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Gay & Bisex

Questo sono io - 3. Nemmeno un briciolo di pietà


di FinnTanner
20.11.2021    |    6.992    |    7 10.0
"Esitai, ma era già troppo tardi per tornare indietro..."
La mattina dopo mi svegliai tardi, sudato e indolenzito. Per fortuna avevo tutto il fine settimana libero. Durante la notte, Marco si era alzato per andare al lavoro ed ero rimasto solo sul divano.

Stiracchiandomi mi resi conto di due cose, la prima era quanto fossi felice, non ricordavo nemmeno quando fossi stato così bene l’ultima volta. La seconda, che puzzavo di sesso e dovevo farmi subito una doccia.

Sotto il getto d’acqua calda ripensai a come era cambiata la mia vita negli ultimi mesi e in particolare nell’ultima settimana. Ero sempre stato un tipo solitario. Non avevo mai avuto molti amici e si era trattato per lo più di rapporti superficiali, spesso di convenienza. In ogni caso, nessuno abbastanza buono con cui essere davvero me stesso.

Invece, proprio nella città che credevo avrei odiato avevo incontrato alcune persone simpatiche e persino la giurisprudenza iniziava a piacermi. Ma ad essere onesti la ragione di tutto era soprattutto lui, Marco. Quasi senza che me ne accorgessi quel ragazzo aveva iniziato ad occupare i miei pensieri. Il suo sorrisetto compiaciuto, i suoi occhi magnetici e i suoi modi scostanti. Era curioso, scherzoso, socievole e tutto questo senza considerare quanto lo desiderassi a livello puramente fisico. Mi stavo eccitando solo a pensarci. Chiusi gli occhi e la sua immagine prese immediatamente forma nella mia mente, i lineamenti decisi, la barba ruvida del giorno prima che mi graffiava la pelle, i muscoli solidi delle braccia e del petto e persino il suo odore mi travolsero.

Ero ancora immerso nelle mie fantasie quando sentii suonare il campanello.

“Cazzo…” Mi strinsi un asciugamano intorno alla vita e saltellai fino al citofono lasciando una scia di impronte bagnate dietro di me.

“Ho una consegna per il signor Valeri.”

Cazzo. “Devo firmare qualcosa?”

“Si.”

Cazzo. Cazzo. Cazzo. “Perfetto, sesto piano interno 18, grazie.” Guadagnai un po’ di tempo.

A pensarci bene, non avevo ordinato nulla. In ogni caso però dovevo vestirmi, probabilmente il corriere non sarebbe stato contento di vedermi nudo. Raccolsi a caso un paio di vecchi pantaloni della tuta e una felpa dall’armadio e mi strofinai velocemente i capelli con l’asciugamano.

“Una firma qui, per cortesia.” Indicò il ragazzone delle consegne. Poi mi porse un involucro voluminoso. “Questo è suo, buona giornata.” Non era per niente contento.

Era la busta di un negozio, uno di quelli costosi, e la prima persona a cui pensai fu Marco. Non era ancora troppo presto per regali del genere? Mi stavo già emozionando come uno stupido.

Dentro la busta c’era una borsa ventiquattrore in tessuto, pratica e spaziosa, dal taglio elegante e allo stesso tempo moderno. All’improvviso, ricordai che il giorno prima Marco mi aveva visto tenere i libri sottobraccio prima di andare a lezione. Notava sempre tutto, ma il fatto che avesse pensato di farmi un regalo mi colpì. C’era anche un bigliettino nella busta, di quelli bianchi semplici.

L’aveva scritto qualcuno del negozio e sentii il mondo cadermi addosso, con tutto quello che era successo avevo dimenticato il mio compleanno. Mi tremavano le mani mentre facevo a pezzi il biglietto d’auguri. Senza pensarci, infilai velocemente un paio di scarpe da ginnastica e il giaccone e uscii di casa con i capelli ancora umidi. Sul biglietto c’era scritto solo: Buon compleanno… ti voglio bene, papà.


Non so nemmeno perché fossi tanto incazzato. Mio padre aveva fatto solo quello che faceva sempre. Voleva controllare la mia vita, che ripercorressi le sue orme e diventassi una sua copia. Marco, invece, per una volta mi aveva permesso di essere semplicemente me stesso. Ma la sua era solo una recita. Avevo sempre saputo che il suo lavoro era tenermi d’occhio, e ovviamente riferire tutto a mio padre. Più che altro ero arrabbiato con me stesso per essermi illuso. Un tipo come lui non mi avrebbe nemmeno considerato in una situazione normale. Era obbligato a stare con me, e visto che io ero stato così stupido ne aveva approfittato, punto. Mi chiesi se nei suoi resoconti, oltre ai particolari delle mie giornate, avrebbe raccontato a mio padre anche di come gli avevo succhiato il cazzo. Se ero stato bravo o solo un po’ meglio di una sega sotto la doccia.

Vagai per ore. La cosa peggiore era che quella città stava iniziando davvero a piacermi. L’università, i colleghi, persino la casa nuova.

Avevo fatto qualche ricerca prima di trasferirmi, e adesso che ero maggiorenne sarebbe stato difficile anche per mio padre mettere tutto a tacere un'altra volta. Quando alla fine mi decisi, trovare il posto non fu un problema.

Gli imponenti palazzi del centro avevano lasciato spazio da un po’ a un quartiere in stato di degrado. Molti negozi erano sfitti e incrociavo sempre meno persone sulla mia strada. Anche il parco giochi era pieno di erbacce, era rimasto in piedi giusto un dondolo arrugginito e non c’era nemmeno l’ombra di un bambino a giocarci. Solo quattro ragazzi parlottavano tra loro bevendo birra, seduti sull’unica panchina ancora integra. Erano sui vent’anni e tutti più grossi di me, sembravano promettenti.

Uno di loro notò la mia presenza e fece un cenno agli altri. Andavo dritto nella loro direzione, a testa alta. Però, a mano a mano che mi avvicinavo iniziai ad avere qualche dubbio. Quelli non erano i malviventi della cittadina di provincia dove ero cresciuto, non sapevo niente di loro. Bastava una mossa sbagliata e la situazione poteva facilmente sfuggirmi di mano. Esitai, ma era già troppo tardi per tornare indietro. Avevano visto che li puntavo e a questo punto anche se fossi scappato mi avrebbero sicuramente inseguito.

Ero a metà strada quando qualcuno mi afferrò il braccio da dietro. La stretta era ferrea.

Sobbalzai per lo spavento e anche i ragazzi sulla panchina si allarmarono.

“Cosa ci fai qui?” Sibilò una voce alle mie spalle.

“Perché cazzo ti sei messo a correre?” Gli domandò qualcun altro subito dopo, ancora senza fiato. “E questo chi è?”

“Nessuno.” Ringhiò quella voce familiare, stringendo ancora più forte la presa sul mio braccio.

Io rimasi in silenzio, paralizzato. Quello spavento improvviso mi aveva fatto realizzare la stupidaggine in cui mi stavo andando a cacciare.

Ma cosa ci faceva lì Marco? Ce l’avevo ancora con lui. Mi stava seguendo?

Mi voltai con l’intenzione di affrontarlo, ma il suo viso era distorto dalla rabbia e involontariamente mi ritrassi. Notai sorpreso che non indossava la divisa e che il ragazzo accanto lui sembrava avere più o meno la mia età.

D’un tratto ero ancora più arrabbiato di prima. “Fanculo.”

“Ehi, stronzo, vuoi morire?” Disse l’altro ragazzo, sorpreso dalla mia reazione.

Marco invece non disse nulla, ma le sue palpebre tremarono quasi impercettibilmente. Mi guardò confuso per un momento, prima di riprendere il pieno controllo della sua espressione.

“Adesso almeno avrai qualcosa di interessante da riferirgli.” Dissi con freddezza.

Spalancò gli occhi per la sorpresa e allentò la presa sul mio braccio. Io ne approfittai per divincolarmi ma rimasi lì a fissarlo, ero proprio curioso di sentire la sua scusa.

Invece non provò nemmeno a giustificarsi e la sua espressione si fece nuovamente impenetrabile. D’istinto arretrai di un passo, lui però fu più veloce e mi afferrò di nuovo il braccio strattonandomi.

“Che cazzo stai facendo?” Puntai i piedi, tirandomi indietro.

“Ti riporto a casa.” Ringhiò fulminandomi con lo sguardo.

Con la coda dell’occhio, notai che i ragazzi sulla panchina si erano alzati e sembravano incuriositi dal nostro siparietto. Non promettevano nulla di buono.

Marco mi trascinò via velocemente e mi spinse sul sedile posteriore di una vecchia auto sportiva parcheggiata poco lontano. Rimase a discutere con il suo amico per qualche secondo, non potevo sentire cosa stessero dicendo ma lo vidi indicarmi e l’altro ragazzo annuire.

Neanche il tempo che entrambi salissero in auto e Marco spinse a tavoletta sull’acceleratore, le gomme stridettero sull’asfalto sconnesso del parcheggio.

“Comunque io sono Claudio.” Disse il ragazzo sul sedile del passeggero, sporgendosi verso di me mentre si allacciava in fretta la cintura. “Finalmente ci conosciamo.”

Marco sbuffò infastidito, correva come un pazzo. Claudio alzò gli occhi al cielo e mi rivolse un mezzo sorriso prima di tornare a guardare davanti.

Era un suo collega, ricordai che me ne aveva parlato. Ma perché aveva detto: finalmente ci conosciamo? Quindi sapevano tutti che ero sotto controllo? Mio padre non avrebbe mai coinvolto tante persone, una sola era più che sufficiente per i suoi scopi. Allora glielo aveva detto Marco? Perché avrebbe dovuto?

In ogni caso, non erano più affari miei. Avevo già deciso di andare a dormire per qualche notte in un albergo e poi cercarmi una stanza vicino alla facoltà. Se fossi stato fortunato non avrei mai più rivisto né mio padre né Marco.

Rallentò un po’ solo quando ci lasciammo il quartiere alle spalle. Eravamo comunque troppo veloci e sfrecciavamo in modo allarmante accanto ai marciapiedi affollati.

Inchiodò proprio sotto al nostro condominio. Ma anziché lasciarmi lì e andarsene scese dall’auto insieme a me, lasciando il motore acceso.

Claudio prese il suo posto alla guida. “Allora, a presto Leo.” Mi salutò sconsolato prima di ripartire.


Ne io ne Marco avevamo più detto una parola da quando eravamo saliti in auto.

“Si può sapere che cazzo stavi facendo in quel posto di merda?” Sbottò subito dopo essersi chiuso alle spalle la porta del nostro appartamento.

Davvero mio padre non gliene aveva parlato, o voleva solo sentirmelo dire di persona?
Non mi interessava più, lo ignorai e andai verso la mia camera. Volevo mettere un cambio di vestiti e lo spazzolino da denti dentro una borsa e andarmene il più presto possibile.

Non avevo fatto nemmeno due passi quando Marco mi afferrò la spalla obbligandomi a girarmi. “Ehi,” disse infuriato. “Cosa significa tutto questo?”

Non volevo guardarlo. Ero arrabbiato ma anche in imbarazzo.

Lui prese il mio viso tra le mani. “Vuoi parlare?”

“Volevo comprare della droga.” Risposi alla fine, cercando di evitare i suoi occhi.

Rimase in silenzio per qualche secondo. Poi strinse la presa sul mio viso, costringendomi a guardarlo. “Non ti credo.” Disse. “Non prendermi per il culo.”

Mi irrigidii. Persino papà mi aveva creduto senza fare domande. Anche quella volta dissi che era una questione di droga e lui mise tutto a tacere, nessun verbale, nessuna denuncia. E anche se era diventato più apprensivo, non ne avevamo più parlato.

Allora perché Marco non mi credeva?

“Dimmelo!” Mi gridò in faccia.

Non potevo reggere il suo sguardo. “Volevo provocare una rissa!” Gridai anche io.

Aggrottò le sopracciglia e impiegò un secondo per assimilare quello che avevo detto. Sentii le sue dita contrarsi sul mio viso. “Volevi morire?” Mi chiese sconcertato.

“No!” Risposi in fretta.

Volevo morire? Pensai tra me.

“Allora cosa? Perché l’hai fatto?” Continuava a gridarmi contro arrabbiandosi ancora di più. “Volevi farti arrestare? Far incazzare tuo padre?”

Già, cosa volevo fare? Questa sì che era una bella domanda. Cosa volevo dimostrare? A chi?

“Volevo solo sentire qualcosa.” Gli confessai alla fine.

Marco rimase a fissarmi in silenzio, con un’espressione indecifrabile. Sentivo che da un momento all’altro sarei crollato completamente. Perché non mi lasciava andare?
Doveva solo chiamare mio padre, e non avrebbe più avuto a che fare con me. Probabilmente avrebbe ottenuto anche una promozione in cambio del suo silenzio. Così si sarebbe risolto tutto.

Invece mi tirò a sé e mi strinse tra le sue braccia. E restammo così a lungo, senza dire nulla. Nessuno mi aveva più tenuto stretto in quel modo. Sentivo il cuore pulsarmi dolorosamente in gola e alla fine qualcosa si ruppe dentro di me. Faceva più male di qualsiasi pugno o calcio sullo stomaco.

Non mi ero nemmeno accorto di aver cominciato a piangere quando Marco si allontanò appena per asciugare le lacrime sul mio viso.

“Se mi farai preoccupare così tanto un'altra volta giuro che…” Si bloccò a metà della frase.

Che cosa? Che mi avrebbe pestato? Non so perché all’improvviso mi venne da ridere mentre stavo ancora piangendo, tutta quella tensione probabilmente mi aveva bruciato il cervello.

Dopo un po’ però anche Marco iniziò a sorridere, e poi a ridere insieme a me sempre più forte. Forse eravamo impazziti tutti e due.


“Dobbiamo bere qualcosa.” Disse dopo un po' che ci eravamo calmati.

Aveva ancora addosso i vecchi vestiti sporchi che indossava al parco e quando rispuntò fuori dalla cucina con due bottigliette di birra ghiacciate in mano, chissà per quale motivo, mi eccitai.

“Che cosa ci facevate in quel parco conciati così?” Gli chiesi, cercando di non farmi notare mentre mi aggiustavo il cazzo nei pantaloni.

Marco guardò i suoi vestiti come se si fosse appena ricordato di qualcosa. Esitò un attimo prima di rispondere. “Eravamo di pattuglia. Se andiamo in giro con la divisa segnalano la nostra presenza a un chilometro di distanza.”

Dal suo tono serio potevo capire quanto fosse ancora in apprensione.

“Non scherzano da quelle parti.” Aggiunse sedendosi accanto a me. Le nostre ginocchia si toccavano.

Avevo recepito il messaggio. Non ne sarei uscito sulle mie gambe se per puro caso non si fosse trovato lì anche lui. Quanto ero stato stupido? Mi vergognavo, a quel punto mi ero già reso conto di essere un ragazzino immaturo e viziato. E mi vergognavo soprattutto perché adesso se ne era sicuramente reso conto anche lui. “Mi dispiace…” sospirai prendendo un lungo sorso di birra dalla mia bottiglia.

Ma adesso perché mi stava fissando?

La birra mi si bloccò in gola mentre seguivo il suo sguardo verso il basso. Nonostante tutto, la mia erezione prepotente non aveva nemmeno accennato a calmarsi e i pantaloni della tuta non potevano fare niente per nasconderla.

“Fai bene a essere dispiaciuto.” Disse con uno sguardo strano. “Ma ti meriti comunque una lezione.”

Mi stava prendendo in giro?

Marco, però, si alzò nuovamente dal divano e mentre andava verso la zona notte si tolse la felpa. Non indossava nulla sotto e io mi ritrovai a fissare i muscoli della sua schiena a bocca aperta.

Oh, cazzo! Pensai scattando in piedi. Non stava scherzando.


Mi bloccò contro il muro appena entrati nella sua stanza. “Prima devi dirmi se vuoi farlo davvero.”

Un brivido mi risalì lungo la spina dorsale e rimasi in silenzio. Indossava solo i pantaloni e il suo petto definito che si alzava e abbassava al ritmo del respiro era ipnotico.

“Voglio sentirtelo dire.” Mi intimò.

Distolsi a fatica lo sguardo dal suo corpo, mi mancava la voce. “Voglio farlo.” Bisbigliai imbarazzato.

Mi strinse il viso tra le mani, costringendomi a guardarlo negli occhi. “Che cos’è che vuoi?” Rincarò la dose.

Bastardo! Voleva che lo pregassi? Se lo poteva anche scordare.

Si fece ancora più vicino, ormai le sue labbra erano solo a pochi centimetri dalle mie.

Provai a sporgermi per baciarlo ed evitare di rispondere, ma la sua stretta me lo impedì.

“Allora cos’è che vuoi?” Ripeté.

“Io…” ero un debole.

Marco mi guardava fisso negli occhi, in attesa.

“Voglio che mi scopi.” Alzai un po’ la voce.

Sorrise compiaciuto. “Anche se ti farò male?” Chiese colmando la breve distanza che ci separava. “Anche se ti farò piangere?” Sfiorò le mie labbra. “Implorare?”

Finalmente iniziammo a baciarci sul serio.

Mi spinse sul letto senza interrompere il bacio e le sue dita volarono sul mio petto, sui fianchi e mi artigliarono il culo. Questa volta, però, non avevo intenzione di restarmene con le mani in mano e iniziai a tastargli i pantaloni, strattonandoli per aprire i bottoni.

Quel bacio stava diventando sempre più vorace. Infilò le mani sotto la mia maglia e un attimo dopo mi ritrovai nudo dalla vita in su. Mi abbracciò e continuò a stringermi il culo da sopra i pantaloni con entrambe le mani.

Ne approfittai per insinuarmi nei suoi, afferrandogli il cazzo che aveva già iniziato a diventare duro.

Si lasciò sfuggire un gemito quando presi la sua asta in una mano e gli avvolsi delicatamente le palle con l’altra.

Iniziai subito a masturbarlo piano. “Non m’importa.” Sussurrai tra le sue labbra. “Voglio farlo comunque.”

Inspirò rumorosamente ed emise una sorta di basso ringhio minaccioso. Il suo intero corpo sembrò farsi ancora più massicciò incombendo su di me. Adesso non potevo più tirarmi indietro.

Quando il suo cazzo pulsò tra le mie dita in piena erezione rallentai. Era fuori misura, spesso e pesante, e in quel momento mi sembrò ancora più grosso. Mi ritrovai a rabbrividire anche se lo desideravo con ogni fibra del mio essere.

“Sei spaventato,” Marco mi lesse dentro come aveva fatto sin dal primo giorno. “Ma non avere paura… sarò gentile, all’inizio.”

Avevo appena firmato la mia condanna.

Mi spinse a sdraiarmi sul letto e quasi mi strappò di dosso i pantaloni della tuta. Una volta libero, il mio cazzo duro e arrossato tornò indietro come una molla a schiaffeggiarmi l’addome. Marco non perse tempo, si chinò fra le mie gambe, sollevò l’asta con una mano e la prese tutta in bocca fino alla radice. Fu come un fulmine sparato dritto al cervello. Inarcai la schiena e gemetti ad alta voce, contorcendomi. Mi irrigidii artigliandogli i capelli sulla nuca quando iniziò a succhiarmi avidamente.

Era insopportabile. Troppo bagnato, troppo caldo, troppo stretto. E intanto aveva anche iniziato a giocare con le mie palle. Credevo di morire.

Invece, con un ultimo forte risucchio mi liberò lasciandomi stravolto. “No!” Gridai lamentoso in preda alla frustrazione. Perché proprio ora?

Non feci in tempo a chiederglielo.

Prese in bocca una delle mie palle. Non me lo aspettavo e istintivamente avrei voluto chiudere le gambe, per proteggermi. Lo sentii giocarci con la lingua e mi prese un vuoto allo stomaco.

Allora mi sollevò, in quella posizione il mio buco era esposto e indifeso, completamente in sua balìa.

Sfiorò appena il mio buchetto con la punta della lingua, e quando trattenni il respiro perché ero sicuro che avrebbe iniziato a leccarmi, lo sentii ridacchiare, e prese a sfregarmi rudemente con la barba ispida del mento proprio intorno al buco e sulle natiche.

“Ah!” Gridai sorpreso. “Aspetta, che fai? Fermo, fermo…” Iniziai a contorcermi nella sua stretta. Era una specie di solletico doloroso che non avevo mai provato e che non riuscivo a sopportare.

Quando lo implorai di fermarsi mi morse l’interno coscia vicino alle palle. “No, no! Dai, adesso basta però. Ho capito, ti ho detto che mi dispiace. Mi dispiace!” Gridai di nuovo, dimenandomi.

Ignorando le mie suppliche, continuò a mordermi, graffiarmi e leccarmi in punti casuali dall’interno coscia al sedere, a volte piano a volte forte, e non sapevo mai dove sarebbe stato il prossimo, e se mi avrebbe fatto solo rabbrividire oppure gridare. Quando la sua lingua bagnata si fermò davvero sul mio buco ormai non avevo più neanche un briciolo di forze. Mi stava letteralmente riempiendo di saliva.

Aveva lo sguardo offuscato quando si sollevò su di me. Avrei voluto dire qualcosa, ma le parole mi si bloccarono in gola mentre si sbottonava i pantaloni con impazienza. Il suo cazzone saltò fuori spesso e pesante e ingoiai rumorosamente a vuoto. Non ero ancora pronto. Come si faceva ad essere pronti per qualcosa di simile?

“Non preoccuparti,” disse con voce roca. “Proverò a fare piano.”

Scossi la testa, ammutolito. Non suonava affatto convincente. Volevo sollevarmi e prendergli il cazzo in bocca per guadagnare un po’ di tempo e provare a cambiare posizione. Mi sentivo fin troppo vulnerabile in quel modo, senza nessuna possibile via di fuga.

Marco però anticipò la mia mossa, prima che me ne rendessi conto mi bloccò le braccia sollevate sopra la testa con una mano, mentre con l’altra frugava alla cieca accanto al letto. Senza mai staccare gli occhi dai miei. Quando sentii il metallo freddo sui polsi era già troppo tardi e mi ritrovai bloccato in quella posizione, ammanettato alla testiera in ferro battuto del suo letto.

“Ma cosa…?” Provai a protestare.

Mi zittì chinandosi su di me e coprendo la mia bocca con la sua.

“Sei in arresto.” Disse mordendomi il labbro.

Mi baciò di nuovo. “Non hai diritto a un difensore.”

“Non hai diritto di avvalerti della facoltà di non rispondere.” Continuava a informarmi dei diritti che non avevo lasciando una scia di baci sul mio collo e poi sul petto.

“Non hai nessun diritto, sei mio!” Disse sopra il capezzolo e iniziò a succhiarlo dolcemente.

Inarcai la schiena per il piacere, alla ricerca di un maggiore contatto con il suo corpo. Lui strinse tra i denti il bottone di carne sul mio petto e tirò indietro la testa finché il capezzolo non sfuggì dolorosamente dalla sua morsa.

Sentii le palle stringersi e il mio cazzo pulsare furiosamente, e anche quel lampo improvviso di dolore si trasformò inspiegabilmente in piacere.

Un sorriso demoniaco gli increspò le labbra. Senza aggiungere altro si sputò sulle dita e le usò per bagnare il suo cazzo.

Non era abbastanza. Non potevamo farlo davvero solo con un po’ di saliva. Provai a fare forza contro le manette, strattonandole senza nessun risultato.

Nel suo sguardo non c’era nemmeno un briciolo di pietà.
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