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016 RAGADI. BRUTALISMI E SENTIMENTO


di CUMCONTROL
03.12.2020    |    5.896    |    16 6.8
"Iniziai lentamente a stare male..."
Mi sono laureato in sociologia urbana dopo il mio rientro dall’Ungheria.
La mia tesi di laurea? L’omosessualità nella cultura rom.

Non avrei potuto discutere la mia tesi di laurea dopo quei due anni trascorsi nel campo, cui credo di essermi sentito felice, capito, forse amato nella mia diversità agli occhi di una comunità rom.
Ho vissuto con loro, un campo molto ben attrezzato, nella periferia di una Milano opulenta, tutta da bere.
Erano gli anni ottanta.

Credo che in quel luogo preciso del mondo io sia diventato per sempre quel che sono oggi. ‘Na zoccola.

Vi prego non ridete di me. So che detta così parrebbe indecente quanto inappropriato, ma io sono come tutti, un essere umano, fatto di certo di passione, ma anche di tanta e tanta, tantissima sensibilità.
Avevo conosciuto nel campo un ragazzo che deliberatamente mi amava.
Tutta la mia vita è stata una ricerca dell’amore, e l’avevo trovata.
Facevamo l’amore spesso attorno ai casolari odorosi sulle rive del fiume Lambro.
Sovente restavo in piedi, a stringermi felice con le lacrime agli occhi e con il cuore pieno di dolcezza.
Restavo così, abbracciando ad una betulla, smarrito a fissare le acque lente del fiume e mi lasciavo accarezzare dalle brezze, con le mutandine gentili rivolte a metà coscia, e con lui, il mio ragazzo, che da dietro mi pompava le viscere col suo attrezzo umido d’amore.
Un attrezzo superbo, robusto, aggressivo quanto basta, e dolce, si dolce.
Un cazzo che ti squarta sa essere anche dolce.
Scusate pure qua che sono stato scurrile. Prometto che seguirò un registro meno volgare nella narrazione che seguirà. Promesso.

Non mi curavo di masturbarmi quando lui spingeva nelle mie polpe umide.
Restavo così a contemplar le acque, senza nulla pretendere dal mio ragazzo, che mi medicava le ferite dell’anima procurandomi il piacere delle viscere.
A me andava bene così.
Mi andava bene non masturbarmi, anzi, forse la mia natura si esplicava nelle forme sessuali proprie della femmina che sono sempre stata. Sia chiaro, non ero affatto di sembianze femminee.
Ero peloso, con barba, quando a quei tempi la barba non era poi così di moda.
Eppure mi piaceva “far da femmina”.
Scoprivo ad ogni amplesso le bellezze di un piacere anale, i cui orgasmi selvaggi che mi si irradiavano dalle natiche alla schiena, cancellavano le più naturali piacevolezze concesse al maschio di pervenire cioè a gioia per mezzo del proprio cazzo, come “natura” vorrebbe.
Il mio genitale, sorgente inesauribile di piacere vero, era lì dietro, tra le mie natiche, in quel pertugio odoroso e selvaggio che si rallegrava soltanto se sfiancato dalla turgida minchia di un vero uomo.

Al fiume, di notte, il mio ragazzo mi scopava con molto trasporto. Di giorno invece pareva che mi trattasse con una certa sufficienza, e questo mi faceva star male.
Ma con gli accoppiamenti sbrigati nei casolari al tramonto, o nelle chiavate ribelli in riva al fiume, si faceva perdonare ogni indifferenza mostratami nelle ore prima.
Poco o nulla mi importava se non mi baciava.
D’altro canto non ero io certo un membro del suo clan, e questo mi bastava per giustificare una apparente freddezza emotiva che mi dimostrava, ma assicuro che lui sapeva largamente ricompensarmi col cazzo che mi porgeva ogni sera.

Lo desideravo sempre dentro di me quel mio ragazzo.
Tra noi non vi fu mai un rapporto verbale, per le limitazioni ascritte a diversa lingua, naturalmente.
Mai una carezza, vero, ma forse per limitazioni culturali.
Di contro però i nostri amplessi erano dei robusti momenti d’amore, delle prove di forza diciamo. E’ vero, non era di animo gentile. E’ vero, spesso mi ricopriva di schiaffi, talvolta mi sputava, avvolte ancora mi pisciava in gola senza preavviso, e se mai mi sfilassi dal lui dopo il suo orgasmo nel mio retto, erano ancora mazzate.
Dovevo restare arpionato a lui come una cagna. Ma non era perché mi ritenesse una cagna che mi teneva avvinghiato a sé con il cazzo ancora in culo. No.
Dolo la sborrata, lui aveva l’abitudine di pisciarmi in culo. Si, in culo. Cosa vuoi, al campo non c’erano bidet e credo che questa pratica fosse sostitutiva del sanitario che tutti noi abbiamo installato in casa.
Lui mi pisciava dentro per levarmi via magari lo sborro schizzato poco prima. Era un rito per lui, e se io ero magari in preda agli spasmi e alle contrazioni a tal punto da supplicargli di lasciarmi andare poiché piena, ecco che lui mi teneva avvinghiato a sé.
Io mi dimenavo, supplicavo di lasciarmi andare perché gemevo le doglie di una spaventosa cacata. Ma lui, no, indifferente. Mi voleva a sé.
Non è forse questa la metafora dell’amore?
Correre via per esplodere poco più in là era una cosa che lo faceva ridere moltissimo, forse per i rumori che facevo, chi lo sa.
Io so solo che chino sulla ghiaia guardavo il suo volto dipinto dalla luce lattea della luna.

Bello, magro, olivastro, con sopraccigli folti e uniti di un fascino arcaico, forse un po’ fetente nelle parti basse ma credetemi, un esemplare di maschio assoluto in grado di fottersi maschi e femmine. Ma è me che agognava.
Ripeto, forse poteva sembrare un tantino violento, ma in una coppia che funzioni solo uno deve portare i pantaloni. Non come oggi, con tutte queste coppie versatili, votate al compromesso coniugale e alla menzogna (e all’adulterio).
Tra due maschi, uno fa il maschio, l’altro fa la femmina, e prendersi pure mazzate se necessario.

Ma il nostro rapporto funzionava anche per un secondo aspetto. L’appeal sessuale, tenuto sempre vivo, mai ripetitivo e non si faceva riguardo credetemi a escogitare delle soluzioni d’amore sempre diversificate, come ad esempio di chiamar gli amici del campo per spampanarmi a dovere per tutta una notte.
E io dovevo far da “buco” per chiunque, perché a lui piaceva molto. Credo gli piacesse scoparmi per ultimo con tutto lo sborro del branco buttatomi in trippa.
Non vi dico le ragani anali, ma io assicuro che a quel tempo, i miei bruciori, le mie ragadi insomma, erano per me il segno tangibile di un qualcosa di vivo che ardeva in me, votato per vivere in eterno un amore irripetibile.
Meritavo anch’io un po’ d’amore.

Io lo amavo, incondizionatamente. Certo anche lui mi amava che discorsi, ma non lo dimostrava. Sai, ci sono quei tipi che parlano poco e non sanno esternare i sentimenti.
Ma mi amava. Si.
Si vedeva che non sapeva stare senza di me, per questo tutte le sere, da solo o con gli amici, mi conduceva poco più in là del campo, sotto l’argine del fiume, per riappropriarsi di me. E se mi pisciava tutto a partire dai capelli, era solo un segno tangibile come per dire “Oh, questo è roba mia e solo mio, e non toccatelo”.
Marcava il territorio bella stella. E’ normale.
Cosa farò mai agli uomini.

Ma l’amore ha la temporaneità dei boccioli.
Accadde al nostro amore qualcosa di terribile.

Il mio ragazzo era sposato, dimenticavo, e la moglie, pur tollerando l’adulterio del consorte, ritenne d’un tratto pericolosa la mia frequentazione, poiché aveva intravisto del sentimentalismo da parte mia.
Va bene i bocchini di massa a cui assistevano un po’ tutti perché alla fine mi accettavano così com’ero, va bene che il marito potesse farsi pure largo per ficcare l’uccello nella mia bocca. ..Ma vederci appartarci – soli - tra le frasche del fiume o, peggio, vedere sguardi troppo languidi da parte mia posarsi sul marito, tutto questo per lei era troppo.

Il nostro amore era amore, e lei era invidiosa.
Il mio ragazzo mi rispettava, cosa che secondo me non faceva con la moglie che invece picchiava tutte le sere.
Per dire, se mi fottevano in branco, a pecorina diciamo, lui aveva cura di rimettermi in posa quando mi cedevano un pochino le ginocchia, e trovo che questo fosse un segnale di attenzione nei miei riguardi.
Se mi vedeva in sofferenza in piena gangbang, perché erano davvero troppi a pisciarmi in culo, lui fermava per un momento i giochi, mi faceva correre in riva al fiume per spruzzare a schifo e poi magari disciplinava l’ordine di ingresso nel mio culo senza creare disordini.
Per rinforzare le mie difese immunitarie mi faceva leccare il culo a tutti.
Omeopatia diciamo.


Il giorno dopo le chiavate di gruppo, dopo la sveglia in mezzo ai cani sotto il camper del mio lui, usavo raccattare un catino e riempirla con dell’acqua fresca per metterci un ammollo il culo e lenire così le ragadi anali.
Attendevo con impazienza che scendesse dal mezzo per guardarlo con gli occhi innocenti dell’amore.
Non era facile, eh, sia chiaro. C’erano i bambini del campo che mi cacavano il cazzo.
Mi deridevano nel vedermi così piegato di culo nella tinozza.
E mi tiravano addosso di tutto: che ti posso dire, scorze di agrumi, pietroline, semi di pesca, gusci d’anguria, cocci, tubi da ponteggio, sifoni in ghisa, sputi e pure pezzi di lavatrice, e siccome non capivano l’italiano quando dicevo Basta, allora strillavo.
Poi la porta del camper si apriva e compariva lui.
Bello come il sole, in mutande.
Come in un rituale perfetto, egli si guardava attorno, sparava un scorregione pazzesco e poi balzava contro di un bosso per annegarlo nella sua pisciata mattutina.
Poi mi passava davanti.
Furbo lui, non mi guardava ma manco di striscio.
L’amore è fatto di questi piccoli ruoli di carota e bastone.
Incedeva sicuro a raggiungere gli altri per l’adunata sul piazzale.
Com’era bello, e sicuro di sé, quando con gli altri si preparava ad andare in città per fare un pochino di razzie.

Lo guardavo con gli occhi gonfi dell’amore, e mi curavo poco di nascondere il mio sentimento per lui, anche se lui – sincera proprio - non mi cacava manco di pezza.
Ma è capibile, doveva ben nascondere l’amore smisurato che provava per me.

Solo una volta, sotto gli occhi di tutti, mi venne vicino e fece una cosa strana.
Io me ne stavo accucciato coi gomiti sulle ginocchia e col culo in tinozza.
Lo guardai perduto, lui si piegò verso di me, fece il gesto di darmi un bacio che io – sincera proprio - mi sentii morire. Pigolai un tenero Coccodè.
Ma mi sganciò un rutto. Si, un ruttone fortissimo sulla faccia guarda, ma così forte, che mi sentii i capelli sparati all’aria. Tutta ossigenata stavo.
Tutti che ridevano, proprio una figura demmerda guarda.

E che potevo fare io?
Rimasi così, impietrita, china con culo in tinozza accennando una smorfia, tipo proprio mongoloide, ma ero perplessa.
Tutti ridevano, a centinaio, e lui si voltò verso gli altri a ridere di pancia.
Io cretina ridevo insieme a tutti. E che potevo fare?
Mi voltai d’istinto a guardare la moglie, la quale era l’unica a non ridere.
Mi fissava con sguardo severo. Poi si voltò a salire in roulotte, trascinava con sé uno dei suoi dodici figli, che a sua volta trascinava con sé una vecchia bambola, tutta pugnalata, e con una forchetta nell’occhio.

Non v’era dubbio. Vedi come parlo, non v’era dubbio. La moglie stava tessendo la sua tela.
Quella ragna demmerda.
In breve tempo fummo osservati costantemente, pedinati, e i famigliari praticarono l’ostracismo a danno del mio fidanzato.
Per fortuna lui mi ingozzava di cazzo. Infatti non mi pare che fosse minimamente intimidito dalla questione.
Ciò accrebbe l’amore languido e passionale che provavo per lui.
Era lui il mio uomo.

Una sera infatti, presso la cloaca il mio fidanzato mi scopò così forte che quasi persi i sensi.
Entrai come dire, entrai in un senso di delirio a tal punto che scoppiai a piangere, manifestando così la mia gioia di essere felice. Mi sbatteva e mi strizzavo le tettine con una affascinante senso di cacarella in culo senza tuttavia espletare.
Me lo meritavo. Avevo sofferto troppo nella vita ed era giusto ora meritare l’amore quello vero.
Ricordo il pianto per la mia emozione dolcissima, e ricordo che stavo riverso su di un noce che ripiegava i grossi rami fin quasi a sfiorare la ghiaia. Stavo riversa con la schiena sui rami, così, a cessa, con le gambe all’aria e fottuto dal mio lui.
Provavo un dolore atroce ma bellissimo, provai un tormento come quello delle sane deiezioni trattenute, come quando ti scappa la cacarella per l'appunto e il bagno è occupato. Lacrime agli occhi, brividi e lacrime.
Ma lui un cazzo. Lui mi sbatteva le trippe e basta.
E io gemevo, sciancata, e con le caviglie prese dalle sue mani.
Il mio pisellino sbatteva moscio tra le cosce, ma schizzavano nell’aria le gocce del mio precum.
Squartata d’amore stavo.

Fu così che le mie mani afferrarono i fianchi del mio lui che mi sbatteva profondamente.
Poi tra i singulti - vedi come parlo - le mie mani raggiunsero le sue braccia nervose, accarezzarono i sui suoi deltoidi sudati, e poi le mie dita si unirono dietro la sua nuca.
Premetti la sua nuca per avvicinarlo a me, e supplicai di baciarmi mostrandogli vibrante il mio labbro inferiore.
Lui parve voltarsi dall’altra parte ma seguitava a spolparmi viva.
Ma io insistetti ed ecco che… ecco che pose le sue labbra sulle mie, fu bellissimo, io chiusi gli occhi…

Un rutto. Un altro.
Tè guarda tè, al brucio.
Un ruggito, ma che ti devo dire, un boato da urlo. Un quarto d’ora buona eh, un rutto così spaventoso che mi spettinai seduta stante da parere Maria Teresa Ruta dopo la trasmissione.
Ma l’uomo che ti ama, se uomo vero, non ti bacia. No. Ti fotte, ti rutta e tu zitta, tu zitta devi stare, e tieniti la cacarella.
Eh si. L’omo è omo. O già.
L’omo non parla.
No.
Rutta. Al più, Scuregia.


Fu in quegli istanti, proprio nel pieno della ruttata atroce, che fummo sorpresi dagli uomini del clan, che nel buio si facevano strada tra gli arbusti scendendo dall’argine e con le torce in mano.
Fummo percossi da alcuni di loro. Io sinceramente fui brutalizzata letteralmente.

Mi ero già staccata dal cazzo, e cercai di rotolare via, e mi lanciarono tante tavelle in laterizio, e pezzi di water sparsi qua e là.
Ricordo che ebbero persino l’ardire di scaraventarmi addosso un intero bidet.
Io a quella gente lì, non tutti ma la maggior parte, avevo succhiato il cazzo per mesi.
E mo’ come se tra me e loro non ci fosse stato nulla.
In quella baldoria, come glie lo spiegavamo che non era un bacio ma una variante sensuale del bacio, ossia una ruttata?

Corsi come una pazza verso l’acqua strillando come una soprana, ma per schivare ogni oggetto lanciatomi contro, dovetti tuffarmi proprio dove c’era il getto dei liquami della cloacona.
La grande Milano eh, opulenta.
Ma quanto caca sta Milano.

Ad ogni modo declassarono il mio ragazzo dalla gerarchia del campo. O già.
Credo che lui abbia tentato di spiegare che non si trattasse di un bacio sentimentale, ma di una ruttata pazzesca.
Ma niente. Fu messo da parte, allontanato dalle spedizioni in città tacciandolo persino come “corvoadă”.
Ricchione, nella loro lingua.

Da allora il mio ragazzo non mi cacò più.
Scusate se uso questo gergo volgare. Non è da me, lo so, ma così fu.
Iniziai lentamente a stare male. Vederlo isolato dagli altri mi spaccava il cuore.
Di tanto in tanto io cercavo di incrociare il suo sguardo, e ci guardavamo.
Io mostravo il mio volto melanconico e speravo in un suo sguardo mesto, da correre l’uno verso l’altro e abbracciarci, a fare l’amore clandestinamente sul ciglio del fiume, farmi pisciare in culo come sempre.
Ma egli tenne duro. Egli lavorò lungamente per ripristinare i legami sociali mentre io… lo ammetto, io caddi nella mia più profonda disperazione.
Io lo so che mi amava, che gli mancavo.
O già.

Per tentare di non pensare, alla sera mi allontanavo dal campo.
Embè, che dovevo fa? Mica facevo niente di male.
Raggiungevo una balera che stava dall’altra parte del fiume, tutta illuminata, ove si suonava e si ballava.
Non avevo un quattrino, e cosi me ne stavo seduto sulla panca a guardare gli altri a ridere e a bere.
Mi facevo coraggio, mi mettevo a ballare anch’io pur di non pensare di continuo al mio ragazzo.
Ricordo che sotto la pergola improvvisai una lap dance. All’epoca non si sapeva neppure cosa fosse.
Io mi attorcigliavo, ancheggiavo, comunicavo in quel mondo sordo e cieco tutta la mia disperazione.
Mi aggrappavo al palo, mi piegavo, inarcavo la schiena e sollevavo il culo.
Poi giravo i tacchi verso dei maschi seduti in cerca di fica, mostrandomi compiacente, passandomi persino il ditino sul bordo bocca, poi lo facevo scorrere sul seno e lento scendevo sulla natica, e raggiunta la fessurina lo vibravo come un sonagli, alzando per altro la coscia come una vera cessa.

Una sera, attaccato al palo, abbassai persino un pelino i miei calzoni, ma poco eh, non troppo.
Esibii non per dire le mie belle chiappine. Le mostrai licenziosa ad un gruppo di camionisti credo, e un bruto signore della sicurezza, un ceffo, senza dirmi un niente, mi afferrò per la canotta e mi buttò fuori a calci in culo.
Io strillai ovviamente tutta la mia disapprovazione poiché non ritenevo civile la sua condotta, e per tutta risposta mi presi una bella pizza in faccia ma così forte da far fermare per qualche istante la musica in balera.
Io gli strillai Brigante!
Si che alla pizza fece seguito una bella schiacciata di testa, così, a due mani, e mi fece in un solo colpo la faccia a zampogna mi fece, che io dissi solo Dlin Dlon e caddi azzoppata morta.


La verità è che mi mancava il mio ragazzo. Mi mancava punto e basta, il suo cazzo.
Volevo un cazzo. O già. A questo punto ogni cazzo avrebbe potuto lenire quel mio senso di assenza.

Fuori dal locale, dopo la bella dose di schiaffi, rimediai un passaggio per mia fortuna da un signore piuttosto per bene. Era ben vestito, profumato e per tutta la sera aveva cercato fica senza trovarne.
In macchina mi disse che in balera non si batteva un chiodo perché ormai era piena di vecchie.
Fu li che gli proposi la mia bocca per una bella sucata.
Lui mi sorrise e mi disse di no, che non era proprio il caso, anzi mi chiese in quale punto della strada avrebbe dovuto lasciarmi.
Io tenace come nessuna non risposi, e gli dissi piccata che capivo la sua eterosessualità ma che magari avrebbe potuto pisciarmi in gola visto che non gli costava un cazzo. Anzi guarda, feci notare due cassoni della munnezza municipale e magari mi sarei inginocchiato nel mezzo e gli avrei fatto da cesso. Sputi piscio e sborra non mi sarei fatta alcun riguardo sul merito.
Lui scese dalla macchina, io mi sventolai con la manina pe’ pija aria tanto nu me pareva vero.
Lui aprì la portiera, io uscii misteriosa e corsi a piccoli strillini verso i due cassoni in mezzo ai quali mi inginocchiai entusiasta, ma egli, egli mi disse solo Buona Fortuna.

Buona Fortuna???? A me???
Pigolai pietà, supplicai un po’ di affetto, pigolai la parola Affetto come una piccola fiammiferaia presa a male pisciate il giorno di Natale, insomma, io pregavo disperato che ne so, pure una scorreggiata sulla faccia che stavo triste triste triste.
Sgommò e sparì nella nebbia.

Corsi come una pazza verso la strada strillando di sconcerto verso quella cazzo di macchina frattanto ingoiata dalla caligine.
Frattanto.
Caligine…
Ma?
Ma vedete come parlo? Mi dovreste uccidere tanto son Letterata.

Ad ogni modo piansi a dirotto, oh già, ero disperato, avevo bisogno di un abbraccio, di calore umano, di una notte tra morbide coperte.
Cosa c’era in me che non andava, eh? Perché la vita si ostinava a negarmi un uomo qualunque che mi chiamasse Piccolo Cucciolo, mica tanto chiedevo io alla vita, solo un uomo che mi sussurrasse al mattino Hey, Piccolo Cucciolo, è ora della colazione…. Sincero. Volevo dimenticare le mie sofferenze. Volevo far colazione in riva al mare all’alba con un uomo che potesse promettermi riparo dalla cattiveria degli esseri umani, offrendomi una rosa nel letto, a pisciarmi sul Krapfen tutte le mattine.

Di un uomo avevo bisogno, di un uomo gentile e forte, che sborrandomi su un occhio mi dicesse Ti amo.
Piangevo la mia nullità e mi dirigevo nel buio fitto nel campo di roulotte.
Ma poi, che ti devo dire, poi mi accorsi che… che incedendo sul selciato io procedevo altero e sicuro di me, come una modella molto protagonista. Sincera. Anzi, mi ci impegnai tutta.
Mi misi ad ancheggiare a scatti, tanto chi cazzo mi vedeva. Stavo col mento su, dritta, altera, tutta cosce.
Al bivio verso il campo mi fermai, lascia che sfrecciasse un’auto, e poi misi la mano sul fianco, mi voltai, molleggiata proprio, e poi giù, convita, a scendere come checcina sulla passerella della vita.
O già – mi dicevo – si che un giorno la farò pagare a tutti. Tutti un giorno sapranno chi è CUM.

E chi lo avrebbe detto che molti anni dopo sarei diventata CUMCONTROL (chi?), come chi, LaSSignora (eh?) LaRReGGina di A69.
Io, si.
La bella la bellissima.
La incontrastata.
La poetessa..
Peppa Pig,
LaRReGGina di A69.

O già.

Entrato nel campo, nel buio pesto, andai da Knifo.
Ero contenta.
Come chi era Knifo.
Knifo era un demente ritardato del campo, un nano, di cui si dicesse andasse per casolari della zona, a leccare il culo ai muli, cani, e pastori.
Bussai al sul camper, e così, senza dir nulla, disperato proprio, gli porsi il culo per una travolgente leccata.
Era l’unica mia consolazione.
Egli non ci pensò due volte, balzò dal camper, mi agganciò il gomito, roteai e poi giù a terra.
Ricordo che piangevo chino, a carponi, con il calzoni a metà coscia, il culo all’aria ai piedi del camper, mentre il nano si dava un gran da fare, tenendomi saldamente le chiappe aperte e la faccia in mezzo al culo.
Mi dicevo che era l’unica cosa che meritavo dalla vita.

Avere la faccia di un nano in culo.

Questo meritavo dalla vita.

Un nano in culo.





HUNGARIAN RHAPSODY
Autobiografia di un libertino.
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