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Gay & Bisex

Il papà di Marco - parte terza: arriva Marco


di Ale_gentleman
03.07.2023    |    10.529    |    16 9.9
"Oh, ma che hai? Sembra quasi che ti dispiaccia..."
I due pomeriggi successivi tornai a casa di Marco. Suo padre, per me, era ormai una droga. A casa mia ero sempre svagato, in un mondo mio. Mia mamma credeva che fossi innamorato. Me lo disse, una mattina, sorridendo. Stavo facendo colazione. «Stai pensando a qualche tua compagna di scuola, eh?»
Sorrisi a mia volta. Se avesse saputo che io pensavo solo al signor Lorenzo: sopra, dentro, inarrestabile, mentre i nostri petti si strusciavano, mentre annusavo il suo pelo sudato, mentre le mie caviglie sventolano all’aria…
Le mie fantasie erano ancora più incendiate dal fatto che lui, in quei due pomeriggi, non venne.
Lo attesi per ore, senza masturbarmi, per essere carico e dare il massimo nel caso fosse arrivato. Furono ore noiose, sonnacchiose e appiccicaticce. Il caldo, infatti, non accennava a diminuire. Nella casa silenziosa dormivo, guardavo la TV e, verso sera, quando avevo capito che non c’era nulla da fare, mi facevo una grande sega annusando i boxer usati del mio stallone.
Il terzo giorno, però, accadde qualcosa. Ero sul divano in soggiorno, quando sentii dei passi lungo la scala esterna. Già eccitato, mi tolsi in fretta la maglietta. La porta si aprì e, controluce, vidi un’ombra che entrava. Ma non era il papà di Marco.
«Vabbè che fa caldo, ma c’è l’aria condizionata. Dovevi proprio metterti mezzo nudo?»
«Marco», deglutii, «Come mai a casa?»
Non rispose. Mi guardò con stizza, fece una smorfia ed entrò in cucina. Lo seguii. Stava frugando, cercando qualcosa nel freezer.
«Ma dove cazzo sono?»
Con la coda dell’occhio mi vide.
«Mi sono licenziato. Che posto di merda che era!»
Impallidii. Ma tanto lui continuava a frugare nel freezer e non faceva caso a me. Ero nell’ansia. Marco licenziato significava Marco a casa. E Marco a casa significava niente più cavalcate con suo padre.
«Ma come licenziato? Perché?»
«Ah, eccoli!» esclamò felice, tirando fuori un pacco di ghiaccioli. «Ne vuoi?»
Scrollai la testa, tentando di darmi un’aria indifferente.
«Perché era un posto di merda, te l’ho detto», riprese, mentre scartava un ghiacciolo e si sedeva. «Cinque euro l’ora, una fatica bestiale, e mi trattavano come se fossi un cane rognoso.»
Presi posto vicino a lui.
«Ma ora cosa farai?»
Mi guardò, stranito.
«Ma come cosa farò? Mi godo l’estate! Ti sei dimenticato che inizieremo l’università tra due mesi?»
Presi a fissare il tavolo. «No, certo, ma pensavo ai tuoi. Cosa diranno?» Questo diceva la mia bocca. La mia mente, invece, esprimeva un concetto diverso: “Tuo padre! Come faccio a farmelo?”
«Non diranno un bel niente. Oh, ma che hai? Sembra quasi che ti dispiaccia.»
«No, no», mi limitai a dire.
Ero nello sconforto. Con Marco in giro, suo padre non avrebbe più rischiato. La mia estate di sesso pazzesco era già finita. Sepolta. Un misto di rabbia impotente e tristezza mi trascinavano giù. Volevo piangere e picchiare Marco allo stesso tempo.
Poi, però, alzai lo sguardo di nuovo su di lui. La plastica del ghiacciolo sfrigolava, mentre delle gocce di ghiaccio sciolto gli colavano sulle dita. Lui, imperterrito, succhiava il suo ghiacciolo. E lo faceva in un modo così inconsapevolmente erotico che ne rimasi turbato. Mi misi a fissarlo a bocca aperta. E mi ricordai che, fino a pochi giorni prima, Marco era stato nelle mie fantasie tanto quanto suo padre, se non di più. La figuretta snella e tonica, il viso affilato col naso prepotente, quei capelli sempre spettinati. Senza che ci potessi fare nulla, qualcosa nel mio inguine si risvegliò. Laggiù si pretendeva ciò per cui eravamo venuti: fosse da parte di Marco o di suo padre, poco cambiava. Ma come potevo provarci con Marco? Ero ancora fissato sulle sue labbra che succhiavano il ghiacciolo, quando lui si accorse di qualcosa.
«Mi guardi strano. Che hai?»
«Nulla», mentii, deglutendo.
«Mmh», fece, poco convinto. «Andiamo di là?»
Annuii. Pensavo si sarebbe diretto sul divano, invece infilò il corridoio verso le camere. La mia eccitazione aumentò.

Dopo aver messo su una compilation di musica dance sul lettore CD (era la Deejay Parade?), si sedette sul letto e io feci altrettanto, sistemandomi a gambe larghe vicino a lui. Molto vicino.
«Sono stufo», fece, «ti dispiace se rimaniamo in casa?»
«No, no».
Ascoltammo la musica per qualche minuto. Lui aveva chiuso gli occhi. Avvicinai piano la gamba verso la sua, fino a che non sentii i peli delle nostre gambe sfiorarsi. Rabbrividii. Una corrente elettrica mi attraversò.
«Senti», mormorò lui, ancora a occhi chiusi, «ma cosa facevi tutti i pomeriggi qui in casa da solo? Non ti annoiavi?»
«No», bofonchiai, «affatto».
«Pensavo che ti avrei trovato a leggere, o a guardare la tv. Ma che facevi sul divano?»
Mi grattai la testa. «Ma nulla, riposavo».
Lui scoppiò a ridere.
«Oddio, ho capito!», mi guardò «ti sei ammazzato di seghe per metà estate!»
Scoppiai a ridere, imbarazzato, più che altro perché era mezza verità.
«Ma va’!», provai a replicare.
«Vabbè, sai che non mi scandalizzo».
Era vero: io e Marco avevamo parlato varie volte di masturbazione. Anche se lui non sapeva che pensavo a lui, quando la praticavo.
«A proposito», riprese, «Guarda cos’ho qua.»
Infilò una mano sotto il letto e ne estrasse una scatola di scarpe, con gli angoli logorati. La conoscevo bene: avevo visto un sacco di volte i giornaletti porno all’interno e li avevo anche usati molto, mentre ero solo.
«Questo me lo ha dato Tommy ieri», disse con tono da spacciatore, mentre estraeva un porno che effettivamente non avevo mai visto. «Guarda un po’ qua».
Lo poggiò sul letto, tra di noi. Ci mettemmo a sfogliarlo. Avevamo già guardato dei porno insieme, senza che accadesse nulla, ma quel pomeriggio ero eccitato, fuori di me. Quando il mio sguardo si poggiò sulla coppia che scopava tra le pagine, ebbi un’erezione fulminea. Lui se ne accorse.
«Oggi non ti eri ancora segato, mi sa», rise.
Qualcosa scattò in me. Era un’occasione pazzesca, che non sarebbe ricapitata tanto facilmente. Non gli risposi. Mi limitai a sorridere e iniziai a strofinarmi il pacco con una mano.
«Oh, che fai?», scattò lui. Ma nel suo tono non c’era stupore. Risuonava solo una lieve perplessità, in fondo già arresa. Decisi di lanciarmi.
«Ma niente, mi lascio andare. Che male c’è?»
Lui si era fatto serio. Era sospeso tra un po’ di imbarazzo e la voglia, lo vedevo.
«No, no, nulla», disse, dissimulando il suo vero pensiero. «Tanto siamo tra di noi». E prese a massaggiarsi anche lui.
Sorrisi di nuovo. «Appunto».
Dopo qualche minuto che continuavamo così, sfogliando avanti e indietro la rivista, mi decisi.
Con la mano sinistra tirai l’elastico dei miei pantaloncini, con la destra lo tirai fuori e iniziai a masturbarmi.

Marco mi guardò. Stava per dire qualcosa, poi cambiò idea. Nella camera c’era così tanto silenzio che i nostri respiri sembravano motori di aerei. Lui si morse un labbro. Tentennava. Dopo qualche secondo, però, mi imitò. Non ci credevo: eravamo lì, seduti l’uno accanto all’altro, con le nostre gambe che si sfioravano, che ci segavamo in silenzio. Io guardavo la rivista, ma anche l’espressione di Marco, con le sopracciglia corrucciate e la bocca aperta, e il suo cazzo, venoso, non tanto lungo, ma abbastanza grosso, tanto che la sua mano si chiudeva appena, mentre lo massaggiava; a volte mi soffermavo persino sulle sue braccia tirate nello sforzo, e me lo immaginavo a petto nudo. Un paio di volte incrociai i suoi occhi.
Allora, mi tolsi la maglietta. Mi guardò, come se non capisse cosa stessi facendo. Poi, come se avesse realizzato che sì, faceva caldo, se la tolse anche lui. Dio, era una meraviglia vederlo mezzo nudo, mentre si segava con foga. I piccoli pettorali imperlati di goccioline, gli addominali asciutti e tesi, l’ombelico con una striscia di peletti. La pelle del prepuzio che andava su e giù, mostrando e nascondendo il glande gonfio, violaceo.
Mi morsi il labbro a mia volta, perché mi resi conto che non mi bastava. Volevo di più. Volevo segarlo io, prenderglielo in bocca, volevo che mi scopasse. Ma come l’avrebbe presa? Non era certo gay.
Stavo per allungare una mano verso il suo cazzo, quando vidi qualcosa. Alle sue spalle, nella penombra estiva, inquadrato sulla cornice della porta mezza chiusa, c’era suo padre. Mano sulla patta, era incantato a guardarci.

Stetti un attimo in sospeso, ma Marco non se ne accorse, tanto era preso. Allora, ritrassi la mano, e mi posizionai meglio verso la porta, in modo che suo padre potesse vedere. Ormai Marco mi seguiva in tutto, e infatti si posizionò anche lui meglio di fronte a me, dando ancor più le spalle alla porta, ma non del tutto. Eravamo talmente vicini che potevo sentire il profumo della sua pelle, tra il dolce e il salato. A quel punto, come a un segnale, suo padre tirò fuori il cazzo, facendomi segno di tacere.
Iniziammo una sega collettiva, anche se parte del gruppo ne era inconsapevole. Ero fuori di me dall’eccitazione: il padre guardava il figlio e l’amico del figlio che si masturbavano insieme. Nella stanza, il leggero ronzio delle cicale che giungeva da fuori era coperto dal nostro ansimare cupo, animale.
Dopo trenta secondi, realizzai che Marco stava già per venire. Senza dire nulla, ripresi il mio piano originario e gli afferrai il cazzo. Tentò di ritrarsi un poco, stupito, ma io iniziai subito a segarlo. Come avevo pensato, ormai era troppo vicino e troppo eccitato per smettere: mi lasciò fare.
Quello che non mi aspettavo, però, era che ricambiasse. Con il viso stravolto dal godimento, mise la mano sul mio pene, prima timido, poi serrando la stretta sempre di più. Io guardavo verso la porta e vedevo il signor Lorenzo che si segava il suo grande cazzo, in preda all’estasi.
Andammo avanti così per un minuto, respirando in modo sempre più concitato, affannoso, finché io e Marco, scossi da spasmi, ci venimmo l’uno nelle mani dell’altro, inondando i nostri inguini, i nostri petti.
Appena le nostre contrazioni finirono, vidi la figura alla porta che si ritraeva verso il salotto, un’ombra silenziosa. Lo immaginai esplodere in tanti schizzi densi, dentro al lavello in cucina.

«È stato bello», disse Marco, ignaro di quello che era accaduto alle sue spalle. «Ma se ne parli con qualcuno ti ammazzo!», borbottò con una smorfia, mentre andava a prendere la carta igienica in bagno. Lo seguii. «Vale lo stesso per me», farfugliai, tanto per dire qualcosa di cameratesco. Ci pulimmo in piedi, l’uno accanto all’altro, senza imbarazzo. Quando poi uscimmo dal bagno, andammo verso la cucina. Io parlavo a voce alta, per far capire al signor Lorenzo che stavamo arrivando. Ma non c’era pericolo: il locale era vuoto, così come il soggiorno. Che mi fossi immaginato tutto?
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