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Il vizio, l’amore e la violenza
di Zoroaster
22.12.2024 |
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"Queste riflessioni freudiane anticipano in qualche modo l’ambiguità che nella pellicola contraddistingue gli artefici dei delitti, la loro interscambiabilità,..."
Lo strano vizio della signora Wardh (1971) costituisce uno snodo cruciale per svariati motivi: è una pietra angolare dell’Italian Giallo; è la prima incursione di Sergio Martino negli oscuri meandri di questo genere; è una pellicola originale e al contempo piena di citazioni, rimandi, anticipazioni, in grado sia di proporre canoni estetici assolutamente innovativi, sia di inserire omaggi di sorta inerenti anche ad ambiti artistici extra-cinematografici. A dare ragione di tale percorso ci pensa la citazione (o se vogliamo il monito, il warning, trattandosi di un thriller) collocata a inizio pellicola, prelevata da Freud: «Il fatto stesso che il comandamento ci dica “Non ammazzare” ci rende consapevoli e certi che noi discendiamo da una interrotta catena di generazioni di assassini, il cui amore per uccidere era nel loro sangue come forse è anche nel nostro». Uccidere: trattasi di una vera e propria “tara ereditaria”, dunque, di una predestinazione genetica da assecondare o da esorcizzare. Queste riflessioni freudiane anticipano in qualche modo l’ambiguità che nella pellicola contraddistingue gli artefici dei delitti, la loro interscambiabilità, l’impossibilità di identificarli per via del modus operandi di ciascuno di loro, unico anche se sempre efferato.Approcciamo dunque il plot cogliendo le tante suggestioni che propone, non tanto con intento freddamente filologico, ma cercando di rivivere le sensazioni di una ipotetica prima visione assoluta, così come le sinestesie vorticose e caleidoscopiche che questa suggerisce. Il soggetto dello spagnolo Eduardo Manzanos Brochero (sviluppato in fase di sceneggiatura con Ernesto Gastaldi e Vittorio Caronia) prevede che Julie Wardh (una magniloquente Edwige Fenech) e marito, il diplomatico affarista Neil (Alberto de Mendoza), giungano in volo da New York a Vienna per motivi legati al di lui lavoro. Già dalle prime schermaglie si evince che il loro rapporto è ormai logoro («Non sono una moglie noiosa» sbotta lei). Appena i due approdano su suolo austriaco le cronache riferiscono di donne uccise a rasoiate, cosa che suscita in Julie una prima epifania: il flashback ha luogo sotto una pioggia torrenziale, mentre un sadico figuro biondocrinito dal ghigno satanico la schiaffeggia, poi la bacia e la denuda in ralenti.
Parlavamo di un film ispirato e ispiratore, dai plurimi rimandi a plurimi ambiti: in tema musicale citiamo allora, sia a livello concettuale che estetico, i Baustelle del recente L’amore e la violenza, album candidamente osceno (il film del resto non risparmia nudi e scene di sesso) e pop che ricorda il film a livello di stilizzazione della violenza e resa del décor d’interni, mix tra optical, liberty, barocchismi che risultano kitsch solo se visti con le iridi troppo smaliziate di oggi. Restando in argomento, lo score di Lo strano vizio della signora Wardh è affidato a Nora Orlandi, che punteggia con maestria e melodie memorabili ogni singola sfumatura – dai toni mélo e suadenti a quelli più concitati – fino a una reinterpretazione del Dies Irae mozartiano.
Cogliamo anche il mood del milieu che fu: ci basta un nonnulla per associare la silhouette demoniaca a Ivan Rassimov, che interpreta Jean, detonatore del vizio e delle pulsioni represse, memento peccati tui, latore di mazzi di rose rosse ed epitaffi di tal fatta: « La parte peggiore di te è la cosa migliore che hai e sarà sempre mia».
Martino ci presenta anche un’altra figura maschile, prestante quanto Jean, ma più mondana, da bon vivant, da latin lover: George (George Hilton), che fa il suo ingresso in scena con un cinico brindisi alla recente dipartita di uno zio dal quale riceverà un’eredità cospicua, anche se da dividere con la bionda e disinibita cuginetta Carol (Cristina Airoldi), stretta amica di Julie.
Martino riesce a bilanciare i vari toni dell’opera alternando i registri. È il caso di una scena che si potrebbe definire sleazy e appunto pop, quando a un party un paio di astanti appurano la consistenza dei tessuti dei propri abiti strappandosi i vestiti di dosso e inaugurando un giocoso momento di lotta. A questo segue il greve monito di Rassimov che, come di rimando, in forma di visione/incubo replica idealmente al brindisi di George sentenziando: «Niente unisce di più di un vizio in comune». Ma Fenech prontamente ribatte che «a lui piace far del male agli altri», trovando conferma alle sue parole in una sequenza tra le più potenti dell’opera, quando Jean cosparge la signora Wardh di alcolici (come in un rinnovato battesimo nel peccato), spacca la bottiglia i cui frammenti ricadono addosso alla donna (in una chiara allusione sessuale) e infine, col collo rotto, le graffia il seno, per poi palpeggiarla e dominarla (ma la brutalità dell’intento ha una resa sensuale e sinuosa) tra schegge e lenzuola nere, rituali e funeree. Il discrimine tra sfera onirica e realtà contingente è anche segnato da varianti cromatiche: al risveglio i drappi neri sono vermigli, traboccanti di passione ma anche presaghi del sangue a venire, evocato da un giubbino in pelle nera, da una lama lucente, da una gola recisa, da piastrelle imbrattate del fluido vitale, in un connubio tra l’evidente rimando a Hitchcock e la rampante componente di giallo all’italiana che squarcia letteralmente la tensione, l’attesa, il pathos con sequenze di immagini che sono il corrispettivo dell’arma del delitto, come stilettate sulla cornea o lame che penetrano nell’encefalo.
Anche per quanto riguarda i dialoghi, Martino riesce a tratteggiare con poche asserzioni i singoli personaggi, disponendoli a scacchiera anche nel look: due mori (Fenech e Hilton) e due biondi (Rassimov e Airoldi, sebbene ossigenati). Carol, la cuginetta audace e forse un po’ superficiale, considera che «dovremmo essere grate a questo maniaco, ci elimina la concorrenza»; poi, riferendosi a George e cogliendo i tentennamenti di Julie, sentenzia: «Io, cugino o no, me lo farei»; esortando l’amica al tradimento: «Non puoi pretendere tutto da un solo uomo». Ma la Fenech è alla ricerca di un escapismo più concettuale, interiore, intimo. Infatti afferma: «Forse è da me stessa che dovrei fuggire» mentre, per il momento, il flirt con l’intraprendente George prevede sguardi intensi e ammiccanti, una mela (noto frutto peccaminoso) al ristorante con una G intagliata e lui che provoca dicendo: «Cosa vuol dire, che mi vuole mangiare?», lei che ribatte: «No, che l’ho già mangiata» e lui che chiosa con: «Vedrà che sono indigesto».
George promette a Julie quello che poi il cinema giallo di Martino mantiene, ovvero «ebbrezza, paura e grandi tuffi al cuore», come suggerisce il consueto avvertimento accompagnato dall’omaggio floreale che cita in anticipo, un altro tassello del cinema del Nostro, il film dell’anno successivo: «Ora so che cerchi di sfuggirmi… ma il tuo vizio è una stanza chiusa dal di dentro e solo io ne ho la chiave».
Se un topos sinora inespresso in questa pellicola è quello del ricatto, ecco che l’omicida con voce contraffatta chiede al telefono 20.000 scellini, pena la divulgazione di foto compromettenti che ritraggono Mrs. Wardh e George in vena di amplessi, ripresi in una sequenza dall’alto a mo’ di specchio riflettente che ci mostra da tergo le grazie della Fenech. Carol si prodiga per recarsi al Palmenhaus (la serra delle palme) al posto dell’amica, convinta si tratti di uno scherzo ordito da quello psicotico di Jean; risulta efficacissimo in tale frangente il montaggio parallelo, nel quale la bruna guarda con ansia una gara di moto in tv e la bionda attende su una panchina, circondata da labirintici viali alberati, fino a quando, all’orario di chiusura, decide di incamminarsi verso l’uscita. Martino passa allora alla soggettiva, per poi staccare su un guanto nero che, sappiamo, significa: fine dei giochi. E così sia: il fruscio delle foglie e lo scalpiccio dei passi sono le spie diegetiche della paura e dell’angoscia di Carol, preda inconsapevole e vittima sacrificale (forse martire offertasi in sacrificio per mondare i propri pensieri dalla lussuria, assecondando una distorsione religiosa) delle stilettate del killer, che infieriscono dapprima sulle sue mani messe a protezione, poi sul viso e sul collo, fino all’epilogo della mattanza incorniciato in un grandangolo straniante.
Nell’ennesimo rimando simbolico apprendiamo che Jean colleziona rettili, espliciti emblemi di ambiguità e doppiezza. L’uomo stesso dichiara il proprio status di maudit: «L’unica cosa che non sopporto è l’indifferenza. L’odio è un bel sentimento: violento, rovente, come e più dell’amore». Nel mentre Julie è tormentata dai dubbi sentimentali e da un generale male di vivere, dal quale è costretta a ridestarsi nel bel mezzo di un parcheggio mai così buio, quando viene abbagliata da fari che sono in realtà occhi di bue sul palcoscenico della sua fine terrena. Il pericolo si moltiplica su più fronti: dal basso del suddetto posteggio alla “terra di mezzo” dell’ascensore, fino ai piani alti delle rampe di scale. Le rose rosse per Julie recano un altro monito, stavolta di stampo biblico: «Per aver voluto sapere troppo, Adamo ed Eva perdettero il Paradiso».
A proposito di Rassimov annegato nella vasca da bagno, il più citato (e a buon ragione) riferimento pittorico è sempre stato La morte di Marat di Jacques-Louis David, ma si potrebbe azzardare anche un paragone con l’Ophelia di John Everett Millais, mascolina e demoniaca, o ancora qualcosa sullo stesso tema firmato dal fotografo David LaChapelle, osceno e pop al contempo, ancora una volta. Il romanticismo inquieto di Johann Heinrich Füssli può venire in mente, invece, nel caso degli incubi/succubi ghignanti e gocciolanti sangue di Jean e Carol, mentre Julie, in fase di “spostamenti progressivi del piacere”, transita dalla disperazione al godimento accondiscendente.
La caleidoscopica girandola di colori e sospettati pare trovare il proprio apice nel twist, con il volto dell’omicida (Bruno Corazzari, peraltro) che, mentre l’uomo miete l’ennesima vittima, viene rivelato allo spettatore. E poi cos’è questa goffaggine? Viene addirittura fatto fuori, passando da predatore a preda…
Nei continui capovolgimenti di mood, cromatici e di location, ci vuole un attimo di tempo per passare dal rosso degli interni domestici e dell’emoglobina all’azzurro limpido dei fondali marini della Spagna, dove George e Julie (che intanto ha definitivamente lasciato il consorte) provano a ricominciare insieme, adesso che è tutto finito. Ma ubiqua è la minaccia (come condizione esistenziale, come categoria dello spirito), prima ancora del soggetto fisico che la arreca. Difatti giungono altre rose, accompagnate da parole inquietanti: «Visto che i vivi non portano fiori ai morti, i morti li portano ai vivi». Ricomincia perciò lo stato d’assedio, musicato da un ritmo tambureggiante e da una nenia nasale spagnoleggiante.
Julie è sull’orlo del delirio e la macchina da presa le gira intorno: se per lo spettatore esperto la goccia che cade rimanda a Mario Bava, alla Fenech ricorda la sagoma inane di Jean mentre dietro un tendaggio, in una pozza di presunto sangue color ruggine, la donna scorge delle scarpe senza un corpo che le indossi. George va a cercare un medico (Manuel Gil, come Maurice Gillas Pou), al quale confida a proposito della partner: «Il sangue ha uno strano effetto su di lei, come di attrazione e ribrezzo insieme». La trovata geniale del cubetto di ghiaccio che, nello sciogliersi, fa richiudere la porta dall’interno sarà omaggiata qualche tempo dopo tra le pagine di «Diabolik». Se finora gli omicidi erano stati perlopiù istintivi e immediati, l’ultimo viene predisposto con accortezza maniacale: c’è del metodo in questa follia. La soundtrack si riduce alla sola pulsazione cardiaca del soggetto in limine mortis; c’è ancora tempo per un altro rimando, al passato western del regista, nel pre-finale assolato. Prima che marito e amante siano uniti nel ricordo, prima che la morte non separi anche loro. Mio caro assassino, uno e trino.
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