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Ti amo, sconosciuto!


di Singleforme
12.03.2024    |    5.160    |    4 8.6
"Chi era quell’uomo? Perché era così diverso da come si era mostrato? Come avevo fatto a sbagliarmi nel giudicare qualcuno? Man mano che ci allontanavamo dal..."
Quando decisi di concedermi, non potei fare a meno di farlo mettendo un annuncio su un sito di incontri. “Cerco dolcezza per la mia prima volta…”, o qualcosa di simile. 
Non sono mai stato malato di sesso e non volevo “darmi” a qualcuno che mi avrebbe reputato il solito oggetto con cui si sarebbe liberato dalle proprie frustrazioni. 
Forse è per questo che l’annuncio fu ignorato per diversi mesi (ovviamente non cito gli approcci dei perversi che godevano anche solo scrivendomi “cosa ti farei”).
Non avevo fretta di concludere e volevo che ogni cosa fosse stata come l’avevo immaginata. In quel periodo ero irrequieto, mi sentivo come se avessi qualcosa da farmi perdonare. E pensare di patire il dolore della prima volta per soddisfare qualcuno, sarebbe stata una bella prova d’amore, ma tutto ciò non sarebbe stato realizzabile se non avessi trovato qualcuno che, almeno in quel momento, avesse provato per me un po’ di affetto.
 
Quando l’uomo gentile mi scrisse che ero esattamente quello che stava cercando, ebbi molta paura. Di solito sono le persone che vedi più simili a te quelle che ti danno la fregatura. Provai a tirarmi indietro, ma più lo facevo, tanto più quell’utente mi tranquillizzava: “So che temi la tua prima volta, ma ti prometto che starò attento”. Anche se non avevo mai sentito la sua voce, il tono pacato e le sue premure mi si riversavano addosso prepotenti, mi accarezzavano l’anima. Tentai più volte di chiudere la conversazione, ma ogni volta che provavo a farlo il richiamo di quelle premure mi rapivano, facendo vibrare ogni parte di me. Restammo in contatto per molto tempo, senza mai scambiarci il numero di telefono: non volevo permettere a quella nuova emozione di instaurare un vincolo, né volevo che tra noi si creasse un legame stabile che avrebbe finito per rendere instabile l’occasionalità di quell’incontro, trasformandolo in un elettrocardiogramma piatto.
 
Non scelsi a caso il giorno adatto a incontrare l’uomo misterioso - sono una persona che non sa mentire e il tradimento mi si sarebbe letto negli occhi a chiare lettere. L’occasione mi si presentò il giorno in cui mia moglie mi disse che, a differenza delle altre volte, sarebbe rimasta fuori fino a tardi.
La cosa che più mi entusiasmava era che lui non sapeva volessi incontrarlo il giorno stesso: non volevo si preparasse.
Glielo dissi a bruciapelo: “Se ti chiedessi di incontrarci oggi?”
“Ne sarei davvero felice”. Sembrava sinceramente commosso, forse trattenuto, ma rispettoso. “Ma voglio che ne sia convinto. Non farti prendere dalla fretta, saprò aspettarti per tutto il tempo che vorrai”.
È incredibile quanto quelle sue parole mi avessero sedotto. Sentivo un’eccitazione strana salirmi in grembo. Era diversa dal solito. Non fremevo per l’incontro, ma per l’entusiasmo che provavo al pensiero che avrei soddisfatto l’uomo gentile che da settimane era lì per me. Era nata la complicità che sognavo e lui era riuscito a farmi sentire suo, senza neanche vedermi. Non era attratto dal me fisico e lo sentivo bramoso di penetrarmi l’anima. Avrei assecondato ogni sua volontà!
Quando gli rivelai che quel giorno ci saremmo visti, sembrava un bambino appena entrato in un parco giochi. Mi disse che ne era lusingato e non mi sarei pentito di averlo scelto.
 
Fuori era caldo e dopo aver fatto una lunga doccia, immaginando cosa sarebbe avvenuto da lì a qualche ora, indossai un abbigliamento che fosse semplice e comodo al tempo stesso. Volevo sentirmi libero ma, soprattutto, non volevo tornare a casa con addosso i segni di un incontro. Un paio di jeans al ginocchio, una t-shirt e scarpe da tennis sarebbero stati la soluzione migliore. Non misi nient’altro addosso. Gli slip e calzini puliti li infilai nel marsupio: dopo una doccia che avevo già concordato, sarebbero stati impeccabili per il ritorno a casa da mia moglie. Uscii di casa per la prima volta in vita mia senza indossare mutande, né calzini.
 
Mi diede appuntamento nei parcheggi di un centro commerciale. Non appena salii sulla sua auto rimase distaccato. Mi aveva caricato come fa l’estraneo con un autostoppista, o peggio con una puttana. La cosa mi preoccupò non poco. Iniziai a stringere con le unghie il sedile su cui ero seduto e iniziai a sudare freddo. Chi era quell’uomo? Perché era così diverso da come si era mostrato? Come avevo fatto a sbagliarmi nel giudicare qualcuno? Man mano che ci allontanavamo dal parcheggio e dallo sguardo dei passanti, però, il suo atteggiamento mutò. Mi mise la mano sul ginocchio e mi rivolse il sorriso più bello che avessi mai visto.
“Presto saremo a casa”, disse in tono rassicurante mentre svoltava nella strada privata che ci avrebbe condotto nel suo rifugio. Era una palazzina isolata, lontana dal mare e si ergeva nel mezzo di una fitta boscaglia.
Dopo aver parcheggiato davanti a un recinto, alcuni cani iniziarono ad abbaiare. Dopo aver spento il motore, mi guardò per la prima volta dalla testa ai piedi, come se i dieci interminabili minuti che avevamo trascorso insieme nella sua auto non fossero esistiti. 
“Sei bellissimo”, aggiunse. baciandomi il dorso della mano e ammiccando. Poi con un cenno con la testa mi invitò a seguirlo. Mi aveva atteso dalla sua parte dell’auto aprendomi la mano. La presi. Quel gesto mi fece sentire protetto. Percorremmo una decina di metri con la mia mano nella sua. La lasciò solo in prossimità delle finestre degli appartamenti che si affacciavano su quella parte di cortile. “Non dovrebbe esserci nessuno”, disse, “ma se incontriamo il proprietario di casa gli diremo che sei un mio alunno”. Fu allora capii qual era il suo lavoro. Annuii.
Percorsi la restante parte del violetto un passo dietro di lui. Mi sentivo impacciato, mentre tenevo le mani appese alla tracolla del marsupio.
Credevo che saremmo saliti ai piani superiori, ma scendemmo delle scale che ci portarono in un seminterrato. Lui girò più volte una grossa chiave nel vecchio chiavistello e la porta si aprì. Dentro era buio e, una volta entrati, ci lasciammo il mondo alle spalle.
 
“Non avevi detto che mi avresti portato a casa tua?” gli domandai timoroso.
“È questa”, rispose, invitandomi a seguirlo con un cenno che, a fatica, riuscii a scorgere.
Quando la vista si abituò al buio, nell’oscurità iniziai a scorgere un leggero barlume. Poco più avanti, decine e decine di candele accese segnavano un percorso, oltre alle nostre ombre che, goffe dai contorni sfumati , si riflettevano sulle pareti dell’intero appartamento. Il sentiero di cera conduceva nell’ultima stanza, una camera da letto padronale che si trovava in cima alle scale, alla stessa livello del violetto d’ingresso. 
“Ti piace?” domandò.
“È…”, facevo fatica a trovare le parole “Meraviglioso!”
“Sono contento che ti piaccia”, rispose, prendendomi la mano. “Mi avevi detto che era la prima volta e la penombra non ti avrebbe imbarazzato…”
“È tutto molto bello, ma…”
‘Cosa?”
“È che sono confuso. In macchina ho avuto l’impressione di non piacerti…“
“Oh…” mi prese entrambe le mani e le baciò, scuotendo la testa. “Ero solo troppo emozionato…” e mi diede un bacio strano sulla bocca. “Scusami, non ho resistito. Era un bacio affettuoso, non volevo…”
Fu allora che sbottonai i miei jeans. Li lasciai cadere ai miei piedi, sul pavimento, e mi sfilai la maglietta, rimanendo nudo con le sole scarpe ai piedi. davanti al suo sguardo incredulo.
Vide la mia erezione e si spogliò in pochi istanti. Mi fece sedere sul bordo del letto e mi sfilò le scarpe. Mi baciò i piedi, poi li annusò come se quell’odore fosse ossigeno per il suo amore. E tornò a guardarmi.
“Sei molto più bello dal vivo”, disse.
Solo allora si tolse gli slip e si distese su di me. Mentre le nostre lingue si inseguivano l’un l’altra, sentivo la sua erezione spingere contro la mia. La afferrai e con dolcezza iniziai a muoverla.
“Non sono tanto…” balbettò.
“Shhh”, lo interruppi, “mi farai meno male”. Sorrisi.
I suoi occhi umidi raccontavano quanta emozione stesse vivendo, mentre io li tenevi chiusi, pronto a negare persino a me stesso, quanto fossi felice.
Probabilmente avevo voluto concedermi a qualcuno per scontare la mia pena, per subire una punizione, ma mi sentivo al settimo cielo e sentivo di non meritarlo.
“Fallo”, gli dissi. “Fallo ora”.
Non so perché glielo chiesi in quei momento, né quale colpa volessi espiare. Sta di fatto che non mi fece domande: c’eravamo già detti tutto.  Mi prese mi voltò e mi preparò passandomi la sua lingua tra le natiche. Ci rimase a lungo, come per voler assaporare quel sapore che probabilmente non avrebbe più riprovato. Infine, prese dal cassetto un profilattico. Mi chiese di infilarglielo e dopo avermi baciato a lungo, iniziò a fare qualche tentativo. Ero chiuso come una cassaforte! A ogni sua spinta corrispondeva un urlo di dolore che cercavo di soffocare. Lui capì che stavo soffrendo e mi insegnò una tecnica che mi avrebbe alleviato il dolore. Non ci misi poco per abituarmi a quella sofferenza e finalmente riuscì a entrarmi dentro completamente. Lo sentivo gemere. A ogni suo sospiro corrispondeva una fitta che col tempo si trasformò in bruciore. Gli chiesi di dirmi quando stava per arrivare, rispose con un cenno del capo, sfidandosi il profilattico, facendomi voltare e continuandosi a masturbare davanti al mio petto. Fu facile intercettare il culmine del suo piacere, scivolargli tra le gambe e fargli finire ciò che aveva iniziato, nella mia bocca. E bastò studiare la sua espressione per vedere che era soddisfatto, ma anche per leggervi un senso di colpa che non avrebbe dovuto avere. dopotutto ero io che dovevo essergli grato.
Si concentrò subito su di me, ma lo fermai, lo abbracciai. Capì che non era necessario, che non era quello il mio scopo. 
Dopotutto il mio intento era quello di espiare le mie colpe e lo avevo fatto concedendomi a lui, che lo aveva fatto con affetto sincero. Espiare le colpe, con lui, era stata davvero una passeggiata.
 
Dopo aver fatto l’amore mi chiese come mi chiamavo. Lo abbracciai, lo baciai ma non risposi.
“Perché dobbiamo rovinare tutto?” domandai.
Lui  rimase lì, immobile, a prendersi quell’abbraccio. Poi mi alzai, andai a fare la doccia e mi preparai per tornare da mia moglie.

Mi sorprese sulle scale. La sua espressione era triste: “Vai via senza salutarmi?”
“Certo”, risposi. “Altrimenti non ti mancherò e tra due giorni mi avrai già dimenticato.
“Non ti dimentico”.
“Nemmeno io. Ormai ti ho concesso qualcosa che non apparteneva a nessuno e che ora ti spetta di diritto”.
“Mi stai prendendo in giro?”
“Non prendo mai in giro le persone che si prendono cura di me”.
“Quindi ci rivedremo?”
“Assolutamente no!”

Ci vedemmo ancora, sporadicamente, per quattro lunghi anni senza mai sapere quali fossero i nostri veri nomi.
 
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