Intervista a Tinto Brass
Interviste 19.09.2014 12 | Canali: tinto brass eros cinema interviste
Dice di sé: nato da una severa famiglia di origine russa (il padre, nonostante l’educazione anarchica, fu molto rigido), si trasferì giovanissimo a Venezia, dove si laureò in giurisprudenza. È un grande e famoso regista: in Francia è considerato un maestro indiscutibile, i giudizi in Italia sono controversi e hanno suscitato cento polemiche. Per presentarlo, basterebbe l’ironia di una sua frase: “Coi miei film io non procuro soltanto erezioni, ma anche e soprattutto emozioni.” E tuttavia la prima volta che destò scandalo e subì le ire della censura non fu per qualche scena di nudo troppo spinta, ma per aver raccontato, con umori anarchici, i disagi di un giovane che stenta ad integrarsi nella società.
Ovviamente, parliamo del grande maestro dell'eros (e non solo) Tinto Brass.
Per la vostra gioia abbiamo recuperato dal Web la trascrizione dell'intervista del 2008, ma ancora attualissima, rilasciata alla trasmissione "Il Senso della Vita".
Buona lettura.
La scomparsa della Moglie
“Tinta, mia moglie, mi ha dato cinquanta anni di felicità. Faceva anche la segretaria d’edizione, e sul set, la chiamavano, spesso, segretaria di erezione, perché veniva anche a controllare come venivano le scene… Sento la sua mancanza, è morta due anni fa, era, veramente, la mia dolce metà, io mi sento dimezzato. È venuto a mancare quello che era il motore della mia vita, parafulmine della mia esistenza, fonte delle mie ispirazioni, la droga dei miei sogni, il crogiuolo delle mie certezze, il cancellino dei miei dubbi, e soprattutto il fiammifero della mia lussuria, perché con lei il dovere coniugale è sempre stato un piacere coniugale, per cinquanta anni.
Quindi ne ho sentito la mancanza, ne sento la mancanza ancora adesso. So che mi addormento, di sicuro, con una specie di smorfia di tristezza sulle labbra, perché allungo la mano, là dove ero abituato a trovare un culo che non trovo più, e avverto questo senso di vuoto. Ma mi auguro, spero, che lei sia contenta. In definitiva devo riuscire ad elaborare il lutto, e a trasformare questa nostalgia, rabbia, tristezza per la sua morte in un fatto creativo, un nuovo progetto, che può essere sia estetico, sia amoroso, chi lo sa…”.
Parigi
“Parigi è stata la città dove mi sono trasferito, appena laureato, perché tutto quello che riguardava la donna, detto in francese, aveva un suono più accattivante. Ero senza quella che sarebbe stata la mia futura moglie: non aveva accettato di venire a Parigi senza sposarsi. Dopo due mesi che ero là, le ho detto “ma ti sposo, dai vieni, basta che tu vieni a Parigi con me”. È venuta a Parigi ed è là che l’anno soprannominata “Tinta”, perché i francesi sono un po’ pigri. Io ero Tinto e, per semplificare le cose, lei Tinta. Lavoravo alla Cinémathèque Française, che era una specie di Louvre del cinema, 50/60mila pellicole, bellissimo periodo, bellissima esperienza, conoscendo tutti i mostri sacri di una volta: ricordo Jean Renoir, figlio di Auguste Renoir, pittore, e da lì ho preso alcuni fondamenti di quello che sarà poi il mio cinema.
Ci raccontava, per esempio, del padre che gli chiedeva, di fronte al quadro famoso “La zattera” di Géricault, “perché ti piace questo quadro?”. E lui, un po’ impacciato “ma non so bene la storia… cosa rappresenta”, e Auguste Renoir rispondeva: “ma chi cazzo se ne frega della storia! È un’armonia, una bellissima armonia di linee e colori, è quello che fa un bel quadro. E basta questo per darti delle emozioni”. Che è stata, poi, una costante del mio cinema. È il linguaggio, il significante, le armonie delle forme, specie negli ultimi film, proprio delle forme, quello che è il vero contenuto, il significato di un’opera. Ho conosciuto anche i surrealisti come Gatti, e poi i vari Rossellini, di cui sono diventato, a Parigi, assistente, poi aiuto e con lui sono tornato in Italia”.
Lina Merlin
“Si è chiusa una vicenda triste, iniziata nel ’48 e conclusa nel ’58. Per dieci anni, noi giovani, vivevamo sotto l’incubo della chiusura dei casini, delle case di tolleranza. La Merlin aveva lanciato questa campagna. Noi eravamo tutti minorenni. Avevamo 16 anni, le ruffiane ci accettavano, e facendo finta che eravamo maggiorenni, ci facevano entrare nel casino.
Ma era un’ossessione, perché si continuava a parlarne. Poi si rinviava. Tutti temevamo di non riuscire a fare in tempo a godere di questo privilegio. Ovviamente, poi, nel ’58 furono chiusi. Ricordo, all’epoca, Dino Buzzati, scrisse un articolo sul “Corriere della Sera” che non ho mai dimenticato: “La chiusura dei casini è una perdita per la cultura erotica, pari all’incendio della biblioteca di Alessandria d’Egitto…”.
Forse andrebbero riaperti. Ma il problema è, essenzialmente, di ordine pubblico, perché bisognerebbe dare il permesso di soggiorno, riconoscere il diritto, a queste ragazze dell’est che vengono ad esercitare la professione. Che poi è una professione come un’altra. L’operaio vende un braccio, il calciatore una gamba, la puttana la vagina. Non ci sono differenze d’altro genere. E quindi, penso che, forse, andrebbero riaperte”.
Il giardino delle delizie
“Bosch, “Il giardino delle delizie” è un mio punto fisso. Ogni tanto, cito, alcuni frammenti, alcuni dettagli, di questo quadro anche nei miei film. C’è nell’ “Urlo”, per esempio, un gruppetto di donne, posizione alla pecorina, con dei maschi intorno, e nel buco del culo hanno dei mazzetti di fiori. L’immagine è molto poetica. Io sono di formazione figurativa più che narrativa. Sono nato a Venezia, mio nonno era pittore, collezionista. Ero bombardato da immagini, l’arredo urbano, le chiese, i quadri. È quello, veramente, che mi ha formato e a cui sono particolarmente legato. La pittura, dunque, quella di Bosch, ma anche i surrealisti…
Vedo che chi sa leggere meglio i miei film, sono, in realtà, critici d’arte figurativa o addirittura pittori, architetti. Bisogna riconoscere – questo è un altro insegnamento che ho portato con me da Parigi – che il significante, il linguaggio è l’elemento più importante, di un film, per me. Poi c’è stata questa deriva contenutistica pazzesca, quella che faceva, per esempio, dire a Pasolini, che “non si sa più distinguere la barzelletta sul marito cornuto dalla novella di Boccaccio”. Raccontano la stessa cosa, ma è il modo, è il linguaggio quello che fa la differenza. E io sono rimasto fermo, così, al primato della forma del linguaggio”.
Stefania Sandrelli
“Stefania è stata una grande, è una grande donna. Con lei ho fatto “La chiave”, nel 1983. Lo avevo proposto a tutte le attrici del cinema italiano. Da Sophia Loren, attraverso Ponti – che mi disse “Ma cos’hai, sperma nel cervello”, non capiva – a Silvana Mangano, ma Dino non ne voleva sapere, Lisa Gastoni, la Antonelli. Ma tutte, per un motivo o per un altro hanno rifiutato. Lei, così, naturalmente trasgressiva, e generosa, e sensuale vera, donna vera, mi ha detto “Perché no? Lo faccio”. E mi ricordo che era stata molto bella la lavorazione. Ogni tanto mi piace mimare, soprattutto quando si ha a che fare con un attrice così in carne, l’azione che deve fare l’attore, il partner.
Per esempio: “Adesso, Branciaroli, ti bacia sul collo”. Allora, le andavo vicino e la baciavo sul collo. E lei si scioglieva. Era di una sensualità totale ed era molto bello. Mi faceva piacere. Ho avuto un attimo di perplessità il giorno che, finito il film, montato, ho fatto una proiezione a Cinecittà: lei si è guardata, in silenzio, e poi è scappata via. Ed io ho pensato: “Cazzo! Vuoi vedere che si è incazzata, si è offesa”. Poi le ho telefonato, le ho detto: “Stefania che è successo?”. E lei “No, niente. Ero assolutamente convinta, contenta… sono orgogliosa di aver dimostrato che so recitare anche col culo”.
Bollo censura
“Questa è una lunga vicenda, che mi ha accompagnato per tutta la vita. Qualcuno ha detto che ho avuto più problemi di censura io, che Niki Lauda incidenti sui circuiti di Formula uno. Dal primo film “Chi lavora è perduto”, anzi, all’epoca s’intitolava “In capo al mondo”: era il 1963 e la legge sulla censura era diversa da quella di oggi, che può intervenire solo sull’osceno e il buon costume; allora s’interveniva proprio sul merito. Nel film raccontavo il disagio e la rabbia di un giovane rispetto al mondo, così come gli si presentava agli occhi. Quindi avevano detto che era contrario alla famiglia, alla patria, alla costituzione, alla religione, all’esercito, a tutto. E mi dissero “lo rifaccia, Brass, lo rifaccia”. Io, invece, puntiglioso, sapevo di avere ragione, e contavo, anche, su degli escamotage simpatici, dell’Italia. Era, intanto, nato il primo governo di centro-sinistra, il quale voleva dare qualche segno di cambiamento. Per cui, mi aveva detto il nuovo ministro, che credo fosse, Corona: “Guarda, metti un altro titolo. Facciamo finta che sia un altro film e te lo passiamo”. E così è stato. Da “In capo al mondo” è diventato “Chi lavora è perduto”. Non ho tagliato niente ed il film è passato. Ma da allora in poi, ogni film ha avuto dei problemi di censura o di magistratura. Dalla magistratura, alla fine, devo dire, sono sempre stato assolto, perché si instaurava un dialogo, riuscivo a farmi capire. Caso clamoroso è stato quello di “Caligola”, per il quale ho dovuto passare tutti e tre i gradi di giudizio.
Solo in Cassazione sono riuscito a dimostrare, al magistrato, che non potevo esser considerato responsabile per un film, per il quale avevo girato 180mila metri di pellicola, e ne erano stati estrapolati 4mila dalla produzione per fare il montaggio… dunque con quei 180mila metri di pellicola, potevo fare chissà quanti film diversi. Era chi aveva fatto il montaggio, responsabile del film e quindi perseguibile penalmente. Portavo alcuni esempi per rendere più chiaro il concetto. Loro mi dicevano “ma lei quelle scene le ha girate”. “Sì, le ho girate. Anche un fabbro crea un pugnale o un coltello, ma non per questo è considerato un assassino. Anche il ginecologo mette due dita nella fica della donna, ma mica per quello è un perverso”. E finalmente hanno capito. Il montaggio è un momento fondamentale, fondante, determinante per poter attribuire la paternità di un film.
In genere, le ragioni della censura, sono quelle dei cerberi e dei cani da guardia del potere. Ed è anche abbastanza umiliante fare il censore. Star là, a misurare tra i peli pubici, la temperatura della morale, quello che è permesso e quello che non è permesso. Non si capiscono le ragioni… Adesso, oramai, sono ridotte al buoncostume, ma anche là… vale soprattutto per la televisione, perché dare un divieto ai 18 anni, significa non permettere che il film vada in televisione. E questo è un argomento che, essendo in campagna elettorale, non si può affrontare… Quando parlo di una deriva censoria… viviamo in uno stato che è stato uno stato di diritto, ma sta, lentamente, scivolando in uno stato pedagogico, quindi etico, quindi teocratico, quindi, sotto sotto, totalitario, per cui c’è un’atmosfera censoria che aleggia tra i benpensanti. Non sono permesse le pubblicazioni delle intercettazioni telefoniche, i film vietati ai minori di 18 anni non possono passare in televisione, vogliono abolire i film porno anche di notte, vogliono prendere provvedimenti contro le puttane e chi va a puttane. Sono tutte forme censorie. E sono i cerberi, i guardiani del potere quelli che pongono questi divieti, queste proibizioni”.
Aldo Moro
“Veramente di politica, mi sono sempre occupato per fatti legati all’etica, alla morale. Mi ricordo, però, che all’epoca ero stato avvicinato da qualcuno di una rivista chiamata “Metropolis” e mi aveva chiesto non la militanza, ma di accostarmi a questi movimenti… e, nell’intervista, gli dissi: “Ma io non so chi siete, come la pensate, come scopate, che film vi piacciono. Per me sono tutta un’astrazione questi vostri comunicati, pieni di parole, ma non mi danno l’idea di chi, esattamente, siete come esseri umani” ed era quello che mi interessava sapere. Per cui ho sempre preso le distanze. Certo, il fatto è stato clamoroso, grave, quasi incredibile, però siamo passati anche attraverso quello.
Pensavano che fossi sensibile alle ragioni dell’antipotere, della contestazione. Sono appena stato a Parigi, per via dei miei film erotici. E lì hanno detto: “i film di Brass, più che erotici, sono eretici”, nel senso che c’è un atteggiamento lontano dalla vulgata comune, anche sul sesso, per esempio. Ed erano eretici anche all’epoca. Il film “L’urlo” del ’68, sul sessantotto, non era stato accolto chissà come… era stato proibito per sette anni, perché c’erano battute che spiazzavano questi integralisti, a modo loro. C’era, appunto, una battuta, durante l’occupazione di un villaggio, di Tina Aumont, bellissima, grandissima attrice, forse la donna più bella con cui ho avuto a che fare su un set, che violentata da queste soldataglie, sanguinando si avvicinava ad una fontana, per lavarsi, e dice “ma che me ne frega a me della guerra, se continuo ad avere difficoltà di orgasmo”. E questo faceva incazzare i giovani dell’epoca, che pensavano che non fossi politically correct. E se c’è una cosa che detesto, la vera censura è ilpolitically correct, la par condicio, e cose del genere. Sono tutti sistemi che impediscono alla gente di dire come la pensa, esprimersi in libertà”.
Nanni Moretti
“Lui è bravo. Devo dire che mi ha sorpreso. L’hanno scorso come direttore del Festival di Torino, mi ha invitato… è stata una telefonata curiosa. “Sono Nanni Moretti”, gli dico “Sì, sei Fiorello”, sai che imita Moretti. “No, no, sono proprio Moretti”. Siccome c’erano stati degli scazzi, avevo detto che trovavo i film di Moretti lassativi, con una funzione da purga, mi aveva sorpreso che lui mi invitasse. Faceva una retrospettiva dei film dei primi anni sessanta, ed era presente, tra gli altri, anche il mio. Poi, devo dire che al Festival, c’è stato un dibattito molto simpatico, dove lui ha ammesso che il mio film gli era piaciuto più di tutti, perché invecchiato meno. Perché le mie curiosità sono, sempre, state quelle linguistiche: e il linguaggio non ha età. Ed è stato simpatico, perché ha cercato di giustificare certe mie prese di posizione. Al che gli ho detto “Guarda che i lassativi, a volte, si prendono anche a fin di bene”. Lo apprezzo, dunque, e l’ho ringraziato, pubblicamente, perché è stato simpatico. Gli ho anche detto che sarei andato a vedere il film, non era ancora uscito, “Caos calmo”, per giudicarlo come attore erotico, ma non l’ho ancora visto”.
Incendio alla Thyssen
“Gli incidenti sul lavoro sono scandali infiniti. Si ripetono costantemente ogni giorno, con un effetto molto grave, quello dell’assuefazione: uno si abitua a vedere questo stillicidio di morti, come se fosse un fatto assolutamente normale, naturale, con cui si debba convivere. È un po’ lo stesso discorso che si ripete con la guerra. Ormai passano tante immagini violente, brutali, di massacri… che la gente non ha più quella reazione di rifiuto, di scandalo di fronte a fatti di questo genere, che invece dovrebbe avere per poter por fine a questi fenomeni. E una cosa molto triste e molto dolorosa”.
Claudia Koll
“Ho visto, qualche sera fa su Sky, “Così fan tutte”, e devo dire che Claudia Koll era davvero una bravissima attrice. Ho visto con gran piacere il film: non è invecchiato affatto. Lei faceva, in modo delizioso, questo ruolo di donna frivola, che rideva, sorrideva, trasgrediva – era basato sull’opera di Mozart e Da Ponte, e citava un suo ritornello “La fedeltà delle donne è come l’araba Fenice, che ci sia nessun lo dice, dove sia nessun lo sa” – e lei, devo dire, erasplendida, perfettamente calata nel ruolo, nella parte, come attrice, fisicamente… ed anche la lavorazione è stata piacevolissima. Mai visto, mai sentito che fosse a disagio.
Per cui sono rimasto molto colpito da quando ha avuto questa specie di folgorazione sulla via di Damasco… io non so, non mi intendo di fede, sono tranquillamente ateo, o per dirla con Voltaire “sono ateo, grazie a Dio”, o per dirla in veneziano “sono ateo, sperando che Dio non se ne accorga”. Ma insomma, non ho di queste problematiche, quindi non so cosa le sia successo. Mi è capitato di incontrarla ad una trasmissione televisiva, lei mi ha visto ed è andata via. Evita, perché probabilmente, teme che i fotografi possano riprenderci insieme. Dunque non so e non voglio, ma devo dire che interpreta questo ruolo di donna ispirata molto bene, così come faceva molto bene la donna frivola, all’epoca”.
Il femminismo
“Sono stato aggredito dalle femministe, quando ho fatto “Paprika”, perché la frase di lancio diceva “Tinto Brass riapre le case chiuse”. C’era, un giorno, un dibattito a Napoli, e loro sono entrate con dei gran rotoli nascosti, che poi hanno aperto e c’era scritto “Morte a Tinto”, una cosa che avevano fatto anche con Fellini. E la Banotti era salita sul palco, dove c’ero io con la Moana Pozzi ed altri, e mi hanno rovesciato addosso un cesto di ghiande. Le ghiande sono, per essere chiari, il cibo dei porci. E poi una mi ha dato un cazzotto, mi ha fatto volare gli occhiali. Erano delle virago, le “uomine” le chiamavano a Napoli. E mentre loro mi menavano, c’era Tinta, mia moglie, in prima fila che mi diceva “Faglielo vedere, tiralo fuori, faglielo vedere che scappano…”.
Io le chiamavo le femmine isteriche, perché erano forme di isterismo… e le femministe storiche sono state smentite dalle femministe di oggi. Camilla Paglia riconosce, per esempio, che sia pienamente legittimo che una donna faccia la puttana. Ho scritto una lettera aperta a Monica Lewinsky, che ho trovato geniale. Questa che invade la sede del potere per fare sesso, invece che per fare guerra o far condannare a morte. E tutte si sono scagliate contro di lei, soprattutto queste maitresse-à-penser, che le dicevano tutto e il contrario di tutto, che era una maiala, una porca, una sentimentale, un’ingenua, una stupida, salvo che dirle quello che avrebbero dovuto dirle, che avrebbero voluto tutte essere al posto suo, nella sala ovale.
Faccio una precisazione: sono molto più popolare tra il pubblico femminile, che tra quello maschile. Quando cammino per strada sono le donne, le prime, che mi vengono a chiedere l’autografo, una fotografia. Le donne sanno che io le amo, innanzitutto, in modo incondizionato. Mi piacciono comunque, sempre: capricciose, frivole, sentimentali, umide… e anche qualcos’altro. Mi piacciono. Anche il film che sto preparando adesso “Ziva” è un omaggio al femminile, all’intelligenza e alla vitalità femminile come unica speranza per salvare il mondo. Perché, ormai, credo poco in tutte le rivoluzioni e nella riproposizione, costante, di tutti i vecchi miti maschili. E credo che, se c’è una speranza, è nel mondo femminile. E credo che questo lo percepiscano le donne. Lo sanno. Vedo il modo in cui mi accolgono. Non sono mai sprezzanti. E poi nei miei film, faccio della donna la vera protagonista, non un elemento surrettizio per rendere più popolare il film. La donna è la protagonista, poi ci sono un po’ di uomini attorno, che, quando s’innamorano, si rivelano per quello che sono, stupidi, patetici, molto spesso stronzi. Perché non accettano questa autonomia, indipendenza, intraprendenza femminile”.
Rocco Siffredi
“È un mito. Malaparte aveva detto che il vero vessillo dell’Italia non era il tricolore, ma l’uccello in erezione. E lui lo rappresenta al massimo. È molto simpatico, Rocco Siffredi è anche molto intelligente. Avevo tentato di fare dei film con lui, prima che lo facessero i francesi come la Breillat. Hanno fatto dei brutti film, e non per colpa sua, ma per la mentalità contorta, chiacchierona, intellettuale, dei francesi, che hanno trattato l’argomento così come non andava trattato. Avevo cercato di fare un film con lui, proprio uno di questi ultimi, ma ho avuto la difficoltà di farlo accettare ai produttori, qui in Italia, che pensavano non fosse il caso. E invece è bravo, professionale, non ti delude mai”.
Il burqua
“Quella è una cosa che proprio non capisco, da cui mi tengo alla larga. Leggo dai giornali che, quando ci sono dei momenti d’apertura, dopo le guerre, improvvisamente, appaiono dei miei film in paesi dove non erano mai stati presentati. Evidentemente, ci sono delle forme di occultamento, di repressione della femminilità che fanno parte di una cultura che non conosco e non condivido, e da cui sono lontano mille miglia. Una cultura che non mi interessa conoscere, per il fatto che costringe una donna a travestirsi in questo modo… non come al carnevale di Venezia, dove il travestimento è usato per compiere delle trasgressioni… Dovrei cercare di capire quali sono le motivazioni storiche di cose di questo genere e, comunque, cercare di capire come mai si continua ad assistere a tali fenomeni”.
I figli, l’amore, il Vaticano…
“Ecco, questo è un tema centrale. Ho due figli, un maschio, una femmina e tre nipoti. Però aver dato alla sessualità solo una funzione riproduttiva è un crimine che è stato perpetrato dalla chiesa e da tanti intellettuali che si sono adagiati su questa posizione. La sessualità ha, almeno, due funzioni: quella procreativa e quella ricreativa. Non esiste che, un ragazzo e una ragazza, la prima volta, vanno insieme per procreare, vanno per scopare, per fare sesso. Poi su questo sesso, su questa attrazione fisica può nascere anche il sentimento, l’amore. Che cosa è in definitiva l’amore? Sfatiamo, una volta per tutte, queste chiacchiere così ridicole che si sentono in giro: l’amore è un sentimento che si esprime con il linguaggio del sesso. Se non c’è sesso, non si può parlare d’amore. Sarà affetto, amicizia, simpatia, altre cose. L’aver confuso il sesso riproduttivo con quello ricreativo ha creato tutti questi tabù, paure, fobie. Per cui tanti, che fanno sesso senza procreare, proprio perché sono posti tutti questi paletti, norme, comandamenti, divieti, si sentono in colpa. E sentendosi in colpa – ed è il meccanismo forte della chiesa – vanno in cerca, per essere assolti, di quelle stesse autorità che hanno posto i divieti.
Questo non aveva capito Stalin. Quando il Vaticano entrava al fianco delle potenze e Stalin chiedeva “quante armate ha il Vaticano?” e gli dicevano “nessuna”, rispondeva “allora non ce ne frega un cazzo”. Non aveva capito che il Vaticano aveva questo potere di moral suasion. Questo coacervo di norme, divieti, comandamenti viene conservato perché tutte le autorità preferiscono avere a che fare con gente frustrata, complessata, piuttosto che con gente sessualmente serena”.
Wojtyla
“Già capivo poco il precedente, Wojtyla. Cioè, lo capivo politicamente, era anche abile, bravo. L’attuale, proprio non lo capisco. Io ho un bellissimo progetto, che non ho ancora fatto, e non smetterò di far cinema fino a quando non riuscirò a farlo. Ed è sulla famiglia Borgia. Papa Alessandro, il Valentino, Lucrezia… Era un grandissimo Papa, non c’è dubbio. Ma era anche un Papa che diceva “io non posso credere a Dio, perché sono un politico”. Ed è ancora un potere politico. Tanto è vero, che negli interventi politici, parlo di Papa Wojtyla, soprattutto, uno può riconoscere delle ragioni forti, profonde, storiche. Quello che non condivido, non capivo e continuo a non capire, anche in Papa Wojtyla, era, in questa perfetta architettura che è la religione cattolica, la questione della morale sessuale, che è il punto debole, stranamente, proprio perché si rifà a quell’idea della sessualità procreativa. Parlano di sublimazione, che vuol dire cancellazione, degli istinti naturali. Per questo hanno paura di quegli istinti naturali che sono assolutamente innocenti. Non c’è colpa nel fare sesso. Bisogna inculcarlo il sentimento della colpa.
Sgarbi, un giorno, ha fatto un mio profilo, bellissimo. Trattava questo tema, e diceva, sì, che sono stato attaccato, che hanno chiesto la scomunica a divinis. Io parlo di sesso che è amore. “Non c’è nessuno più vicino a Dio di Tinto, perché Dio è amore”. Ed è una battuta che c’è nel mio primo film. Due andavano a fare l’amore in cima ad un campanile, la ragazza faceva un po’ la reticente e lui diceva “Dai coccola, che siamo più vicini a Dio, qua. Dio è amore, non lo sai?”.
Caterina Varzi
“Il bello è lo splendor del vero. Si chiama Caterina Varzi ed è la protagonista del film che mi accingo a girare, “Ziva”. È stato un incontro molto curioso. L’ho conosciuta, la prima volta, in qualità di avvocato. Era venuta per farmi firmare un contratto per un dvd, che poi non si è fatto. In realtà, si è trasformato in un altro progetto, più ambizioso, in cui lei interveniva anche come psicanalista, perché lei è una psicanalista junghiana, della scuola di Aldo Carotenuto. Ed è lì che è nata una reciproca seduzione: lei per la persona Tinto Brass, man mano che andava spogliandola dagli stereotipi del personaggio, per enuclearne l’anima, gli junghiani hanno questo pallino fisso. Io, per l’espressività ardente, splendida, del suo volto inconsueto e bellissimo, cangiante vivo, come i riflessi della gibigiana sotto i ponti di Venezia, sempre pieno di vivacità.
Per l’aspetto intrigante, delle sue domande intelligenti, e soprattutto, per la conturbante sensualità del suo corpo di donna vera, non artificialmente rifatta, man mano che andavo spogliandola dai panni e dai vezzi della strizzacervelli, per enuclearne l’eros. Non so se Caterina abbia trovato la mia anima, alla fine di questa operazione. Io son certo di aver trovato in lei la conferma alle mie primissime intuizioni. Quella di averla vista come protagonista di “Ziva”, il film che sto preparando. Si svolge su un isolotto, durante la seconda guerra mondiale, nel 1940: lei è la guardiana del faro, sola, perché il marito è andato in guerra, e il mare le ributta sulla battigia e sugli scogli dei cadaveri, ma anche tre naufraghi, uno dopo l’altro. Un marinaio veneziano, un paracadutista inglese e un graduato nazista, scoglionato, ma scoglionato, letteralmente, perché aveva anche perso i coglioni. E lei accoglie questi tre naufraghi, li cura, li nutre e li ama, e cerca, contemporaneamente, di recuperarne questa umanità mortificata dagli orrori della guerra, cercando di convincerli di smettere di combattere.
Tanto è vero che tutto è commentato dalla bellissima poesia canzone di Boris Vian “Le deserteur”. Alla fine, la guerra termina, il marito ritorna, capisce subito la situazione, i naufraghi anche, ognuno torna a casa sua, e lui racconta a Ziva che era successa a lui la stessa cosa, che era stato fucilato, raccolto da una contadina magiara, che lo aveva curato, assistito, e amato. Così come aveva fatto lei con i tre naufraghi. Questo è un discorso sull’amore, ma anche unapologo sulla intelligenza e la vivacità femminile, ed è un pamphlet violento contro la guerra. Solo nel femminile, pongo la speranza che si possa abolire, per sempre, la guerra e renderla un tabù vero.
Tinto Brass
“Questo sono io, con riflesso, negli occhiali, una delle mie ossessioni, sulla quale ho anche scritto un libretto “Elogio del culo”. Il mio senso della vita vorrei dirlo con la battuta di un mio film, che era “Il disco volante”. Vedo che piace più adesso che quando l’ho girato, quarant’anni fa. C’è una scena dove si vede Sordi, nei panni di un intellettuale di provincia, impiegato alle poste, che recita alla Monica Vitti, in macchina, un po’ scosciata, dei versi dell’antologia di Spoon River. “Dare un senso alla vita può portare alla follia, ma una vita senza senso è una barca che anela al mare, eppure trema”. E Monica Vitti lo interrompe e gli dice “Dimme porca, che mi piace di più!”.
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