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013 VITA AL CAMPO


di CUMCONTROL
08.01.2020    |    7.086    |    15 5.0
"Devo riferire che in una di quelle sere, qualcuno intravvide nel mio sbocchinaggio non proprio una pratica pertinente ad un giullare un tantino finocchio da..."
Chi come me ha avuto la fortuna di vivere una esperienza singolare, capirà senza dubbio che le esperienze che molti definiscono come tragiche, per me furono catartiche.
Furono vivide delucidazioni della vita queste mie esperienze vissute, resemi dalla sventura e sublimate con grande amor proprio.
Nessuno conosce bene la realtà dei rom, e chi come me ha vissuto per qualche tempo presso di loro, potrà darne conto senz’altro, sentendosi in piena sintonia con il mio vissuto presso di loro.

Ero finito certo in un accampamento rom per le ragioni addotte negli episodi precedenti, e per quanto non fossi più giovanissimo la mia accoglienza al campo fu positiva. Lo avreste detto?
Per colmo di fortuna il capo era uno di noi, un omosessuale insomma. Nelle loro comunità l’omosessualità è ben tollerata anche se non largamente praticata nelle forme che ci sono note, poiché i favori retroattivi, rettali diremmo in gergo, sono tradizionalmente resi da un soggetto sottomesso estraneo alla comunità. La sottomissione dei membri del campo è un comportamento assai deprecato e si rischia fino all’estromissione. Per questo motivo, soggetti come noi, delle rottinculo si dice nel gergo, vengono accolti come giocattoli in un campo per divenire nel più breve tempo possibile la fonte primaria del loro divertimento.

Dopo essere stato trombato dal capo, che su di me aveva esercitato il diritto delle ius primae noctis, potevo dirmi liberato dal soggiacere con esso. Certo io scherzavo sul mio buco del culo che chiamavo fica, ma assicuro ai lettori che dopo la scopata con il capo, che vantava un cazzo largo e grosso come una lattina di birra, io mi preoccupai abbastanza. Come perché.
Intanto mi aveva fatto male. Ma che sborrate a cazzo moscio.
Ma come dire…. avevo il culo disfatto del tutto, un cencio inguardabile di carne che mi si risvoltava in esterno, che manco più fica poteva dirsi quella cosa lì, tanto che mi par che il mio culo potesse dirsi il culo un babbuino.
E ciò mi disorientava, poiché temevo l’irreversibilità di una inguardabile estroversione del retto. Oh, e badate bene che avevo soggiaciuto col capo dalle 7 del mattino fino alle 15. Tre sborrate e prima di sborrare campa cavallo, ci passava ore a impalarmi senza darmi il tempo di bere dell’acqua o fare una scorreggina.
Niente di niente. Giù, sotto, a scrofa.

Avevo il disagio di un culo sgalabrato. Avevo come dire al posto dell’ano… un tarallo, tanto mi parve in quei giorni il mio buco del culo, così, rivoltato di tutto punto come un osceno calzino. La cosa non mi piaceva affatto, preferendo dunque per me la consapevolezza della mia fessurina come dire integra ad una zampogna invereconda senz’arte né parte. Camminavo per il campo come una nuda bertuccia, coprendomi di tanto in tanto le natiche e sorridendo sorniona ad ogni zingareggiante passare in quel campo, affinché la mia faccia da culo potesse distrarre dalle deficienze innaturali del mio malandato culetto.

All’epoca il fisting era poco praticato in giro, e non vi erano di certo le conoscenze adeguate che ci sono oggi, intendo dire internet, i forum, una pornografia progredita e di facile accesso. Non conoscevo nessuno che potesse dirmi tranquillo è tutto normale. Temevo di contro che dopo il sollazzo col minchione ne avrei pagato le prodezze, indossando pannoloni a vita, ed io ero troppo giovane e carico di voglie ancora inesplorate per ridurmi ad andare in giro già cosi presto con dei pannoloni...
Per fortuna però dopo la scopata col capo nel campo di certo non mi mancava l’ozio, non già inteso come noia, ma come stato di grazia, caro ad Epicuro, per cui ogni cosa del mondo viene letto con una luce nuova, una luce pulita, salvifica, lontano da distrazioni di sorta.
Giovavo della quiete più generale, poiché diciamocela tutta, a chi il mio culo di bertuccia potesse mai scatenare gli appetiti di un qualsivoglia individuo disposto ad esperire su di me subitanee ingroppate.

Per mia fortuna allora, come per una indulgenza plenaria rilasciata dal gran capo, venivo lasciato “libero” nel campo a ciondolare un attimino sciancata ma felice, e godere così di un ampio soggiorno primitivo tra le loro roulotte, tra gli scoli, i bagarozzi e i mocciosi del campo.
Vagavo per il campo da circa tre giorni, e contrariamente ai membri della comunità, io restavo pressoché in abito adamitico, salvo una mutandina bianca che mi ero portato dal collegio, e che nei giorni seguenti perse il candore iniziale, inzaccherandosi ovunque visto che nel campo non si usavano sedie pulite, bidet e cessi civili.
Mi piaceva molto star con loro. Era come se questo essermi liberato di tutto, della mia erudizione, della scuola, della famiglia, mi avesse dato accesso ad un primitivo stato di grazia.
Di maschi ne vedevo pochi, poiché cosa vuoi erano sempre molto affaccendati per la città a “lavorare”. Anche le donne lavoravano per appartamenti e supermarket ma erano sempre le prime a rientrare.
Con loro, intendo con le donne, avevo instaurato un buon rapporto. Le aiutavo a cucinare e a picchiare i figli. Avevo imparato a sputare come una vera donna del campo, infatti fui impiegato ora per quella roulotte ora per l’altra, a sputar sui mocciosi quando facevano le loro marachelle. Una baby sitter. Ma poi tutto di quella vita mi piaceva, certo era impegnativo rincorrere i mocciosi a sputar su di loro ma poi mi rilassavo a stendere il bucato, lavato a mano a pochi metri dal campo, presso lo sversamento di Fontanile Visconti.
Devo ammettere che quando le donne e gli uomini svuotavano il campo, i ragazzini si vendicavano molto con me, infatti mi prendevano a badilate, a sassate e a bottigliate.
Siccome sono un tipo spiritoso, io come dire urlavo come una pazza e correvo ignuda qua e là lasciando che i ragazzini si piegassero dal ridere. Mi rincorrevano e mi tiravano ogni cosa e io mi divertivo con loro di essere la Maddalena.
Proprio io glie lo chiedevo espressamente di chiamarmi La Maddalena ma loro non so perché, si ostinavano a chiamarmi Cacà, che credo nella loro lingua volesse dire Maddalena per l’appunto e non di certo merdaccia, spero.
Siccome si ostinavano però a darmi della Cacà, io un bel giorno chiarificai la mia posizione, e dissi loro basta. Dissi testuale: basta, io sono la Maddalena, dunque lapidatemi.
La risposta fu immediata, mi scaraventarono un tavolo da picnic sulla faccia con tanto di imballo ed evidentemente rubato alla Coop. Son sicura di questo guarda perché c’era il prezzo con tanto di scritta. Coop.

Non mi piacque molto.
Quando alla sera il campo si ripopolava di uomini allora l’aria cambiava.
Ricordo che nel villaggio fu organizzata una delle tante sordide feste all'aperto con tanti fuochi, grigliate, maschi e cani randagi.
Le donne mi avevano preso a ben volere. Ogni qual volta uno dei loro maschi picchiava una di loro io coraggiosamente accorrevo e facevo subito la scema, la paperella, la checca insomma. Non che io fossi checca. Noooo. Ma avevo intuito che questo mio modo di fare stemperava gli animi collerici dei maschi e tutto questo rasserenava le donne, tanto che anche loro nei festini prendevano parte con più predisposizione d’animo, contribuendo a fare di me la scema del villaggio, e tollerando i pubblici bocchini a cazzi ubriachi che menavo di qua e dellà.
Passavo di cazzo in cazzo mentre si suonava e si ballava alla luce dei falò, e non ero poi così a disagio messo a quadrupede perché non ero solo, ma in compagnia di molti maschi, per altro discretamente puliti, perché non si pensi che l’igiene intima degli zingari sia del tutto deficitaria.
Con me c'erano dei cani che mi annusavano nelle mie pregiatissime attività di bocca. Ecco, quelli mi davano un attimino fastidio. Qualcuno di loro mi annusava i genitali, mostrava curiosità per i miei odori rettali e tentava l'assaggio, ma Knifo, un nano balordo con il debole per i culi odorosi, li scacciava via e mi stava di impaccio tra le chiappe leccandomi il culo e sorseggiando vodka.
Ogni tanto sopraggiungeva qualche sputo, la verità, o torsolo, o buccia di frutta, lanciatami mai con disprezzo ma per gioviale scherno di burloni, che personalmente gradii moltissimo in quella nostra comune ilarità.
Avvolte mi lanciavano i cani addosso ed io correvo, accidenti se correvo. Strillavo e correvo, e i cani inferociti mi inseguivano e io a zigzagare tra i falò urlando oddio sono cristianaaaaaaa!!!

Ma allora tutto questo non so perché piaceva. Che ti posso dire. Urlavano e ridevano tutti come dei gran matti, erano un centinaio di mattacchioni con una gran voglia di sfrenarsi alla sera dopo penosi furti o pescaggi tra i rifiuti urbani, e fa niente se non capivo il loro idioma, io mi ci divertivo e basta.

Qualcuno mi dava della zozzona, anzi no, "a sozzona", segno che nell'orgoglio rom c'è della volontà esordiente di integrarsi con la lingua italiana. Questo è sociologicamente importante.

Passando di cazzo in cazzo, facendone felice qualcuno lasciando che mi sborrasse in bocca, pensavo che mai più avrei sofferto nella mia vita ... e che fino a quando sarei stato una felice vitella, mi sarei tenuto alla larga dal lirico amore, e dunque alla conseguente sofferenza cui ci trascina quando ne siamo affetti.
Il culo era guarito. Rientrato.
Devo riferire che in una di quelle sere, qualcuno intravvide nel mio sbocchinaggio non proprio una pratica pertinente ad un giullare un tantino finocchio da schernire con benevolenza e con una punta di disprezzo. Qualcuno vide in me qualcosa di più, vide come dire la suina perfetta, non solo per inocularle in gola i copiosi schizzi di sperma, ma quel mio culo, dalle evidenti contrazioni e dai vistosi rilasci, invitava gli affanni dei più eccitati giovanotti del campo, ora incapaci di trovarsi moglie ma soggiogati dalle spietate voglie da branco.
Per questa ragione io credo ognuno dovrebbe compiere l’esperienza del campo.
Stavo china china e bella ubriaca tra le cosce di un tale, immersa tra le luci rosse dei falò, e bersaglio immobile di cicche, bicchieri e sputi, quando tre ragazzi sopraggiunsero di fianco. Contrariamente alle espressioni facciali degli sbocchinati, costoro avevano una espressione seriosa e par che respirassero a narici dilatate.
Mi sollevarono tenendomi per le ascelle e i gomiti, ed io sculettando come una scema salutavo tutti. Mi diressi con loro fuori dalla bolgia festante, salendo per monticelli di discarica poco fuori gli ultimi camper, e lì, sotto la luna, nell’azzurro lunare di calcinacci e porcellane da cesso, fui stuprato con una premurosissima brutalità.
Fu carino perché in una notte senza nuvole, sotto la lucida volta celeste e con il vociare e la musica lontano, io mi concessi a loro con l’abile competenza della scrofa, lasciando che mi sversassero dentro milioni e milioni di cellule spermatiche.
Io di certo non mi astenni dal compiere la mia parte, e mi prodigai a deglutir di culo gli spermi di quei ragazzi. Avevo tenerezza per quei milioni di ottimisti esserini insufflatimi nel culo ed uccisi a tradimento senza un solo ovulo da fecondare, poiché come è noto, non v’è figa sottratta alla procreazione della specie di un tubo digerente possibilmente dei più rotti.

Ma l’esperienza più inebriante per me fu quando invece otto di loro mi portavano più in là, nel buio fitto di un bosco ceduo esteso fino al fiume, ove il baccano e la luce dei falò si attenuavano in soffusi mormorii e lasciavano alle acque vicine del fiume il dolce cantico del suo moto fatto di piccole onde notturne. Ed io, nel suono primordiale dell’acqua, mescolavo al cantico delle notti immortali i gemiti della vitella svitata.
Era lì che mi abbandonavo. Lasciavo che tutti mi si attaccassero alla mammella o litigassero fra loro nei pressi del culo per fregiarsi il titolo del primo venuto, già che anche questo è noto, ossia che un culo tira di più della fica quando si stringe nella sua prima presa.
Quella sera però, accaddero due cose. Una mi prese il corpo e non fu bella, l’altra mi prese il cuore, e fu bellissima.

Dopo che il branco ebbe riversato dentro di me i secreti della propria lussuria, caddi come morto sulla ghiaia del fiume. I ragazzi restarono immobili intorno a chiedersi cosa mai mi stesse capitando. Fui assalito da forti brividi di freddo. Forse avevo bevuto tanto, forse l’umido del fiume, forse chi sa, forse dentro di me sopravanzava una congestione o forse ancora dentro di me qualcosa o qualcuno supplicava misura ai miei eccessi.
Si che seguitando a tremare, un ragazzo, forse mosso da compassione, levò via la sua maglietta leggera di cotone e con l’aiuto degli altri ragazzi riuscì ad infilarmela nonostante fossi disteso ripiegato del tutto sulla rena. Fui incoraggiato a rialzarmi ma io ricordo che volevo restare così, immobile, a trattenere nella mia nudità appena protetta da quella maglietta quel piccolo lumicino di calore che il mio corpo si ostinava a tenere in vita per tenersi in vita. Ricordo che mi girava tutto. Troppa vodka avevo bevuto e nella pancia non trattenevo solo vodka.
Tuttavia fui imbracciato da alcuni di loro e raggiungemmo i festosi tra i falò del campo dopo una buona mezzora di cammino poiché lo ammetto, incedevo per inerzia e a peso morto, mentre il mio povero ano già rilasciava gli effluvi della miscela di sborra di quegli stessi ragazzi.

Nessuno si curava di me quando sopraggiungemmo al campo, salvo alcuni degli otto ragazzi ed una donna del capo rom, che si affrettò a ricoprirmi le spalle con una pesante coperta di lana. La donna disse ad alcuni di loro di vigilarmi dopo avermi fatto accomodare su di un cordolo a pochi passi dal fuoco. Poi tornò tra gli altri a ballare.
Il tepore allora mi riportò alla quiete e fu in quel momento che tra le faville del fuoco riconobbi di là, oltre le danze, uno dei ragazzi che avevano fatto man bassa di me.
La luce del falò illuminava il mento, le gote e la punta del naso. Furono i suoi occhi a colpirmi. Nella luce quegli occhi brillavano sotto le sue folte sopracciglia e mi fissavano dolci e preoccupati. Lo riconobbi. Era il ragazzo che aveva levato la sua maglietta per restituirmi calore dal suo corpo. Guardai in basso, vidi che indossavo ancora la sua maglietta.
Mi fece l’occhiolino. Gli sorrisi. Al mio sorriso egli rispose con un sorriso e mostrò alla notte i suoi denti adamantini. E per me fu bellissimo.

I miei occhi si chiudevano e lui fece cenno di si con il capo, ed intesi che nella baldoria avrebbe di certo vigilato sul mio sonno.
Fu bellissimo. Per un istante assaggiai l’eterno e per un solo istante, io mi sentii amato.
E così mi disposi supino avvolto nella mia coperta.
E mi addormentai. Felice.





HUNGARIAN RHAPSODY
Autobiografia di un libertino.

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