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Sirio, Luchino ed altro


di Superperv
01.03.2024    |    2.468    |    1 7.8
"E così gli dissi che per me era la medicina sbagliata a qualcosa che non andava nel fondo della mia anima, mi dava un rush di pochi secondi di piacere, ..."
Luchino lo vidi che cercava di evitarmi, sapevo che aveva due motivi, entrambi forti: la vergogna, ovviamente sapeva che fra me ed Ale non ci sono segreti, o meglio ci sono, ma nessuno li sa, e poi lui evita chi usa roba, la teme come la peste.
E c’è da capirlo, l’eroina gli ha tolto il padre, morto in strada, da solo, senza nessuno, dopo essere stato dimesso ore prima dal pronto soccorso, e la madre ormai è in fase di AIDS conclamato, ne avrà per poco e sarà difficile per lui che resterà col fratello maggiore.
Eppure uno che lo guardasse oggi cosa vedrebbe? Me lo domando e mi rispondo che vedrebbe un gran bel ragazzino dall’aria davvero acerba, coi capelli biondi spettinati alla moda, ed un cane bianco e grigio con un occhio marrone e l’altro azzurro, come azzurri sono gli occhi di Luchino.
Niente, neanche i vestiti, come sempre puliti e decorosi, anzi la polo è di marca, può dare l’idea di cosa si a la vita di Luchino.
Dopo quel che mi aveva detto Leonardo, decido di parlargli, e mi resi conto in quell’istante che io, Sirio, quello che si fa e che a 15 anni già si prostituisce, non volevo solo proteggere Ale, volevo aiutare anche Luchino, che mi faceva una pena immensa.
Mentre gli andavo incontro, però, mi resi conto che tutta questa bontà verso gli altri stava essendo proiettiva, era un modo per nascondere la mia assenza di bontà verso me stesso.
Gli sorrisi, e di slancio gli dissi che Ale aveva raccontato solo a me ed io non avrei raccontato a nessuno, poi, col medesimo slancio, gli dissi che io facevo di peggio, e che mi ero pure fatto scopare da uno che mi aveva stuprato, tutto per due buste di merda.
Ecco, gli avevo raccontato quello che era un segreto che non sapeva neanche Ale.
Insomma mi rivelavo perdente peggio di lui. Luchino mi sorrise, e mi strinse la mano, camminammo nel parco mano nella mano per circa dieci minuti, in silenzio.
Poi lui mi fece la domanda che più temevo. Ricordo che si fermò vicino al salice, la pianta più bella del parchetto, slacciò le dita dalle mie dita e mi domando, dal nulla. “Sirio, che effetto fa la roba? Perché la usate?”
Potevo dare la solita risposta di rito, quella a cui nessuno crede, cioè che è merda eccetera. Ma sapevo che quella è la risposta che va bene per le assistenti sociali; chi ha visto quanto ci si distrugga intuisce che per accettare quello che accettiamo vuol dire che l’eroina da qualcosa di cui noi tossici abbiamo immenso bisogno.
E così gli dissi che per me era la medicina sbagliata a qualcosa che non andava nel fondo della mia anima, mi dava un rush di pochi secondi di piacere, un’accelerazione del piacere che in pochi minuti spariva e poi, finiti quegli istanti, la roba rallentava i miei pensieri troppo veloci, mi toglieva le lame che io stesso mi ficcavo nel cuore, e mi anestetizzava ogni sentimento, da fatto non amavo, non soffrivo, ma neanche potevo sentirmi amato.
E poi restavano il sapore amaro, la lingua anestetizzata e fredda, il senso di nausea, come se avessi bevuto una boccia di gin tutta di un fiato. E una spossatezza sonnolenta in cui diventavo una sorta di bambola di pezza, in quei momenti davvero potevo subire di tutto, o fare di tutto.
Il resto lo sapeva bene anche lui, cioè che il prezzo di quegli effetti era tremendo, e che io stavo iniziando a pagarlo, ma era ben maggiore di quello che stavo accettando io.
Mi sorrise, mi abbracciò e mi sussurrò che se, era così, allora non faceva per lui, lui non aveva il meccanismo rotto all’origine, come me, o sua madre.
Eravamo due naufraghi che si aiutano l’uno con l’altro, ma senza salvagente possono solo affogare, ciascuno nel suo mulinello d’acqua.
Mi invitò a salire da lui, abbassò gli occhi e aggiunse, mamma sta troppo da sola.
Salii a casa sua, si capiva che sua mamma cercava di mantenere una parvenza di decoro e che Luchino ed il fratello maggiore le davano una mano in questa battaglia in cui cercavano di dare una sorta di adeguatezza all'aspettativa sociale, le tendine pulite e col ricamino servivano a nascondere l’assoluta miseria dietro l'imperativo di sottomessa accettazione del modello diffuso.
Provai ancor più tristezza, perché pensai a casa mia, e a quanto sarebbe stato meglio urlarli a piena voce la miseria ed il degrado, farli vedere e accettare di non giocare secondo le stesse regole degli altri. Poi guardai la mia tuta Adidas grigia e le mie scarpe Nike, e mi resi conto che anche io facevo lo stesso errore.
Il mondo ci costringeva ad essere parte dello schema, non c’era posto per essere "Miserabili”, la società del consumo non poteva ammettere che esistessero soggetti così miseri da essere fuori casta, e così, da Paria intoccabili, a cui non veniva richiesto di far parte del gioco, a noi marginali era stato imposto di diventare decorosi poveri, di far finta di essere, quantomeno, proletari.
Fu un attimo, un pensiero veloce, una analisi di me stesso durata secondi, mentre stringevo la mano debole di Marianna, la mamma di Luchino, che si complimentava per quanto fossi alto e bello e si offriva di fare un caffè, come avrebbe fatto la vedova di un geometra del catasto.
Accettai il caffè e conobbi Assalonne, il figlio maggiore, chiamato così in onore di un romanzo americano. Tutti lo chiamavano Asso, e non avevo mai saputo il suo vero nome prima di quel giorno, era troppo più grande di noi per frequentarci.
Asso era quel che si dice un bel ragazzo, muscoloso, ormai 28enne, da poco uscito dal carcere dove si era fatto quattro anni filati.
A differenza del fratello era moro di capelli, e aveva ereditato dalla madre, e chissà, forse dal padre ignoto, gli occhi verdi, era simpatico e arrogante
Non so neanche io perché, ma chiesi a Marianna se lo aveva ancora il libro che aveva portato a scegliere un nome così strano. Lo aveva, me lo prestò, e questo cambiò,in parte, il corso di molti eventi.
Di Asso sapevo che in galera aveva avuto in cella un tipo che girava per il centro, tutti lo chiamavano Bombo, e a quanto si diceva Asso ne aveva fatto la puttana sua e della cella.
Il Bombo pareva fatto per quel ruolo. In primis perché aveva nomea di infame, e poi perché strutturalmente codardo.
Era uno che era finito in mezzo a un mondo che non era suo. Bombo era figlio di un piccolo imprenditore della zona, che dopo averne combinate troppe si vide revocare gli aiuti paterni e finì col rubare e poi in galera per piccolo spaccio.
Al tempo Bombo aveva 19 anni, era carino, tutto sommato. Capelli rossi, portati a coprire il collo e oltre, occhi verdi, magro impicco, era tipo 190 cm e pesava meno di 70 kilogrammi.
Si diceva che dopo due giorni Asso lo avesse incantonato, menato, e forzato a fargli un pompino davanti agli altri della cella, e che poi a notte, lo avesse impalmato sul suo bel cazzo, spianandogli così la carriera, perché quella notte, subito dopo Asso, ci pensarono anche gli altri 4 con cui il Bombo condivise la galera per due annetti.
Uscito dal gabbio il Bombo ormai aveva fama di sottone e soprattutto aveva capito che poteva ottenere qualcosa usando il suo aspetto e l’esperienza ormai perfettamente acquisita e, ormai ventunenne, ma con l’aria e i modi da ragazzino il culo lo dava che era un piacere.
Tre giorni prima lo avevo visto in Fabbrica, cioè alla fabbrica dismessa dove alcuni andavano a dormire, altri solo a farsi e altri a spacciare.
Li aveva piatito una dose a credito da Richard, uno spacciatore nigeriano che deve essere ultraquarantenne, ma potrebbe averne di più, o di meno, capelli rasati a pelle, fisico possente, muscoli e niente grasso, come molti africani, che non fosse giovane lo si intuiva dal viso che aveva qualche segno del tempo.
Richard gli rispose picche, a meno che non gli desse subito il culo .
Detto fatto, senza vergogna e davanti a tutti Bombo si calò i pantaloni e si mise a novanta appoggiato a un muretto.
E Richard, tirò fuori il suo arnese di tagliaXXL e glielo ficco dentro, in un colpo, senza nessuna difficoltà, tanto il culo di Bombo era comodo e aperto come una fregna.
Se lo montò a fondo, bei colpi secchi che facevano sussultare il Bombo il cui cazzo floscio dondolava fra le gambe, contornato dai peli pubici rossi come le sue chiome.
Si capiva che era rimasto etero, e che prenderlo nel culo per lui era un lavoro, mica un’arte o qualcosa che comunque gli andava bene di fare.
Però lo prendeva bene, dandosi da fare sculettando, aprendo e chiudendo a ritmo.
Faceva un certo effetto vedere un nero enorme sopra Bombo con la pelle pallidissima e i capelli rossi che gli ricadevano davanti e ai lati coprendo il viso.
Gli venne dentro e Bombo rimase li, piegato a 90 per qualche attimo, con la busta in mano e il culo esposto e ancora aperto.
Poi si ricompose e andò a farsi, assieme alla Eli, una tipa che fa paura solo a guardarla, e che ha fama di cattiva picchiatrice, forse lesbica, forse solo sadica.
Da qualche mese fanno coppia fissa, fra lo stupore di tutti perché lui è carino, e ha il suo perché, mentre lei oltre che ben più vecchia è pure spaventosamente brutta, fra denti che mancano, viso sciupato, lineamenti quasi maschili e fisico da lottatore di quelli tarchiati e grossi.
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