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A CENA CON REBECCA


di fantastico_scrittore
06.01.2022    |    1.708    |    7 8.8
"Basto poco però per invertire la tendenza, ora era lei che si spingeva verso di me, stringendo i pugni per non urlare..."
Incontrai Rebecca dopo oltre sei anni da quando in una fresca mattina di marzo, ci conoscemmo quasi per sbaglio in treno, dove nacque una bella amicizia interrotta solo dal mio spostamento su Londra. Facebook fu galeotto per farci ritrovare, un suo messaggio “ciao uomo dei sogni, hai voglia di parlare?”, un mio sorriso con le dita che rincorrevano la tastiera per scrivere qualcosa di non banale e magari sensato, anche se poi a Rebe piacevo così, naturale e spontaneo.
Pochi messaggi si susseguirono, fummo bravi ad utilizzare quel social solo per aggiornare le nostre rubriche telefoniche, nessuna chat ci giurammo, infatti ci incontrammo da li a poco. La scelta cadde su di un ristorante in zona Navigli a Milano, la stessa dove le nostre mani si sfiorarono per la prima volta nel corso di un aperitivo comune, quando neppure ci si conosceva. Dopo una settimana da quel giorno avremmo iniziato una storia, assolutamente clandestina, calda e passionale per l’incredibile mix di piccoli ma importanti dettagli che ci accomunavano, ‘che poi sono quelli che fanno la differenza’, ci dicevamo sempre, e così era. Fu vera passione per 3 anni, poi il mio trasferimento a Londra smorzò parte della magia. Qualche incontro sporadico invero seguì nei mesi a venire, ma poi la distanza e altri fattori decretarono il totale allontanamento. Ancora per caso poi, la partecipazione comune ad un evento in zona Duomo ed il suo messaggio… - ma sei lo stesso Marco che prende il tea anziché il caffè dopo cena? - . Si ero lo stesso, ed in maniera naturale ci incontrammo il giorno successivo dall’evento, lei decise di posticipare il suo rientro a Roma ed io la mia partita a scacchi con un caro amico.
Al ristorante sedemmo come nostro solito vicini, non uno di fronte all’altro ma al fianco, si ricordava che avevo desiderio di rimanere con le spalle al muro, non tanto per osservare il resto dei commensali, ma per storie più lunghe e complesse, che in effetti non raccontai mai neppure a lei. Cenammo amabilmente, fino a quando un figura maschile che occupava la mia visuale, decisamente enorme a metà tra un giocatore di basket ed uno di football americano, si alzò pago il conto e si dileguò. L’effetto fu davvero strano perché l’asse visivo lasciato libero da quella montagna umana mi consentì di incrociare lo sguardo di una donna. Era incredibilmente magnetico. Prima ancora che affascinante o tanto altro ancora. Attribuii immediatamente a quella figura femminile quel fresco profumo primaverile che stonava totalmente con la stagione fredda e piovosa di quel periodo. Lo avevo percepito all’ingresso del locale, ma non ne avevo trovato la fonte. La guardai e decisi che quel profumo le sarebbe stato benissimo addosso, e quindi mi immaginai il tappo in vetro intinto nella fragranza scorrere freddo dalla nuca ai seni, passando per il collo, mentre ancora semi nuda si osservava compiacente allo specchio. I miei sguardi erano ricambiati, e se c’era una cosa in cui non ero bravo da tipico manuale dell’uomo medio, era quella di fingere di essere dove non ero. Rebecca se ne rese conto quasi subito, non comprendendo però il motivo scatenante del mio improvviso allontanamento. Mi chiese se stavo bene, o se semplicemente volevo andare, ma la rassicurai, erano solo pensieri legati al mio lavoro, lei finse di comprendere e continuammo a cenare. Decisi di ignorare per qualche minuto quella parte di locale, ma solo dopo essermi accertato a che punto della cena fosse lei, per stabilire all’incirca quanto tempo sarebbe passato prima che ognuno dei due avrebbe continuato la propria vita, allontanandosi come fanno i treni in stazione dopo aver percorso qualche metro praticamente ad un palmo. Al tavolo della donna un’amica, e si alzò per andare a fumare accompagnata da una ragazza vestita di rosso, lei colse l’occasione per spostarsi di qualche centimetro, risultando perfettamente perpendicolare al mio sguardo. Mi sorrise, le sorrisi. Il mio intento di tornare a parlare con Rebecca durò pochi istanti, la mente vagava, ripercorrendo i passi che l’avevano portata sin qui, chissà perché trovavo da sempre la vestizione più sensuale della ‘svestizione’ in una donna… e quindi mi permisi di immaginare alcuni momenti di lei passati in casa, intenta a sistemarsi prima di uscire, per piacere innanzi tutto a se stessa. Lo trovavo eccitante. Qualcuno un giorno mi disse che il movimento delle gambe di una donna racconta molto, non lo compresi mai sino a quella sera, quando le vidi in maniera chiara trasformarsi in vere e proprie estensioni della sua mente, avevano preso a danzare muovendosi eleganti, sembrava lanciassero dei segnali chiari. Rebecca sorrise, le era capitato spesso di vedere la mia mente fuggire per non tornare più, sapeva che quel tempo di limbo poi le sarebbe tornato con gli interessi, godeva nell’ascoltare i miei pensieri che stendevo su carta oppure gesticolavo su lavagne immaginarie. Potevamo discorrere anche senza parlare, era fantastica anche per questo. Tornai dalla donna di cui ora, quasi imbarazzandomi, immaginavo il profumo più intimo, scambiandomi sguardi e sensazioni che avevano le sembianze di insegne luminose in una notte buia di una statale americana, ero quasi imbarazzato ad ogni nostro incrocio di sguardi, perché credevo potessero illuminare a giorno la luce soffusa del locale. Ad un certo punto si alzò e riferendosi al cameriere poco distante si fece dare indicazioni. Mi accomiatai da Rebecca e la seguii d’istinto, anche se alzandomi sentii emozioni simili a quando stai facendo qualcosa che ha un gradiente di rischio altissimo, ed essendo per nulla avvezzo all’eventuale suo rifiuto tentennai per un attimo. Ma molto probabilmente quel calice di rosso profumato che avevo in corpo fece effetto e raggiunsi la toilette chiudendomi alle spalle la porta. Era nel corridoio che portava alla biforcazione dei bagni, le sue spalle che l’abito lasciava scoperte, mostravano la sua magnificenza probabilmente foggiata dal nuoto oppure da qualche altro sport dove si usano spalle e schiena, qualcosa doveva essere vista la bellezza di quella parte del corpo. La osservai perché la ricerca di qualcosa nella borsetta, esaltava il movimento di alcuni muscoli che si contraevano e rilassavano dando vita ad un vero e proprio spettacolo. Esordii deciso, chiedendole:
“Allora è sua questa magnifica fragranza… cosa indossa?”.
Risposte sorridente girandosi con una leggera rotazione delle spalle:
“Indossa? Che strano sentire un maschio che utilizza ‘indossa’ riferendosi ad un profumo”.
“Me lo ha insegnato un’amica profumiera, e mi ha insegnato pure che ogni profumo è diverso perché vira a seconda del profumo della pelle di chi lo indossa”.
Mi avvicinai e prendendola per il bacino con delicatezza le annusai il collo, sfiorandolo con le labbra.
Le cinsi la vita con l’avambraccio destro, e con la mano sinistra abbassai la maniglia di una delle due porte presenti nel corridoio, era una sorta di sgabuzzino dove venivano stipati asciugamani che sapevano di lavanda viola e verdi. Provò a dire qualcosa come:
“Guardi che qui dentro… se entra qualcuno…”.
Ma fu lei a baciarmi stringendosi a me. Replicai con passione, facendo scorrere le mie mani sulla sua schiena, per poi scendere, lungo i fianchi, sino alle cosche. Risalii e le alzai il vestito scoprendo le sue calze autoreggenti, e minimali mutandine di pizzo nero. Senza che me ne rendessi conto, avevo i pantaloni abbassati e le sue labbra attorno al mio sesso, quasi a bloccare il mugugno che usciva dalla sua bocca, che mi avvolgeva tutto. La gira dopo pochi secondi, infilai la lingua nella sua fessura, era profumata ed umida, alcuni colpi di lingua e poi fu come far crollare una diga, tutto il suo sapore si riversò sulle mie labbra, inebriandomi di piacere. Eccitato le misi una mano sul mio attrezzo. Con due dita facilitai l’entrata, ostacolata nei primi morbidi colpi dalla sua mano sul mio addome. Basto poco però per invertire la tendenza, ora era lei che si spingeva verso di me, stringendo i pugni per non urlare. Era bollente ed incredibilmente bagnata. Imprecò per due volte e si mise a singhiozzare quando gridò un sordo mugolio stringendo tra i denti quell’urlo, quasi come per trattenerlo dentro di se, col viso poggiato di lato sul tavolino bianco ormai spinto contro il muro, per i colpi che ricevette per qualche minuto.
Si accovacciò per un attimo, guardò verso l’alto e disse
“Cazzo! Dobbiamo andare…”.
Si rivestì. Operazione che al contrario feci con molta fatica. Uscì di corsa, e raggiunse le amiche. Feci altrettanto con Rebecca che mi vide in condizioni effettivamente strane, questa volta preoccupandosi.
“Ma che cos’hai?”.
disse a voce piuttosto alta. La tranquillizzai dicendo che non era nulla. Pagai il conto per ultimo nel locale, e mentre Rebecca procedeva alla vestizione prima di uscire, un cameriere mi allungò un biglietto di cartoncino rigido, dicendomi che era da parte della signora del tavolo di fronte. Lo riposi nella tasca interna della giacca, e raggiunsi Rebecca. Chiaccherammo amabilmente fino alla mia auto, e riportai a casa Rebecca, che mi chiese se volevo salire, avrebbe avvisato lei in hotel. Rifiutai e mi disse che forse era meglio così. Capii che non provavo quasi più nulla, quando appena chiuse la portiera davanti al suo hotel, mi misi a pensare cosa scrivere in termini di sms, al numero di telefono che avevo nella giacca. Mi fermai alla fine dell’isolato, aprii i biglietto che sembrava intriso della fragranza che aveva la sua scrittrice sul corpo, e scoprii che c’era una semplice scritta ‘Marc Jacobs Decadence’.
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