato” si fa per dire, visto che con le caviglie impastoiate camminavo come un ottuagenario nel corridoio di un ospedale. Comunque, alla fine siamo arrivati in salotto.
«Mettiti lì» ha detto aiutandomi a sedere in poltrona. «Aspettami senza fare cavolate, quando torno ci beviamo qualcosa.» Si è accucciato per guardarmi bene negli occhi. Aveva i pettorali un po’ cadenti che parevano tette non troppo toniche. «Devo legarti i piedi o posso fidarmi di te?» ha chiesto.
Continuava a parlarmi come se avessi potuto rispondere, ma siccome avevo ancora il cerotto sulla bocca e la pallina di gomma tra le labbra, ho dovuto annuire per confermare che sarei stato un angelo. Ha sorriso, poi, appoggiandosi alle mie gambe (quei pantaloni dovevano piacergli parecchio) si è rimesso in piedi e ha lasciato il salotto.
Mi sono guardato attorno un po’ spaesato. Benché sedere su una poltrona fosse un enorme passo avanti rispetto alla maniera in cui Shontasia mi aveva legato su quella sedia, la sola cosa che aveva in qualche modo risvegliato i miei sensi era stata la promessa di un bicchiere di roba forte che mi aveva fatto Donato. Una sorsata d’alcol me la stavo sognando.
In casa regnava un silenzio di tomba. Il suono del traffico giù in basso pareva lontano anni luce. Ho posato il capo contro la sporgenza dello schienale cercando di tranquillizzarmi e devo essermi assopito perché mi sono ripreso sentendo il rumore del ghiaccio che cadeva nel bicchiere. Per guardare dietro allo schienale della poltrona con le mani legate, ho dovuto fare uno sforzo. Donato era davanti al mobile bar e stava confezionando quello che sembrava un Manhattan.
Ma non è stato il Manhattan che era intento a preparare, a lasciarmi di stucco: Il tipo indossava un reggiseno di raso nero le cui coppe erano in parte riempite dai suoi seni maschili; una sorta di corsetto o busto nello stesso tessuto avvolgeva il suo addome, pur senza riuscire a nasconderlo del tutto, e gli arrivava sui fianchi dove sottili fettucce di materiale elastico nero scendevano fungendo da reggicalze. Spalle e braccia nude erano abbronzate, con muscoli morbidi dall’aria burrosa. Portava ancora le ampie mutande di materiale elastico il cui rigonfiamento lucido tra le gambe toglieva ogni dubbio, quando mai ce ne fossero stati, sul fatto che potesse trattarsi di un essere di sesso femminile.
Le calze erano fumé, molto velate, con una larga fascia scura sull’orlo superiore e sorrette dai sottili nastri del corsetto. Ai piedi calzava un paio di sandali dal tacco alto in pelle color crema, che uno stilista avrebbe senz’altro considerato eccessivi.
Ha ricambiato il mio sguardo mescolando il drink con una cannuccia, ammiccante e divertito. Per ammorbidire le sue fattezze maschili aveva gli occhi truccati, un pelo di fondotinta e poco d’altro.
«Hai voglia, vero?» ha chiesto con la sua voce profonda.
Siccome non era chiaro se si riferisse all’alcol o alla sua persona, ho preferito glissare. Con passo vagamente insicuro per via dei sandali è venuto da me reggendo il bicchiere con una mano. Tra tacchi, sovrappeso e tutto il resto pareva gigantesco. Mi ha liberato del cerotto sulla bocca e così ho potuto sputare quella pallina di merda. L’ha raccolta e l’ha posata sul tavolino basso accanto al divano.
«Ho sete» ho detto con flebile vocina.
Si è chinato su di me e mi ha dato da bere dal suo bicchiere. Ne ho bevuti un paio di sorsi. L’alcol era gelato, forte, meraviglioso, mi ha fatto tossire ma allo stesso tempo ha ritemprato le mie membra provate.
Donato è andato a sedersi sul divano e ha accavallato le gambe velate di nylon nero. Ha bevuto con calma osservandomi con espressione indecifrabile, poi ha posato il drink sul tavolino. Dire che mi mangiava con gli occhi sarebbe usare un eufemismo.
«Mi puoi slegare» ho chiesto.
«Hai mai indossato abiti da donna?» ha domandato ignorando la mia richiesta. «A parte quei pantaloni così sexy, voglio dire.»
Ho fatto un cenno di diniego.
«E ti piacerebbe farlo?»
Altro cenno di diniego. Il cuore mi martellava nel petto.
«Peccato. Con quel fisico e quella bocca saresti una troietta da paura.» ha preso il bicchiere. «Ne vuoi ancora un sorso?» ha detto.
«Vorrei un bicchiere d’acqua, se non è un disturbo.»
«Dopo te lo prendo. Sei davvero una personcina beneducata, Stepan ha ragione.»
Ha bevuto un piccolo sorso, poi ha fatto tintinnare il ghiaccio nel bicchiere. Stavamo lì a studiarci, lui abbastanza divertito, io un po’ meno, cercando di immaginare come si sarebbe evoluto quel gioco del gatto col topo.
«Dai» ha detto «alzati e vieni qui»
«Per fare cosa?» ho belato.
«Lo scoprirai quando sei qui. Forza, non ti faccio nulla.»
Ho esitato, perché sapevo benissimo che stava mentendo.
«Perché devo venire lì, allora?»
«Perché quando ti dico di fare una cosa devi ubbidire, ragazzino, altrimenti ti imbavaglio e poi ti do qualche bella frustata.»
Più chiaro di così… Aiutandomi con i gomiti mi sono tirato su dalla poltrona. Le mani legate rendono tutto più complicato. A piccoli passi, per via delle caviglie impastoiate, mi sono avvicinato al divano fermandomi davanti a lui. Ha bevuto un goccio del suo drink guardandomi con desiderio, poi ha posato il bicchiere.
Si è rimesso dritto sedendosi in punta al cuscino. Ha allungato le mani, me le ha messe sul sedere e mi ha avvicinato a sé. Non ho manco fatto in tempo a capire le sue intenzioni che già la sua faccia era affondata tra le gambe. Ha cominciato a frugarmi con le labbra, strusciando le guance contro le mie cosce velate dalle seriche braghe e la bocca sul mio uccello che colto di sorpresa ha pure cominciato a inturgidirsi. Cosa che gli ha strappato un mugolio di approvazione.
Ho provato a sottrarmi ma, benché mi stessero mollemente carezzando il sedere, le sue mani sono diventate salde come tenaglie. Ne ha approfittato e per rafforzare la presa e mi ha infilato le dita grassocce tra le chiappe prendendo a titillarmi l’ano e il perineo. Ha pure spinto il viso più a fondo, passandomi labbra e lingua sui testicoli, cosa che al mio cazzo è piaciuta tantissimo perché in pochi istanti è raddoppiato di dimensione.
Ansimando ho spostato piano il bacino spingendo il pube contro il suo viso. Ne sentivo il naso, il mento, la bocca e vedevo i capelli ormai quasi del tutto bianchi, la cui coda di cavallo ondeggiava appena sulla sua larga schiena. Nessuno mi aveva mai fatto una cosa del genere. Vere e proprie scariche elettriche percorrevano le mie membra ogni volta che il mio uccello scorreva sulla sua faccia, a ogni colpetto di lingua, a ciascuna pressione delle dita. Faticavo a non gemere come una gatta in calore.
Ma come tutte le cose belle non è durato molto. Nemmeno il tempo per prendermi il mio orgasmo, mi ha concesso. Per contro anche il suo missile si era svegliato e adesso gonfiava il raso delle mutandine spingendo per uscire. L’ha afferrato con una mano menandoselo piano, cosa che l’ha reso ancora più imponente.
«Vieni» ha detto con il fiato corto «Mettiti qui in ginocchio.» Siccome esitavo ha indicato il pavimento. «Dai bello, qui tra le mie gambe.»
Legato in quel modo non avevo granché scelta. O facevo ciò che voleva lui, o mi prendevo una serie di frustate sul culo, una roba che immaginavo piuttosto dolorosa. Quindi, seppur con una certa difficoltà l’ho accontentato. Per evitare che cascassi in avanti mi ha dovuto aiutare prendendomi sotto le ascelle. Ha fatto in modo che una volta in ginocchiato finissi contro di lui e in un amen avevo la sua lingua in bocca e le labbra che succhiavano avidamente le mie.
«Bravo, così…» ha mormorato.
Mi ha dato dieci centimetri di lingua da ciucciare, cosa che ho fatto carezzandola per giunta con la mia. Mormorii e gemiti di appagamento si sprecavano. Mi ha baciato con passione per qualche altro momento, palpeggiandomi dappertutto, ma soprattutto tra le gambe, poi si è staccato da me.
«Baciami i piedi» ha ordinato. Siccome l’ho guardato sorpreso ha insistito prendendomi per i capelli. «Sei il mio schiavo, forza, baciami i piedi.»
Ho tentennato, cosa che ormai mi capitava spesso, poi mi sono piegato, ma siccome con le mani legate dietro la schiena sarei caduto di faccia sul pavimento, mi ha afferrato per i capelli reggendomi come se fossero stati una maniglia. Ho passato le labbra sulla calza, scendendo verso le dita. Sapeva di cuoio, di nylon, e vagamente di piede lavato.
«Usa la lingua» ha detto.
Ho ubbidito e ho iniziato a succhiargli il pollice, poi le altre dita, cercando di infilare la punta della lingua tra l’una e l’altra, cosa che la calza in parte mi impediva. Ha inarcato il piede in modo che potessi insinuarmi tra la pianta e il sandalo, e io l’ho accontentato cercando di essere bravo, perché mi piace fare le cose per bene e perché sentivo il mio uccello duro tra le gambe, cosa che mi ha suggerito che potessi essere un masochista bello e buono.
Gli ho leccato e succhiato i piedi per bene, fin su al cinghietto che aveva attorno alla caviglia, per un tempo cha m’è parso infinito, finché non mi ha deciso di rimettermi dritto. Si è inginocchiato anche lui sul divano dandomi le spalle e ha ondeggiato davanti alla mia faccia il suo grosso sedere fasciato dalle mutandine di raso. Siccome il messaggio era lampante e non mi sembrava il caso di discutere, ho fatto un paio di passi avanti sulle ginocchia e ho posato le mie belle labbra sul serico indumento.
Le ho lasciate scorrere sul suo culo morbido e grassoccio cercando di evitare gesti definitivi, ma non era ciò che Donato si aspettava da me, tant’è che ha voltato il busto e con una mano mi ha spinto la testa in modo che la mia faccia affondasse tra le sue chiappe. È stata una sensazione mista di repulsione e libidine, repulsione perché comunque è una zona poco appetibile, libidine perché l’essere costretto a farlo mi ha dato un guizzo di eccitazione che si è riverberato sul mio uccello, rendendolo tanto teso da farmi male.
Mi ha tenuto lì intanto che, cercando pure di respirare, stuzzicavo le sue zone sensibili con la bocca e con la lingua. Il tessuto setoso delle mutandine sul viso era quasi una libidine e anche l’olfatto non ne usciva così offeso come avrei pensato, visto che poco prima aveva fatto la doccia. A un certo punto, vedendo che mi ci applicavo, mi ha tolto la mano dai capelli e ha cominciato a muovere il culo per offrire ai miei baci le zone più stimolanti. Udivo a malapena i suoi gemiti e i mormorii di piacere, che parevano arrivare dal suo sedere come portati dai suoi organi interni.
A un certo punto mi sono trovato i suoi testicoli contro le labbra, tesi e sodi poiché il suo cazzo duro come un palo, ho immaginato, ne tendeva la pelle all’inverosimile. Era per me un’esperienza quasi ultraterrena, sentivo sul viso le mutande bagnate dalla mia stessa saliva e il cuore che mi batteva nel petto come un tamburo. Mai avrei pensato in vita mia di trovarmi con la faccia affondata tra le fragranti chiappe di un uomo vestito da donna e che, per giunta, la cosa potesse piacermi.
Non mi sono quasi reso conto che Donato si era intanto voltato ed era di nuovo seduto a gambe larghe davanti a me. Mi ha attirato contro di sé e mi ha baciato ficcandomi la lingua in bocca e toccandomi da tutte le parti. nemmeno una parolina dolce o una gentilezza. Ansimava infoiato, la lingua che mi si muoveva in bocca come impazzita, mentre le sue labbra ciucciavano le mie impedendomi quasi di respirare.
Le ho sentite sulla faccia, sulle spalle, scivolavano umide sulla mia pelle. Fra le gambe, sotto la seta delle braghe il mio uccello tirava scosso da spasmi quasi dolorosi, cincischiato di tanto in tanto dalle sue dita.
«Adesso mi devi fare un pompino coi fiocchi» ha mormorato biascicando parole e saliva contro il mio collo. «Succhiamelo per bene…» ha aggiunto carezzandomi le palle, «poi lo zio Donato ti fa venire. Se non mi fai godere come una troia ti tieni il cazzo duro così com’è, d’accordo?»
Che dire, a questo punto ribellarsi sarebbe stato quasi ridicolo; ero legato, in ginocchio tra le sue gambe, mi aveva già fatto di tutto e, per giunta, sognavo che la sua mano (non oso nemmeno pensare che usasse la bocca) mi permettesse di avere un orgasmo, perché avevo il cazzo così duro da farmi male.
Insomma, per farla breve ho chinato il busto e affondato la faccia dentro la seta delle mutandine che indossava. Era morbida, lucida, scivolava sulla mia faccia impedendomi quasi di afferrare con le labbra l’uccello che nascondeva. L’ho sentito diventare duro contro la mia guancia mentre Donato emetteva mugoli che indicavano quanto gli piacesse ciò che gli stavo facendo.
Doveva avere l’acquolina, perché mi ha afferrato per i capelli, ha sfilato l’uccello dalle mutande e me lo ha strusciato sul viso. Era già scappellato, quando mi ha fatto abbassare il capo. Il suo arnese pareva il gancio di un autocarro, quando me lo ha messo in bocca a momenti mi spuntava dal naso.
Mi è tornato l’estro dei bei tempi e ho cominciato a succhiarlo e leccarlo così bene che gli è venuta voglia di muoverlo avanti e indietro tra le mie labbra come se mi stesse scopando la faccia. Lo sfilava e rinfilava, un pompino con i fiocchi si stava facendo fare. Doveva avere un master, questo qui, in educazione sessuale e tecniche applicate all’università della terza età. E adesso probabilmente ci insegnava. Mi è sembrato che andasse addirittura in affanno. A una certa età non si dovrebbero fare certe cose, bisognerebbe accettare la realtà, pantofole, poltrona, giornale e magari un plaid sulle ginocchia.
Un ultimo paio di spinte decisive che a momenti mi sfondavano la gola, accompagnate da un gorgoglio assai poco femminile, e tenendomi stretto per i capelli mi è venuto in bocca riempiendomela come la bottiglia del latte. Ho pensato che mi sarebbe uscito anche dalle orecchie.
«Manda giù, che è buono» ha mormorato muovendo la cappella nella mia bocca mentre io deglutivo a fatica.
Si è chinato su di me e le sue dita si sono strette attorno alla mia asta coperta dalla seta dei pantaloni. È bastato che la toccasse e sono venuto spruzzando un fiotto di seme che ha superato il leggero tessuto ed è finito sul tappeto bello di Stepan.
«Bravo amore, bravo» ha sussurrato togliendomi il cazzo di bocca. «Mi hai fatto passare un bel pomeriggio.»
Mi sono seduto sui talloni, esausto. Avevo l’impressione di essere in una capsula in cui tutti i suoni erano attutiti, sentivo in bocca il sapore acre del suo sperma e le corde che mi tiravano su polsi e caviglie, come per ricordarmi che non stavo sognando.
C’è stato il rumore della porta di casa che si apriva e poco dopo Stepan e Shontasia sono entrati in salotto. Sono rimasti lì a osservarci stupefatti. Poi Stepan ha visto la macchia sul tappeto.
«Ma che cazzo avete combinato!» ha gridato in falsetto, proprio come una vera donna. «Devo ancora pagarlo!»
Mi ha tirato su in malo modo e mi ha spinto a sedere sulla poltrona, poi si è chinato sullo sul tappeto per stabilire l’entità del disastro. I quattro litri di sperma che ci avevo spruzzato sopra si erano allargati sui disegni della trama e ora stavano superando l’orlo rischiando di macchiare anche la moquette. Se non lo fermavano avrebbe bucato il pavimento finendo al piano di sotto, come il sangue della creatura di Alien.
Stepan è corso in cucina per prendere dello scottex e Donato si è alzato per andare a farsi un’altro drink. Shonatasia è venuta davanti a me, l’aria scontenta e le mani sui fianchi. Indossava una tuta di acetato nero talmente lucida che pareva petrolio.
«Avevo delle idee su di te, cazzo» ha detto, «ma quello stronzo ti ha succhiato come un’ostrica. Mi rifarò domani.»
Ho chiuso gli occhi e ho pensato che quella storia non sarebbe mai finita.
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