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Gay & Bisex

L'avvocato parti 2, 3 e 4


di amangani
04.09.2024    |    5.130    |    6 7.9
"Immagino che lui, o chiunque altro avesse potuto essere testimone di quanto stavo facendo, desse per scontato, con la sbrigativa superficialità delle..."
Premessa: suggerisco di leggere la prima parte per comprendere il senso di questo racconto.
Parte 2
“Baciami i piedi, frocio!”
Mi chinai a farlo, erano di rara bellezza, lunghi, proporzionati, curati. Sapevano di pulito.
“Adesso leccali”
Lo feci con devozione, lentamente.
“Passa la lingua tra le dita”
Feci anche quello. Non era la prima volta, ma era la prima volta che provavo un piacere che mi arrivava alla testa.
“Ora alzati”
Quando mi trovai alla sua altezza, mi parve di vedere un altro uomo, addirittura più bello, una divinità alla quale dovere abnegazione perché fonte di una nuova vita.
Lui piegò la testa per guardarmi meglio, nei suoi occhi c’era una luce strana. Non saprei dire se era uno sguardo dolce o compassionevole, a me sembrò di approvazione.
Credevo di aver superato la prova più difficile e, per questo, gli posai delicatamente una mano sulla spalla. Volevo accarezzarlo, sentire il suo calore per essere rassicurato.
Avevo bisogno di sentire la sua fisicità, tirarlo verso di me in modo che mi potesse guardare negli occhi. Ero sicuro che, se solo fossi riuscito a toccarlo, avrebbe capito, sarebbe tornato a essere lo studente amabile che avevo conosciuto poco prima, invece di questo artefatto duplicato di se stesso.
Invece, il suo corpo si contrasse come se le mie dita fossero i fili scoperti di un cavo dell’alta tensione. Si allontanò d’un balzo, scostandomi il braccio con un manrovescio. Io mi avvicinai nuovamente, poggiandogli una mano sul petto.
“Non mi toccare! “urlò
Gli passai le dita fra la peluria scura che aveva intorno a capezzoli. Mi illudevo che fosse un gioco e che non potesse che gradire le mie attenzioni. In fondo ci conoscevamo da così poco tempo, era solo un modo per prendere confidenza.
Quando sentii il pugno schiantarsi nello stomaco, mi aggrappai al suo braccio con tutt’e due le mani, ma lui si liberò con una scrollata, sbattendomi in terra. Rotolai sulla pancia e rimasi in silenzio, la mia erezione che pulsava a contatto con il tappeto.
A occhi chiusi, immaginai che fosse tutto un sogno, un film. Sentivo il calore dei suoi piedi.
Con un cenno del capo, mi disse: “Alzati!”
Non risposi, e lui urlò di nuovo: “Alzati!” sferrandomi una pedata nel fianco.
Io tenni duro. Volevo sfidarlo, capire fin dove voleva spingersi.
Per due volte la forza del suo piede nudo per poco non mi sollevò da terra.
“Spazzatura” sussurrò.
“Ecco cosa sei: spazzatura.”
Si accovacciò accanto a me e, servendosi di tutt’e due le mani, mi divaricò le gambe. Alzatosi in piedi, mi premette la punta del piede tra le gambe. Prese a spingere con violenza fino a farmi entrare dentro parte delle dita. Erano lunghe e affusolate, provai dolore.
“Che ti avevo detto? Sei nato per servire un maschio come me. Lo vedi? sei spiaccicato a terra come un verme.”
Tolse la punta del piede che mi aveva infilato e mi mollò una nuova pedata nello stesso punto. Avrei voluto urlare. Ma non emisi un suono.
“Parlami, stronzetto!” sbraitò.
Mi afferrò i capelli con forza. Mio malgrado mi lasciai sfuggire un gemito.
Sentii Giorgio che si allontanava da me per sedersi sul divano.
Per un po’ rimasi a terra in silenzio.
Mi alzai e a quattro zampe e lo raggiunsi, mettendomi a capo chino davanti a lui. Con il pollice e l’indice fece una leggera pressione sul mio mento sollevandolo.
“Guardami negli occhi, frocio di merda”
Dischiuse appena la bocca fissando il mio corpo nudo.
Poi si alzò dal divano. Chiusi gli occhi. Dovette prenderlo come un nuovo affronto, perché prese a schiaffeggiarmi in piena faccia. Dopo il primo colpo, gli altri seguirono a raffica.
Poi una ginocchiata sulla spalla; fu lieve ma io mi accasciai su un fianco, franando sul tappeto.
Avevo la mente che vagava quando sentii che mi poggiava la sua carne calda contro la schiena e mi saliva sopra, allargandomi le gambe con le ginocchia. Mi infilzò, con furia, ripetutamente.
Quando sentii che mi aveva inondato le viscere, fui svegliato dal suono del mio cellulare.
“Rispondi” mi disse ancora accasciato sopra di me.
Era una delle mie segretarie per avvisarmi che aveva tardato e sarebbe arrivata dopo dieci minuti.
Parte 3
Da quel giorno, mi incontrai altre sette volte con Giorgio.
Le giornate si succedevano, le ore si muovevano più lentamente adesso, poiché appesantite dalla violenza del conflitto tra il desiderio di stare ai suoi piedi e il desiderio di essere di nuovo libero.
Giorgio con me sapeva essere molto duro nei modi, di rado nei gesti. Di certo sapeva bilanciare l’umiliazione con l’approvazione che io scambiavo per affetto. Quanto ai soldi, si trattava somme di denaro per me di scarso valore, sufficienti al più a pagarsi una cena, forse due.
Quando stavo con lui, mi dicevo: “dovrei andarmene via. Ma non voglio. Voglio stare qui insieme a lui. È l’unico posto al mondo in cui voglio stare.”
Poi, quando se ne andava, mi chiedevo dove era il mio orgoglio e, sempre, mi rispondevo che non avevo nessun orgoglio, perché l’orgoglio è legato a vergogna e onore, e io ero spudorato e mi mancava il concetto di tutto ciò che altri considerano onorevole.
Era sempre lui a cercarmi. Quando non lo faceva mi mancava, molto, ma non potevo pretendere da lui niente che mitigasse il mio malessere.
Ero felice quando riuscivo a resistere a tutte le volte in cui avrei voluto chiamarlo per chiedergli di vederci. L’autocontrollo era quella cosa di cui quasi mai ci si deve pentire: era questo che mi ripetevo come un mantra.
Invece, il ricordo eccitante delle pratiche alle quali mi sottometteva, delle umiliazioni, erano quelle cose cui quasi sempre desideravo di non aver ceduto. Il difficile era sapere quando mi trovavo nel divario fra “quasi mai” e “quasi sempre”, quando il desiderio di lasciarsi andare era legittimo e dava il risultato più vantaggioso.
Da sempre ero considerato quello intelligente, quello sportivo, quello popolare. In genere piacevo.
Se voglio una cosa spesso la ottengo; senza impormi, ma con persuasione. Mi dicevano che piaceva la sicurezza che trapelava dal mio comportamento: mai ostentata tuttavia, piuttosto esibita con naturalezza.
Sono stato infelice una sola volta nella mia vita, da bambino. Gli anni trascorsi da allora non sono riusciti a medicare un dolore che è rimasto là, intatto, come una ferita segreta, sanguinante in segreto. Guarirne? Liberarmene? Ormai so bene che non è possibile. Se adesso ne scrivo, dunque, è soltanto nella speranza di capire se quella è stata la causa della mia sottomissione a Giorgio.
E poi, quando lo conobbi mi sentivo stanco di tutto: stanco delle buone maniere, delle circostanze, delle menzogne e delle paure, e di me stesso. Non ne potevo più.
Avevo incontrato altri uomini dominanti. Funzionava. Erano sempre solo storie di pochi incontri, due o tre al massimo che finivano quando sentivo che mi stavo lasciando coinvolgere, o quando sentivo che l’altro rischiava di arrivare a conoscermi troppo bene. Ero sempre stato abbastanza cauto da non lasciarmi andare troppo, di modo che, quando scappavo, non mi sarebbero mancati.
L’ironia era che il mio distacco sembrava destare l’interesse di quegli uomini.
Poi ho conosciuto Giorgio.
Con lui vivevo uno sdoppiamento che mi consentiva di vivere due realtà parallele e perfettamente allineate: in una c’era il professionista, il marito, il padre e l’amico di sempre. Nell’altra c’era una parte di me che voleva essere usata da lui.
Quando eravamo insieme, lo percepivo come un ragazzo potente e dominante, ma in realtà quando non c’era, mi era chiaro che fosse un ragazzo fragile, quanto lo ero io, del resto. Quella che avvertivo come freddezza e che sembrava padronanza di sé, era in realtà un’ incapacità di sentirsi infelice o tormentato.
La verità è che, esercitando un senso di controllo sulla mia sofferenza, la trasformavo in una fonte di potere su di lui, rendendolo dipendente dalla mia sottomissione e dai miei soldi.
E poi, vivevo i nostri incontri come episodi isolati, e non potevo togliermi di dosso la sensazione che quella situazione fosse revocabile.
Immagino che lui, o chiunque altro avesse potuto essere testimone di quanto stavo facendo, desse per scontato, con la sbrigativa superficialità delle persone convinte che la realtà è solo quella che si para davanti ai nostri occhi, che io fossi vittima di una patologia, di quelle che annullano la volontà.
In realtà, non è cosa ti capita quello che ti definisce, ma come reagisci, anche se impieghi del tempo.
A volte ostinarsi a voler cambiare in fretta è inutile. Immaginarsi architetti della propria traiettoria può essere un’illusione. Meglio lasciare che gli eventi raggiungano una naturale conclusione.
Parte 4
Un giorno mi chiese di andare da lui a mezzanotte. Era la prima volta che ci vedevamo la sera così tardi.
Non sapevo cosa immaginarmi da un incontro così anomalo, ma la cosa mi eccitò moltissimo. Dovevo solo inventarmi una scusa con mia moglie per giustificare la mia assenza in un’ora tarda. Decisi di dirle che sarei stato fuori per lavoro fino al giorno dopo.
Suonai alla porta di Giorgio con il cuore che mi balzava in petto al pensiero di ciò che sarebbe successo se mia moglie avesse scoperto che le avevo mentito.
Quando fui dentro, Giorgio rimase in silenzio, studiando attentamente il mio aspetto: venivo dallo studio e indossavo ancora l’abito formale, mi ero solo tolto la cravatta.
Mi accorsi subito che era pallido, come se non avesse dormito per giorni. Stranamente, la spossatezza sembrava avergli tolto dal viso uno strato della consueta indifferenza.
“E’ da un po' che non ti sento. Tutto bene?”, gli chiesi.
“Ho avuto da fare.”
D’un tratto, l’emozione di trovarmi da solo in quella stanza con lui sembrava cancellare tutto il resto. Che importava se qualcuno mi avesse scoperto? Questo – questa cosa tra noi – aveva a che fare con ciò che volevamo entrambi. In che tipo di persone ci trasformasse il desiderio, era irrilevante. Almeno in quel momento.
“Oggi dovrai farmi da sguattera, solo quello; trovi l’occorrente nello stanzino: fai un buon lavoro, fallo per me.” Aveva un’espressione un po’ titubante e scrutatrice. Mi strinse tra le dita il mento. Con il pollice mi sfiorò appena il labbro.
“A proposito, resta vestito, puoi toglierti solo la giacca.”
Stavo per dire che non lo avevo mai fatto, che non ero in grado, ma un attimo prima di aprire bocca,
annuii, guardandolo da sotto in su, con gli occhi pieni di tenerezza.
Sapevo che Giorgio trovava un che di eccitante nei miei modi sottomessi: quel mio apparire così indifeso, vulnerabile, come nemmeno la più timida delle donne. Ma, tanta debolezza era, a suo modo, una provocazione. In fondo la mia sfida richiedeva la mia accondiscendenza, senza mai deluderlo.
Trascorsi l’ora successiva a pulire e rassettare. Avevo da poco terminato, quando mi fece:
“Be’, adesso voglio dormire. È ora che tu te ne vada.”
“Ti scoccia se… cioè, se non vuoi fa lo stesso, ma insomma ti spiacerebbe se io… mi fermassi a dormire?”
“E dove? sul divano?”
“Ok, fece io, gli occhi lucidi di paura e desiderio. Se è questo che vuoi…”
“Che cazzo! Insomma, va bene!” sbottò Giorgio. “Va’ in stanza. Comincia a spogliarti. Io arrivo tra un minuto. Sentii il cuore che mi martellava il petto.
Avevo appena rifatto il letto, solo ripiegai la coperta di cotone ai piedi del materasso. Mi domandai se fosse il caso di accendere la luce ma decisi che era meglio di no, la luce del bagno era sufficiente. Ripiegai i pantaloni e la camicia e li sistemai accanto alle scarpe e alla cintura in un angolo del pavimento.
Rimasi ad aspettare in mutande, pensando terrorizzato a che tipo di persona potevo essere se desideravo questo. Attesi dieci minuti, Giorgio era di là a parlare al telefono.
Fermo a occhi chiusi, sforzandomi di dimenticare tutto – la mia vita e il mondo fuori da quella casa – capii che nulla avrebbe potuto liberarmi da me stesso più di quanto stava per accadere. Sentirmi schiacciare sul materasso dal peso di Giorgio, mentre gli ultimi resti di me sprofondavano nell’oblio. Lasciarmi invadere e usare e poi mandare via. Un corpo forte come quello di Giorgio poteva farmi questo.
Alla fine la telefonata di Giorgio terminò e qualche istante dopo entrò in camera da letto. Si avvicinò alla finestra e si appoggiò al davanzale.
“Le mutande non te la togli?”, domandò.
Me le tolsi mentre la gola mi si stringeva.
Gettando via le scarpe e sbottonandosi la camicia, lui si avvicinò al letto. Mi afferrò all’altezza del torace e mi girò a pancia in giù. Poi sentii le sue ginocchia premere contro l’interno delle mie per farmi divaricare le gambe.
“Vieni qui. Mettiti in ginocchio.”
Le mani di Giorgio mi afferrarono alla vita, tirandomi indietro. Mi voltai per guardarlo ma mi disse di chiudere gli occhi. Sentii un calore contro le natiche e poi un improvviso, pungente anello di dolore che mi fece pulsare il sangue alle tempie, lasciandomi senza fiato. Un dolore troppo veloce per voler dire basta.
Sentii il bacino di Giorgio appiattirsi contro di me e i muscoli della sua schiena rilassarsi. Sembrava che si fosse lasciato andare, invece spinse ripetutamente ancora e ancora.
Io puntellandomi sugli avambracci, la fronte contro il materasso, mi trattenni ancora per qualche secondo e poi venni senza toccarmi, la testa che rimbalzava violentemente indietro, le spalle contratte verso il centro della schiena.
Allora Giorgio uscì da me e si distese supino sul letto.
Anche io mi rotolai in posizione supina e lo guardai accarezzandogli la mano.
“Che stai facendo?”
“Non riesco mai a guardarti”, risposi.
Quel che volevo, e che mi lasciò fare, era appoggiare la testa sulla sua pancia e prenderglielo in bocca. Lui, mi prese la testa tra le mani e ne guidò i movimenti.
Dopo qualche minuto afferrò il retro delle mie ginocchia e premette il petto contro le mie gambe, schiacciandolo e aprendolo. Io ero meravigliato dall’insaziabilità del suo desiderio.
Mi penetrò di nuovo con una sola spinta. Sussultai, gli occhi pieni di lacrime, ma Giorgio non si fermava. Spingeva e mi prendeva con forza, come se servisse a fottere la mia e la sua debolezza, prenderle a pugni.
Anche se ero sul punto di piangere, tenevo gli occhi aperti e lo guardavo fisso. Giorgio allungò una mano per coprirmi gli occhi, ma io la spostai e continuai a fissarlo.
Era intollerabile per lui. Spinse più forte, mi fece uscire tutta l’aria dai polmoni, presi a boccheggiare. E ancora non smettevo di guardarlo. Mentre incombeva su di me, io sentii un’ondata di nausea attraversarmi tutto il corpo. Per un istante ho desiderato che i miei occhi fossero le canne di due pistole spianate su di lui per accopparlo seduta stante.
Ma il tempo continuava a scorrere, Giorgio sudava; infine, si scaricò dentro di me e uscì fuori.
Fu allora che mi alzai di scatto e corsi velocemente in bagno, chiudendomi la porta alle spalle.
“Tutto bene?”, chiese Giorgio dopo qualche istante.
“Sì”, risposi reggendomi alle pareti piastrellate della doccia, mentre l’acqua bollente mi rovesciava addosso il terrore della scoperta e una vergogna irriducibile.
Fui attraversato da un tremore, quasi una convulsione. Chiusi gli occhi, mi sedetti sui talloni e aspettai che passasse.
Tra un attimo mi sarei alzato e avrei spinto indietro le spalle e respirato ed espirato e finto che quanto era accaduto con Giorgio non avesse importanza. Avrei eretto la facciata necessaria e nessuno sarebbe stato in grado di capire. Sapevo come farlo. L’avevo già fatto in precedenza.
All’improvviso con una forza dirompente fui colpito dalla comprensione di quanto io fossi stato stupido. È incredibile come la mente si rifiuti di incamerare una cosa, se non è pronta.
Avevo voluto disperatamente che Giorgio avesse bisogno di me, della mia sottomissione, al punto che mi ero dimenticato di difendermi da questa mia ossessione per lui.
Adesso la sfida era finita.
Uscii da quella casa e mi chiusi la porta alle spalle senza voltarmi, senza dire nulla. Chi respinge non ha mai bisogno di parlare.
Parlare non avrebbe avuto lo scopo di fare chiarezza, ma di convincere e persuadere. E io non volevo. Non avevo niente di cui parlare. Chi lascia ha finito.
Poi mi infilai in macchina. Mi venne un respiro inerte, quasi un ripensamento prima d'infilare la chiave, e come se niente fosse, accendere. Come se il tempo non fosse stato.
Avrei chiesto aiuto. Avrei chiesto perdono. Avrei fatto tutto quello che c’era da fare.
Quando entrai nella stanza di albergo che avevo prenotato, feci una doccia che durò un tempo indefinito.
Erano trascorsi due mesi da che incontrai Giorgio in quel bar. Aveva mangiato tre panini e bevuto altrettante birre. Indossava una giacca a vento nera. Era affabile.
L’indomani sarebbero state otto settimane esatte di un’illusione incomprensibile: un’illusione crudele che mi aveva legato e intrappolato e che poteva essere uccisa solo con la brutalità dell’evidenza.
Non rimaneva più nulla da capire.
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Votazione dei Lettori: 7.9
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