Racconti Erotici > orge > Il cazzo di Matusalemme
orge

Il cazzo di Matusalemme


di aldemaro
03.06.2024    |    18    |    0 8.0
"Ho imparato a maneggiare i giochi di potere che ti fanno sentire vivo..."
Chiamami Matusalemme. Ragazzo mio, se guardo dietro di me mi sembra d’aver vissuto secoli. Senza mancare di rispetto ai novecentosessantanove anni certificati del patriarca della bibbia, che prima dell’invenzione del viagra e dei pannoloni da incontinenza non deve essere stata una bella vecchiaia. Tanto ogni vecchiaia fa schifo, senza eccezione. Ecco, fai conto che il mio cazzo abbia l’età di Matusalemme. Un cerchio per ogni anno sul suo tronco. Fai conto di essere il mio padre confessore e ti sussurrerò dietro questa grata invisibile che ho peccato, con intenzione e malizia, con parole opere omissioni, per mia colpa, mia grandissima colpa, Anzi, per colpa del mio cazzo. Da quando ho memoria della pulsazione rigida che dalle mutande risaliva fino alla spina dorsale – nove o dieci anni, chissà – ho pensato a scopare almeno una volta ogni giorno, ogni ora, ogni minuto della mia vita cosciente. Se mi vuoi assolvere accomodati pure, ma sappi che dell’assoluzione tua e del mondo me ne fotto. Ascoltami però. So di avere il fiato pestilenziale. Non immagini quante volte ho bevuto solo per perdere la coscienza di me, il fegato è già marcio, il resto lo sarà tra poco. Tanto non mi devi annusare né assolvere, apri soltanto le orecchie. E magari offri tu il prossimo giro.

Ho penetrato con questo povero cazzo di diciassette centimetri donne d’ogni nazionalità e sfumatura concepibile di pelle. Non avevo ancora ventitré anni quando raggiunsi il numero di trecento, poi riuscii a smettere di contarle e ricordarne la cifra stordendomi sempre più con l’alcol, che l’assillo dei numeri mi stava portando alla pazzia. Scopare una donna, poi un’altra, poi un’altra ancora. Neanche una relazione mercenaria, ci tengo a precisarlo, è un punto d’onore. Non certo per ragioni di senso morale, che i marchettari e le prostitute sono benefattrici dell’umanità. Ma rischiavo una squalifica del mio giudice interiore, che esigeva sofferenza. Scopare è sfida, ossessione, consuetudine, procedura, inferno. Ogni scopata la preghiera recitata sottovoce prima d’addormentarsi e la bestemmia dopo una fitta improvvisa. Allora dio o chi per lui mi perdoni per quello che ho fatto, ancora di più per quello che non ho fatto. Per i silenzi, i vuoti, le diserzioni. Mi perdoni soprattutto le occasioni perdute, quando ho bruciato un’occasione di scopare per una parola o un gesto fuori posto.

Non invidio i corpi e i pensieri oscuri delle donne che ho incontrato, l’utilizzo cieco che ne ho fatto, ma nessuno può invidiare me. Ho imparato ed esercitato con un successo l’arte della seduzione, nella sua crudele essenzialità. Soprattutto per chi la pratica. Ho assimilato il tormento mai risolto di Casanova e Don Giovanni. Identica alla smania dell’atleta a caccia di vittorie e di trofei. La gratificazione è un istante, un orgasmo che si fa spasmo doloroso, le delusioni bruciano per il resto della vita. Significa coltivarsi nelle visceri una voracità implacabile, se non forse in quel breve intervallo in cui realizzi che allargherà le gambe per te, forse le sue labbra avvolgeranno la tua cappella che già si sta gonfiando, se hai vinto la lotteria aprirà persino il bocciolo del suo buco del culo. Un’altra fica, un’altra bocca, un altro culo. Dentro cui di lì a poco potrò far scorrere la lingua e le dita e infine il cazzo avanti indietro per eiaculare finalmente così potrò pensare a un’altra fica, un’altra bocca, un altro culo da penetrare, e a volte l’impazienza è tanta che sono già altrove mentre sto scopando, sprofondato con la mente nel prossimo orifizio da desiderare. E’ un pensiero che va avanti e indietro, come un cazzo al lavoro, ma senza mai venire. Credimi, li invidio quei corpi interscambiabili di donna che ho usato, e quando ho finito scompaiono, si annullano nella memoria. Vorrei annullarmi come loro per non agonizzare nella loro assenza.

Guardami. Non ho sempre avuto questo aspetto da Matusalemme. Ti sembrerà inconcepibile, ma un tempo sono stato giovane. Capisco la tua incredulità. I giovani sono convinti della propria giovinezza invincibile, lo sono stato anch’io alla tua età. Perché nel momento in cui realizzano la verità della gioventù estinta negli occhi velati dei luridi vecchi che incontrano dovrebbero annullare la propria. Per troppi dei miei nocentosessantanove anni di vita del cazzo ho cullato la convinzione che per capire e dare un senso alla vita occorresse scoparsela. Meglio, scoparsela come si deve. Sentire i segni della volontà che si piega mentre gli occhi che ti fissano diventano liquidi, la carne si schiude nell’incavo tra le gambe, le pieghe della fica si lubrificano.

Ero diventato abile a manipolare le menti prima, i corpi poi. Ho imparato a maneggiare i giochi di potere che ti fanno sentire vivo. Vivo e per una volta almeno incolpevole. Perché quando un capezzolo che si fa pietruzza tra le dita o la visione del triangolo dei peli pubici bastano a risvegliare l’afflusso caldo nel cazzo che si indurisce, quando premi per entrare nella fica e poi spingi e sprofondi ti senti solo un ingranaggio involontario del macchinario della vita. Niente al mondo è più innocente d’un cazzo che si indurisce. Pensa alla pura e semplice meccanica della scopata. L’altalena del moto cadenzato della parti in movimento come un pistone, una ruota dentata, un pignone, lo sfregamento dei sessi che si fa impazienza e poi precipizio, e se tutto va secondo natura alla fine ti fionda nell’abisso d’un orgasmo dove tutti i tuoi mostri ti osservano e sogghignano con te in quell’unico istante. Nietzsche non l’avrebbe saputa dire meglio. Chi eiacula è senza peccato. Scagli pure la prima pietra. Meglio ancora, chi è senza peccato eiaculi la prima goccia di sperma.

Allunga la bottiglia ragazzo mio, un altro bicchiere e ti spiego per filo e per segno quel poco che ho imparato. Eccoti la mia lezione del cazzo. Il colore, ragazzo, nelle donne il colore fa una grande differenza, la gradazione della pelle, degli occhi, dei capelli, della fica. Ho scopato donne d’un biancore lunare, i capelli sottili, una filigrana di venature sottopelle e tanti nei a tracciare il sentiero da percorrere con la punta del cazzo. Di solito hanno la fica acidula, soprattutto nella piega affusolata delle grandi labbra, e quando spingi più che puoi la lingua nell’orifizio maggiore le senti sussultare con brevi scatti, come se volessero trattenere il piacere dentro di sé, per farlo durare un po’ più a lungo. Meglio metterle sotto quando scopi, immobilizzarle come puoi, con la presa delle mani ma se riesci usa corde, legacci, cinture, cravatte. Se impari a farlo come dio comanda alla fine ti ringrazieranno con gli occhi appannati mentre provano piacere in un altrove che solo loro sanno.
Ho scopato donne dall’incarnato d’ambra, con la fica dal retrogusto d’anice, ma un po’ dolciastro, che si inumidisce come si bagna una bocca mentre la baci e stringi i seni tra le mani fino a farle supplicare con voce soffocata basta, che significa stringi più forte, che aspetti, stringi fino a farmi sentire una specie di dolore che è il piacere che non si trattiene più. E quando indugi la lingua nell’insenatura carnosa che si apre tra le piccole labbra quelle vibrano con te, come se restituissero quel bacio e la sua dissolutezza. Loro di solito preferiscono essere scopate con precisione da dietro, il cazzo come un metronomo, e se le percuoti dolcemente, se fai schioccare la mano sulle natiche o sulla schiena, gemono da toglierti il fiato.
Ho scopato donne di pelle e d’animo meticci, donne che erano l’ultimo distillato di generazioni di scorrerie e stupri, l’incrocio di secoli di schizzi rabbiosi nelle fiche delle loro progenitrici. Ingravidarle era la bandiera di conquista piantata sul vulcano dell’isola Ferdinandea, un cono d’eruzione che s’affaccia appena dal mare mentre le onde già lo smangiano. Sono le donne che trionfano nell’arrendevolezza della loro fica capace di aprirsi al tocco della mano come un melograno, leggermente spugnosa mentre si imbeve dei suoi stessi umori al passaggio delle dita o della lingua o di entrambe all’unisono, e li restituisce come un liquore che ti ubriaca. Meglio la dolcezza con loro, avvolgerle tra le braccia mentre le penetri sostando a lungo in fondo alla fica e sovrapporti col corpo nell’abbraccio di ogni centimetro di pelle disponibile.

Ho scopato donne del colore del mare in una notte senza luna, la fica come un palpitante riccio di mare appena pescato e aperto col coltello, la consistenza di gelatina salmastra, ho tracciato con la bocca e col pensiero e con la traccia del mio seme lattiginoso il confine del lembo in cui il nero della pelle diventa nero della fica, il sudore si fa eccitazione, la notte si sovrappone alla notte. Mi sono addentrato In quella tenebra con gli occhi spenti, trovando quello che non sapevo di cercare grazie al loro sguardo che ordinava in silenzio. Credo di aver capito quello che apprezzano. Fare irruzione nella loro fica senza tanti preamboli, muoversi dentro di loro come a forzare una porta sbarrata, alternare spinte e colpi secchi alle scosse frenetiche mentre la loro carne tremula si lascia saccheggiare.

E’ una classificazione rozza, lo so. Senza identità, senza nomi, senza volti, senza coscienza. E’ soltanto il gioco della memoria che mi fa associare il colore o il sapore d’una donna alla sola verità dimostrabile. Quella della fisiologia involontaria del piacere o del disgusto al contatto delle mani o del corpo. Alla chimica degli odori carnali. Il mio corpo che con gli anni si asciuga, mentre il cazzo si fa sempre più leggero. Novecentosessantanove anni, ti ricordo, trascorsi a caccia di quel sentore che incontri nella bocca o nella fica o nel buco del culo o in ogni anfratto di pelle dove riposano gli umori e può darti un’erezione quasi dolorosa oppure una nausea che ti accompagna per giorni, e non ne capisci la differenza. Ogni anno che passa più fiche scopabili, ogni stagione che passa un po’ più di pensieri e di rotoli di pancia e di rughe e di cicatrici ad aggravarti corpo e mente.

Meglio se ti togli quel sorrisetto da coglione, ragazzo mio, non c’è nulla di divertente. Pensi che esageri, forse. Hai ragione, il mio cazzo non ha i novecentosessantanove anni di Matusalemme, e neppure io. Sono anni metaforici. Anche il cazzo e le fiche sono metaforiche, se è per questo. Per farmi bello avrei potuto raccontarti quante ne ho scopate, tante da perdere il conto, aggiungere qualche dettaglio rivoltante, sapessi quanti ne ho in magazzino. In fondo i canali del piacere sono gli stessi dell’orina, del vomito, della merda. Tra l’aroma che ti infiamma e il fetore che ripugna il confine è labile. Ma non ho nulla di cui vantarmi. La mia storia era fatta solo di carne, grezzo e odoroso materiale di provenienza umana. Una storia di macelleria, pezzi di muscolo e tessuti appesi ai ganci, spero tu non sia vegetariano.

A un certo punto però è slittata in un’altra direzione. E’ diventata un’altra storia, non più quella che pensavo di avere vissuto. Non so a chi appartenga adesso, di certo non a me. Però so che mi tocca continuare a viverla. Mi sento come un attore porno che esce dal camerino e si ritrova nudo sul set di una commedia sentimentale o di un film d’azione, col suo bel cazzo in orizzontale, e ciac, si gira, e le riprese vanno avanti per anni e anni.

Almeno conosco il momento esatto del mio deragliamento. Lo rivivo in testa all’infinito. Proprio come fosse il video un po’ sgranato di un incidente ferroviario ripreso da una telecamera di sicurezza, eccolo il punto esatto in cui sbanda, ecco l’istante preciso in cui i vagoni sviano e si avvitano l’uno dentro l’altro e tutto va a scatafascio. E ogni volta che lo osservo e poi lo guardo un’altra volta c’è una parte di me convinta che quelle ombre ai finestrini si potrebbero salvare. O se preferisci, come se bloccassi il video pornografico nel momento preciso in cui il cazzo dopo essersi appoggiato su quel bocciolo appena dischiuso finalmente scivola dentro il buco del culo e scompare come risucchiato, e lei non può più scamparla, la stanno inculando, così metto il fermo immagine sperando di inchiodare l’attimo di quel battito d’ali del cazzo di farfalla in Amazzonia quando c’era ancora tempo e il tornado poteva risparmiare l’altro lato del mondo, e scampare la mia vita. Un altro bicchiere di rosso, facciamo che sia l’ultimo. Lascia che te lo racconti, poi ognuno per la sua strada, e spero di non incontrarti mai più. Fai conto di essere una delle tante che mi sono scopato quando ancora scopavo.

L’avrai capito, senza quel sorrisetto da coglione avresti un’aria quasi intelligente. Non c’era spazio per i sentimenti. Cristosanto sono estenuato dai sentimenti umani, la fatica di coglierne i segni, interpretarli, gestirli. L’impostura di chi dichiara amore pensando che un cazzo indurito o una fica inumidita valgano come un sentimento, il sotterfugio che perpetua la specie umana e le sue catastrofi. Ho sempre creduto che scopare senza sentimenti sia un atto di responsabilità e di rispetto verso se stessi. Che si fotta la specie umana, io ho già dato il mio contributo. Estinguiamoci pure spensierati con un’ultima scopata collettiva. Purché sia col preservativo, meglio ancora col salto della quaglia, così salutiamo questa valle di lacrime lasciandogli in dote un tappeto di sperma. Fai conto che l’antichissima Gaia, questa madre terra, sia la gioiosa protagonista milf di un bukkake planetario.

Lo so, non sono un campione di coerenza. Nella goffaggine dell’adolescenza ho lasciato troppo spazio ai moti involontari del cuore. La ragazzetta ossuta che per prima ha socchiuso la bocca quando ho avvicinato la mia e dopo che ho inserito la lingua ha iniziato a girare la sua a manovella ancora mi faceva associare il palpito del cuore a quello del cazzo che intanto mi si stava spalmando appiccicume nelle mutande. Errori di gioventù, i primi e gli ultimi. Quando ho insinuato l’indice nelle pieghe vellutate della prima fica e l’ho infilzato nel ditale di carne viscosa ho avuto la certezza che innamorarsi era peggio di una debolezza. Tutto è vanità, anche questo dice la bibbia, l’Ecclesiaste. Anche innamorarsi è vanità. In quella fica c’era già tutto quello che potevo chiedere alla vita, tutta l’anima che mi serviva per sentire la vibrazione della mia all’unisono, tutto l’amore che occorreva nel mio mondo. In quella fica, certo, e poi in un’altra. E un’altra ancora. In fondo è una forma di monogamia anche questa, no? Mi innamorai della fica, non potevo tradirla amando una donna qualsiasi che ne era la dimora provvisoria, senza alcun merito. Indegnamente, dunque.

Era aprile, otto anni fa. Potrei dirti il giorno esatto, ma sarebbe inutile. Aprile, che coincidenza. Il mese più crudele dice un poeta, Thomas Stearns Eliot. Perché mescola la memoria e il desiderio, dice. Perché risveglia radici molli con uno scroscio di pioggia. E’ l’avvio di una primavera che ci illude di un risveglio alla vita. Ma poi ci mostra il terrore di un pugno di polvere. So maneggiare la parole, come vedi. Non ho rimuginato soltanto sulla fica nella vita, pensa che ho studiato lettere classiche, dovevo imparare a giostrarmela con la lingua, sia quella parlata che quella vibrante sul clitoride, per farmi spalancare tutte quelle fiche. Il mio record è al terzo anno di corso, quando ho scopato tutte le ragazze che frequentavano con me il corso di filologia romanza, senza eccezione. Solo sette, era un esame opzionale, una rossa lentigginosa proprio ai tempi supplementari, la notte dopo l’ultimo appello in cui superammo assieme l’esame. Avrei meritato la lode solo per quello. Invece presi ventinove. Poi ho fatto il Professore nella vita, naturalmente uno di quelli che si scopano le studentesse. Altri tempi, nessuno si scandalizzava, anzi. I colleghi mi guardavano con ammirazione e invidia quando li incrociavo nei corridoi della Facoltà, qualcuno arrivò a chiedermi consigli.

Era notte. Una specie di riflesso lattiginoso cancellava le stelle. Camminavo in una strada parallela al lungomare, a ogni incrocio due fila dei palazzi come gambe divaricate, là in fondo l’ombra scura dell’acqua, uno scorcio nero e pulsante come una fica. La mia seconda notte in città, quella del grande evento. Non ero in vacanza, non ero là per lavoro. Si trattava di compiere un sacrificio umano al mio implacabile dio interiore, il dio delle mie visceri, del mio cazzo Era in programma un appuntamento privato, senza freni. Avevo partecipato a tanti di quei festini da perdere il conto, negli anni ero diventato un habitué. Ma quell’occasione era differente da ogni altra concepita fino ad allora. L’avevo inseguita per anni, dalla prima volta in cui me ne parlarono. Eravamo in un locale, lei con le tette enormi che mi ballavano tra le mani mentre le stringevo fino a farle male scopandola da dietro, lui al nostro servizio. Entrammo in confidenza, viene facile dopo che hai penetrato il buco del culo di una sconosciuta mentre il marito sta leccando il tuo. Lui mi chiese, quasi sussurrando, se avessi mai sentito parlare di questa “cosa”.

Un festino, chiamiamolo così, in cui si ottiene una disponibilità assoluta di corpi piegati a ogni volere. Dodici corpi di ogni forma, di ogni età, ognuno con le sue imprevedibili imperfezioni. Per farne tutto ciò che i prescelti desiderano. Ma con una particolarità. I criteri di selezione. Non il solito biglietto d’ingresso. Pagare non serve, anzi. Chi ha messo in giro la voce della propria disponibilità a offrire una somma praticamente illimitata si è visto sbarrato per sempre l’accesso. Gli invitati sono ammessi liberamente, in un numero limitato. Anche loro dodici, come gli apostoli. Chissà se è previsto un Giuda, in quel caso la parte è mia. Esiste una specie di Comitato, non saprei come chiamarlo. Non ho idea, nessuno ce l’ha, chi l’abbia concepito, chi lo tenga in piedi, chi ne faccia parte, come funzioni, chi valuti e scelga tra gli aspiranti. Non ho idea neppure di come si diventi candidati. Non si fa domanda in carta bollata. Ma so che se provi a chiedere in giro, se azzardi una parola fuori luogo, sei fuori. Bruciato per sempre. Per questo le voci sull’evento corrono, ma se ne parla sottovoce e a mezze parole, per allusioni, specie quando scorre un po’ di alcol e le lingue si allentano.

Il Comitato è la solita divinità imperscrutabile. Devi credere nella sua esistenza, pregare di essere tra i prescelti, adorarlo, così forse sarai salvato. Devi credere che il Comitato sia onnipresente nei luoghi in cui il piacere si fa ginnastica e ossessione, nei rituali degli accoppiamenti incrociati, nei grovigli delle saune nelle spiagge per nudisti nei parcheggi improvvisati nei club privé, ovunque lui può osservare e giudicare. E devi credere che sia onnipotente, per donare anche a te con la sua intercessione il potere assoluto e senza freni sui corpi immolati. Non so cosa conti. Se l’aspetto fisico, la qualità delle prestazioni, come scopi e quanto duri, le dimensioni del cazzo, quello che ti esce o magari ti entra in bocca, come ti meni l’uccello, quel che dici o grugnisci nel frattempo, come ti vesti o ti spogli, cosa hai in testa e cosa taci. Ma quando arriva la chiamata, discretamente, una voce sussurrata all’orecchio di un luogo, una data, un’ora, è come trovare il biglietto dorato di Willie Wonka. Si va nella fabbrica della cioccolata che cola sui corpi e li trasforma in prede da consumare.

Sentivo le visceri attorcigliarsi per l’emozione. Sapevo esattamente dove andare, consapevole di addentrarmi in un’esperienza immaginata tante di quelle volte da sembrarmi al tempo stesso inconcepibile e già vissuta. Mi addentrai nel quartiere adiacente al porto, dove i lampioni si facevano più radi. Arrivai al cancello di una villetta circondata da alberi neri e altissimi, come una fila di giganti. Non c’era bisogno di suonare. Mi avevano comunicato il codice di ingresso, lo digitai su una tastiera facendo scattare il portone. Entrai. Un lungo corridoio, con una luce fioca. In fondo un tavolo, sopra una maschera che raffigurava una bestia, una specie di caprone. La mia, evidentemente ero stato l’ultimo ad arrivare. La indossai. Ero diventato anch’io un corpo anonimo con una testa da animale. Poi l’ingresso in un salone immerso in una debole illuminazione rossastra, dove aleggiava una nebbiolina odorosa – qualcuno doveva aver bruciato una qualche tipo di incenso. Pochi mobili coperti da lenzuola bianche, somigliavano a cadaveri all’obitorio, per lasciare più spazio agli ospiti, il pavimento coperto di tappeti. I giochi erano già iniziati. Gli altri undici prescelti si erano distribuiti attorno alle membra disponibili, corpi sia femminili che maschili con il viso in bella mostra, immobilizzati in posizioni diverse. Qualcuno tra i prescelti li stava utilizzando, altri osservavano con distacco. C’era chi si limitava a toccare in modo neutro, come se volesse verificare consistenza e qualità di una merce da acquistare. Nessuna musica in sottofondo, solo gli stereotipati suoni di ogni atto sessuale, carne che sbatte contro carne, l’ansimare, qualche mugolio smozzicato. Iniziai a prendere confidenza con quell’ambiente, in fondo simile a tanti altri conosciuti in passato, mentre già montava un senso di delusione. Tutto lì? Avevo già vissuto in precedenza situazioni che avrei definito più estreme. Già sapevo che ogni aspettativa porta in sé il seme della delusione.

Mi avvicinai a un corpo relegato in un angolo, costretto bocconi in una posa innaturale da legacci di cuoio sopra una specie di cavalletto di legno grezzo. Era una donna, aveva una fica disponibile e a portata di cazzo, in questo momento – pensai – è tutto ciò di cui ho bisogno. Senza perdere tempo controllai con un dito, la fica era stretta e appena inumidita, sussultò un poco al tatto. Valutai se lubrificarla con qualche goccia di saliva però lasciai perdere, un po’ di attrito iniziale sul cazzo non mi è mai dispiaciuto. Più tardi avrei potuto usarle anche il culo, sicuro, intanto lo penetrai con lo stesso dito ancora bagnato, eccitandomi per la sensazione avvolgente sul polpastrello, la contrazione del buco che somigliava a un risucchio. Abbassati i pantaloni infilai rapidamente il cazzo nella fica affondando un poco il dito dentro il culo. Iniziai a darle colpi secchi, cercando di trovare il mio ritmo. Intanto mi guardavo intorno in cerca d’ispirazione, senza trovarla. Dodici corpi, tra cui quello sotto di me, prestati a ogni genere di abuso, eppure inerti come manichini. Somigliava a un’orgia in un negozio di abbigliamento. Persi concentrazione e sensibilità, la voglia di un attimo prima era già evaporata, mi ritrassi dopo aver perso l’erezione. Mi serve solo un po’ di gioco di lingua, pensai. Mi spostai per raggiungerle la bocca, e fu allora che feci l’errore. La guardai direttamente negli occhi. Anche lei mi guardò.

Non so descriverti bene quello che provai, qua i ricordi si fanno confusi, di sicuro persi il senso del tempo. Conosci quel modo di dire, trito e ritrito, gli occhi sono lo specchio dell’anima. Macché, quella dell’anima è solo una favola che ci raccontiamo per riuscire ad addormentarci alla sera. Non rispecchiavano nulla i suoi occhi, però mi si aprirono come una finestra. Colto di sorpresa mi affacciai, e per la prima volta vidi quello che vedeva lei. Trovai senso di abbandono, desiderio, desolazione, pulsioni materiali miste a sgomento e angoscia, terrore e voglia di godere e di soffrire, e soprattutto speranza di non provare più niente proprio mentre il proprio corpo viene sottoposto a tutto quello che un corpo può sentire. Voglia di morire. La piccola morte, come i francesi chiamano quel senso di abbandono della vita e di vuoto che segue l’orgasmo, la petite mort, avvolta come un bozzolo nella grande morte.

Sollevai di nuovo lo sguardo. Nel salone l’atmosfera era cambiata di colpo. La luce si era incupita. Iniziò a spandersi un odore asprigno di sudore. Un misto di secrezioni e di paura. Adesso gli altri prescelti non erano più sparpagliati nel salone, si erano affollati tutti quanti intorno a uno solo dei corpi, come una muta di cani, incuranti di me. Nell’aria un rumore di carne violata, percossa, ferita. Vidi un riflesso che mi sembrò di lama nell’aria, braccia e mani agitarsi freneticamente, qualcosa stava iniziando a gocciolare sul tappeto. Fui sopraffatto da un senso di nausea e mi domandai ma cosa sto facendo qua, cosa sto cercando, in quale vertigine sono precipitato. Nella concitazione realizzai che avevo di nuovo il cazzo duro. Allora potevo ancora far finta di nulla, scopare di nuovo quella fica totalmente arresa. Oppure slacciare le fibbie che imprigionavano il corpo che adesso, proprio sotto di me, aveva uno sguardo impossibile da ignorare. Fu in quel momento che decisi di salvarla per cercare di salvarmi. Tentai di liberare la chiusura dei lacci, ma lei appena si rese conto delle mie intenzioni cominciò a divincolarsi, quasi cercasse di sottrarsi. Gemette piano, come se la stessi ferendo, No, no, no, no, iniziò a ripetere sottovoce, ti prego no no no. Io continuai ad armeggiare, inutilmente, non so per quanto. Intanto uno degli altri prescelti aveva sollevato una testa da cavallo puntando nella mia direzione. Rimase immobile per un po’, poi lo vidi attirare l’attenzione degli altri. Sospesero le loro manipolazioni volgendosi verso di me. No, no, no, continuava a ripetere lei sotto le mie mani che annaspavano, con una voce strozzata che mi straziava il cuore. I legacci che la imprigionavano erano stati fissati al cavalletto con delle borchie, ci sarebbe voluto un coltello per tagliarle, realizzai. Mi guardai intorno alla ricerca di qualcosa che potesse scalfire il cuoio, ma non trovai nulla, No, no, no, solo questo sentivo, mentre il branco di tante razze animali si mosse nella nostra direzione. Ti prego, vai via, vai via, prima che sia tardi, la sentii implorare. O forse lo immaginai soltanto. Passai la mano sulla sua spina dorsale, sentendo per un’ultima volta il calore di quel corpo nudo e indifeso, quindi arretrai verso la porta del salone. Qualcuno dal branco iniziò a gridare contro di me versi incomprensibili e ostili. Mi scaraventai fuori, l’ultima cosa che vidi furono braccia protese e mani artigliare il corpo bianco che avevo appena abbandonato. Mentre uscivo cercai di ostruire la porta del salone con il tavolino, temevo qualcuno mi inseguisse, ma non credo lo abbiano fatto. Corsi in strada e senza più fiato, col cuore che mi martellava nelle tempie.

Ero solo. Albeggiava, l’aria era tersa e insolitamente tiepida per quell’ora e per quella stagione dell’anno. Mi sentivo lacerato da uno spasimo interiore che d’improvviso si trasformò in eccitazione. Dovetti farmi una sega convulsa, appoggiando l’altra mano a un albero, per scaricare poche gocce di sperma che schizzarono quasi subito sull’asfalto del marciapiede, un orgasmo talmente intenso da essere quasi doloroso. Eccola, finalmente, la mia piccola morte, il pegno da pagare alla consapevolezza della nostra fine. Nel deserto di pensieri intuii che in tutti quegli anni disperati avevo cercato in ogni fica, in ogni bocca, buco di culo o piega di un corpo disponibile qualcosa che era sempre stato dentro di me. E da quel momento era perduto. Realizzai di avere ancora la maschera da caprone. La tolsi scaraventandola via. Adesso puoi smettere di compatirmi, ragazzo mio. Comincia pure a disprezzarmi.
Disclaimer! Tutti i diritti riservati all'autore del racconto - Fatti e persone sono puramente frutto della fantasia dell'autore. Annunci69.it non è responsabile dei contenuti in esso scritti ed è contro ogni tipo di violenza!
Vi invitiamo comunque a segnalarci i racconti che pensate non debbano essere pubblicati, sarà nostra premura riesaminare questo racconto.
Votazione dei Lettori: 8.0
Ti è piaciuto??? SI NO


Commenti per Il cazzo di Matusalemme:

Altri Racconti Erotici in orge:



Sex Extra


® Annunci69.it è un marchio registrato. Tutti i diritti sono riservati e vietate le riproduzioni senza esplicito consenso.

Condizioni del Servizio. | Privacy. | Regolamento della Community | Segnalazioni