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CIAO BELLE TETTINE


di Capezzolone
11.04.2022    |    8.516    |    8 9.8
"Mi prende le sise in mano, poi si china e inizia a succhiarle..."
Un titolo strano per un racconto a tema gay? In fondo non così tanto. Se non sei d’accordo, vieni cinque minuti da me, togliti la camicia, e ti faccio vedere cosa si può fare con le tue tettine. Oppure continua a leggere...

PARTE 1: PERCHÉ ANCHE GLI UOMINI HANNO LE TETTE?

“Fra un po’ devo chiudere “ mi apostrofa Carlo.
“Ok. Ho finito” rispondo rallentando il ritmo del tapis roulant fino al graduale stop.
“Da quello scansafatiche che eri all’inizio dell’anno, mo’ non me voi più fa’ annà a casa!” fa ridacchiando, mentre scendo a terra e mi detergo con l’asciugamano “Sei rimasto solo te”.
“Hai visto?” replico con aria fiera.
Lo guardo con un mezzo sorriso. “Credi sia un caso che ti ho aspettato fino a quest’ora?” rimugino tra me.
“Vatt’a fa ‘a doccia, che poi te butto fori” soggiunge e mi molla una pacca sul petto. Allora non mi sono sbagliato. È arrivato il momento?
“Senti, poi allora me puoi vede’ un attimo per dirmi come cambiare la scheda degli esercizi?” la butto sul vago.
“Sì certo” annuisce con un’alzata di sopracciglia “Quando vuoi. Anzi vieni mo’”
“Anche la prossima volta. Se stai a anna’ a casa non ti voglio fa’ perde’ tempo” lo tranquillizzo alludendo all’orologio alla parete, la cui lancetta si appressa a raggiungere le dieci. Di sera naturalmente.
“No, figurate, almeno non ce disturba nessuno.”
Proprio come pensavo. Il pesce ha abboccato all’amo. Si sposta verso un largo specchio alla parete.
“Dai, famme vede’” soggiunge ammiccando scherzosamente con un cenno di mani. Senza farmi pregare, mi sfilo la T-shirt. Mi guardo allo specchio: niente male, dopo anni di palestra gli effetti si vedono. L’aria da orsetto ce l’ho ancora, sarà per la faccetta rotonda e barbuta, ma il fisico ha preso forma: spalle e braccia forti e ben definite, addome solido e tonico anche se non disegnato, il torace è robusto ma non sarà mai scolpito... Per il resto ho fatto davvero un buon lavoro. O l’ha fatto lui, il mio istruttore.
“Fa’ vede’ sotto” aggiunge lui, indicandomi di togliere i pantaloncini.
“Andiamo nello spogliatoio?” lo apostrofo, facendo il ritroso.
“Ma ndo’ vai! Non ce sta più nessuno. Semo solo noi” mi rampogna lui.
Ok. Mi denudo e resto in slip. Lui mi squadra.
“Bravo! Sulle cosce i risultati se vedono”.
Poi mi viene dietro e mi guarda dallo specchio.
“Su spalle e deltoidi stai lavorando bene” esordisce con una pacca sulla spalla “Te c’hai già le spallone larghe de tuo, le puoi potenziare tanto. Sul dorso pure continuiamo così, ma attento a non fare trazioni troppo brusche. L’altro giorno t’ho visto che hai rischiato ‘no strappo”.
‘Ah! Ma allora mi osservi’. Penso tra me.
“Aumentiamo un po’ la massa sui bicipiti. Cogli addominali c’hai dato giù”
Mi molla scherzosamente un’energica pacca sul ventre per sentire come si indurisce e rimbalza.
“La muscolatura c’è. Magari se inizi a magnà de meno se vedrebbero pure”
“Che ce voi fa’? Io sono un buongustaio insaziabile!” ridacchio guardandolo di traverso.
“Bello, fai ‘no sforzo e co’ ‘na dieta come se deve, guarda che spettacolo” e così dicendo si solleva la maglietta mostrando la sua tartaruga, che non è tanto pompata da sembrare di gomma ma si intravvede sotto la pelle come quella delle statue greche.
“Però dobbiamo ancora lavorare parecchio sui pettorali” soggiunge.
Non mi libererò mai di queste generose tette sporgenti all’insù, che mi adornano il petto sin dalla prima adolescenza. Ma non mi dispiace, negli anni ho potuto constatare che sono in tanti ad apprezzarle.
“Ti aumento le serie sulla panca piana” fa Carlo severo “Vedi…” Si toglie la maglia.
Non aspettava altro. Anzi, mi stupisce che fosse ancora vestito, smanioso com’è di denudarsi e mostrare ad ogni occasione il fisicaccio glabro e scultoreo. La sera tardi, dopo che vanno via tutti, spesso restano solo lui e pochi amici suoi, tutti uomini. A volte rimango fino a tardi anch’io. Me ne resto defilato a fare i miei esercizi e li vedo come scherzano tra loro facendo a gara a chi ostenta di più i muscoli allo specchio. Lui non perde occasione per mettersi a torso nudo e gonfiare i bicipiti mentre sferra cazzotti al pungiball o agli altri energumeni. Poi vanno insieme sotto la doccia e non smettono di sfottersi con reciproci commenti, mentre io me ne resto abbastanza in disparte da godermi il panorama senza essere coinvolto e senza far notare quanto gradisco quella vista. Insomma, quello che mi si para davanti agli occhi adesso non è certo uno spettacolo nuovo. Ma è sempre un bello spettacolo.
“Te devo fa’ arivà a ‘sti risultati.” sentenzia lui “Smaltire il grasso, buttar giù le tette, sostituirle con massa muscolare che ti solleva i pettorali e ti definisce lo spacchetto” continua passandosi il dito nell’incavo del petto. Si fissa nello specchio da dietro la mia spalla e contrae i pettorali facendoli ballare. Inizio a sentirmi un po’ a disagio. Tanto più che i miei slip sono abbastanza aderenti. Non mi resta che tentare il tutto per tutto. Il clima d’altra parte è abbastanza goliardico da potermelo permettere.
“Sì, ma io credo di avere un problema di costituzione.” Mi prendo le tette e le sollevo leggermente “Queste ce le ho sempre avute! È congenito”
“Ah, è de’ famija?” mi prende in giro come stessi accampando una scusa “A te t’allattava tu’ padre da piccolo?”
Ridacchio: “Sotto, i muscoli ce l’ho” faccio contraendoli “Ma sopra…”
“Fa sentì!” fa Carlo, continuando a saggiare il mio fisico, mi prende da dietro e mi stringe le mani sul petto.
“C’hai proprio du’ belle tettine!” fa, serrandole in mano.
Bello mio, non hai idea di quanti me l’hanno detto! Penso tra me.
Le palpa come immagino farebbe con quelle di una donna, ma con un tocco decisamente più rude.
“Ti piacciono?” ammicco contraendole, fingendo di stare al gioco.
Lui mi fissa attraverso lo specchio, nel suo sguardo il sorriso sta lasciando spazio a un’espressione seria, di sfida. Allora non mi ero sbagliato. Ormai ho imparato a capire quando a un maschio piacciono, magari anche solo per la curiosità di fare il confronto con quelle delle donne. E lui di donne si vanta sempre di averne impalmate a bizzeffe, ma evidentemente è uno a cui piace assaggiare un po’ di tutto. O magari è talmente goloso di zinne che non disdegna quelle di nessuno. Più di una volta ho notato come me le guarda negli spogliatoi o sotto la doccia. O come, mentre mi alleno, mi molla pacche sul petto con fare ostentatamente cameratesco.
Senza dire una parola inizia a solleticarmi i capezzoli, che con la loro sensibilità si stanno già rizzando.
“E magari se te le toccano godi pure come ‘na femmina” mi sussurra nell’orecchio con una voce che ora si è fatta quasi feroce, mentre afferra le punte tra pollice e indice e inizia a strizzarle. Sento il suo respiro caldo sul collo, il suo petto ruvido di depilazione che mi scartavetra la schiena. A me piace e non lo nascondo, mi dimeno impercettibilmente e ondeggio con il bacino, strofinandogli appena le natiche addosso. Sento qualcosa di solido e ben voluminoso nei suoi calzoncini.
“Come tutti” raccolgo al volo la sfida, fissandolo negli occhi attraverso lo specchio.
“Che cazzo dici?” mi prende in giro “I veri uomini non sentono niente sui capezzoli”.
“Davvero?” mi giro rapido nella sua stretta, gli afferro un capezzolo e lo torco con violenza.
“Aauuuuh!” reagendo di istinto mi scansa con una sberla.
“Io scommetto che la tipa giusta te li sa far godere quanto tu fai godere i suoi”
“E tu? ...sei la tipa giusta?” fa lui prendendomi una tetta in mano.
Fissandolo ricambio il gesto. Ha un petto largo e monumentale, anche i suoi pettorali sono sporgenti, ma a differenza dei miei sono tutti muscoli, solidi come pietra al tatto, con due capezzoli a forma di mandorla leggermente obliqui verso l’alto, di un rosa più scuro e acceso della sua pelle liscia e abbronzata, piatti ma con le puntine leggermente contratte che spesso si vedono anche attraverso la maglietta. Non sono piccoli come quelli di David Beckham, per fortuna (adesso tutti li idolatrano, ma io non capisco che attrattiva ci sia in dei capezzolini che a malapena si vedono), ma nemmeno grossi, sporgenti e quasi sempre rizzati come i miei. Glieli accarezzo con moti circolari dei pollici, sentendoli già incresparsi e farsi coriacei.
“Scusa” faccio rivolto a quello che ho deturpato poco prima “Bacino!” e mi chino a solleticarlo con le labbra. Poi passo alla lingua e a una delicata carezza di denti, mentre riservo un trattamento altrettanto premuroso all’altro con le dita. Lui mi lascia fare divertito. Lo guardo di traverso con ancora il capezzolo in bocca e sorrido.
“Non sento niente” fa lui sforzandosi di restare impassibile.
“E adesso?” aggiungo ciucciando più forte
Lui mi guarda senza rispondere. Io gli afferro deciso la patta dei calzoncini da palestra e stringo il suo monumentale serpentone che, duro come il marmo, sembra quasi voler bucare la stoffa.
“Direi che senti eccome!” sentenzio.
Faccio per tornare ai capezzoli, ma sento la sua mano bloccare la mia.
“Nessuno c’ha mai messo la mano sopra e se l’è ripresa senza permesso!” mi fa glaciale e minaccioso.
Ma ormai il gioco è chiaro. Se non avesse voluto, mi avrebbe già respinto e magari anche mollato una scarica di legnate.
“Allora la lascio qui” rispondo con un sorriso. Gliela infilo nei calzoni e gli tiro fuori il pisello. È bello grosso e largo, non circonciso. Lo scappello e inizio a sparargli una sega mentre ritorno a succhiare e lappare alternativamente i capezzoli. Dopo un’iniziale resistenza sento che mi stringe la testa e inizia a rilassarsi e sospirare.
Dopo un po’ senza proferire parola, mi afferra per i capelli e mi sbatte contro il muro.
“Prenditi le tette in mano, come una femmina!” sentenzia autoritario “Come hai fatto prima”
Io obbedisco, me le sollevo tra le dita e poi, malizioso, mi infilo gli indici in bocca e, dopo averli insalivati, inizio a solleticarmici i capezzoloni eretti.
In un attimo Carlo mi è addosso. I miei seni eretti contro il suo petto duro e depilato. Avrei voglia di baciare il suo viso maschio, di infilargli la lingua in gola, ma gli etero / bisex come lui spesso non gradiscono questo genere di effusioni. Mi prende le sise in mano, poi si china e inizia a succhiarle. Come la maggior parte dei bisex ci sa fare con le tette. Mi prende per i fianchi e mi rigira riafferrandomele da dietro:
“Lo sapevo che eri un frocione di prima categoria” sussurra al mio orecchio.
“E te piace il frocione, eh?” lo rimbecco.
Mi strappa le mutande che ho ancora indosso. Sento con rammarico che si stacca da me, ma solo il tempo di denudarsi anche lui e infilare le mani nella borsa, ritorna con un preservativo che strappa con i denti. “E se, mentre te le strizzo per bene, te sfonno?”
Io mi limito a gemere. Sento il suo cazzone inguainato farsi strada verso il mio orifizio. Poi con un colpo netto arriva lo strappo lancinante. Non ho il tempo di urlare che lui mi ha già afferrato le tette da dietro. Ho la sensazione che il suo membro frema e si ingrossi ancora dentro di me mentre le accarezza e mi tormenta i capezzoli.
“Dai belle tettine, fammi vedere che sai fa’” mi sussurra nell’orecchio mentre mi trivella. E mi dà un morso sul collo.
Con il filo di voce che mi rimane lo supplico di farlo davanti allo specchio. Lui ride e mi accontenta sbattendomi addosso alla panca degli addominali a cui mi reggo con le mani mentre lui mi fotte. Guardo il suo viso maschio che si contrae nello sforzo mentre è tutto dentro di me, i suoi muscoli che pompano. Lo fisso nello specchio e gli sorrido, complice e allo stesso tempo strafottente. Le sue palle mi sferzano le natiche, le sue mani mi strizzano le tette.
“Peccato che non c’hai pure la fica!” mi ansima nell’orecchio “Se no te scopavo da davanti mentre ciucciavo le zinne”
“Ah, si può fare” rispondo. Evidentemente, pur essendo un vero toro, non è così esperto nel sesso tra uomini.
“Come?” fa lui, interdetto, uscendo momentaneamente dalla foia dell’ingroppata.
Lo invito a sedersi sulla panca degli addominali con la schiena appoggiata. È incredibile: ha il cazzone ancora durissimo ed eretto. Mi siedo a cavalcioni in braccio a lui che, comprendendo il mio intento, mi aiuta a impalarmici sopra. Mi serra le mani sui fianchi. Il dolore è forte anche stavolta, ma appena riesco ad abituarmi inizio a muovermi controllando il ritmo.
Lui mi guarda a occhi sgranati, sono piegato in modo con le zinne che mi escono in fuori proprio davanti alla sua faccia, ballonzolando su e giù nel movimento. Dopo un attimo di esitazione allunga la bocca e si attacca a una, iniziando a suggere come un neonato alla poppa della madre.
“Aaah!” geme sollevandole per strizzarmele tra le mani.
Mi fissa negli occhi e preso dalla foga mi afferra il viso in una mano e mi molla un lungo e inaspettato bacio con la lingua. Poi riprende a succhiare e leccare le sise, mentre mi stringo al petto la sua bella testa rasata. Me le mozzica anche. E infine sento il piacere farsi violento, le mie viscere godono sospinte dal suo arnese e sento il mio cazzo duro, intrappolato contro i suoi addominali che non resiste e inizia a gioire inondandolo di copiosi litri di crema calda. Lui mi guarda e ridacchia.
“Godi a piallo in culo o a fatte ciuccia’ le zinne?”
Non lo degno di risposta, afferrandolo per i pettorali muscolosi lo sbatto contro lo schienale della panca, gli stringo i capezzoli eretti tra pollice e indice e li strattono quanto basta, perché, stremato, anche lui perda il controllo e mi gema tutto il suo piacere dentro.
Restiamo ansimanti ed esausti, sbracati su due panche una vicina all’altra. Nudi e sporchi.
“Cazzo!” fa lui “Non l’avevo mai fatto così con un maschio. Chiaramente quello che è successo rimane tra noi” soggiunge poco dopo.
Lo guardo e sorrido: “Certo, c’è bisogno di dirlo?”
“Annamo a fa’ la doccia?”
Annuisco e mi sforzo di alzarmi, seguendolo. Raccogliamo i vestiti e ci incamminiamo.
“Lo sai” replica mentre ci riprendiamo sotto due docce adiacenti “Non ero sicuro che tu…”
“… t’avrei dato il culo?” finisco la sua frase.
Lui ride.
“Sì, sai, alla fine sembri maschio. Sei maschio” aggiunge guardandomi adesso “anche se c’hai le tette”
“Tutti gli uomini hanno le tette!” lo fisso perentorio, abbassando lo sguardo sui suoi capezzoli ancora rizzati sotto il getto d’acqua. Stavolta non ha davvero nulla da replicare.
Già. Perché gli uomini hanno le tette? Penso anche stavolta tra me. È una domanda che continuo a farmi ogni volta che vedo un uomo a torso nudo. Beh non possiamo allattare –purtroppo- ma un altro paio di idee su cosa farci la vita me le ha suggerite.
“Come hai iniziato a fa’… ‘ste cose?” mi chiede lui indicandomi distrattamente il petto.
Bella domanda!
“È una lunga storia” taglio corto ed esco dalla doccia per andare ad asciugarmi.

In effetti è una lunga storia ed è anche passato un po’ di tempo, ma ricordo ogni singolo istante come fosse ieri.
Tutti i ragazzini scoprono fin da piccoli che toccarsi il pisellino dà loro sensazioni piacevoli. E io ero molto giovane quando mi accorsi che anche i miei capezzoli sapevano stuzzicare emozioni intense. Passò un po’ però prima che capissi che non è una forma di trastullo amata da tutti i maschi. Almeno credo che molti non siano consapevoli della gioia che potrebbero regalare loro quei piccoli bottoncini rosa.
Tu hai mai provato?
Già da bambino al mare avevo cominciato a chiedermi perché le tettine delle ragazzine devono essere coperte –allora, almeno nelle spiagge dove mi portavano i miei timorati genitori, il topless non si usava-, mentre i maschietti possono, anzi devono, starsene con le sise al vento.
Fatto sta che, guarda il caso, quando diventai adolescente, pur non essendo grasso, ma solo un po’ robusto e goffo, mi spuntarono le tettine. Abbastanza graziose, direi oggi guardandomele. Ma allora mi creavano un profondo imbarazzo, non saprei dire se perché le ritenevo antiestetiche o perché le vedevo come un oggetto di piacere intimo che avrei preferito tenere solo per me. Così evitavo rigorosamente di togliermi la maglia in pubblico. Quando vedevo mio padre o altri uomini a torso nudo restavo stupito della non chalance con cui ostentavano il petto come se niente fosse. Io evitavo di spogliarmi anche quando ero insieme ad altri maschi, tra coetanei. Non che avessi molti amici all’epoca, ero un tipo piuttosto schivo.
A volte uscivo da solo, camminavo nel parco, fantasticando per conto mio. A volte vedevo altri ragazzi, più grandi, che giocavano a pallone. Si divertivano tutti assieme, correvano, si smarcavano, si infervoravano, si azzuffavano sotto il sole a picco. D’estate, quando iniziava a fare caldo, alcuni giocavano a torso nudo. Si godevano la libertà nella natura ostentando orgogliosamente i propri fisici. Io li guardavo di sottecchi e tiravo dritto, invidiando la loro spavalderia, pensando a quanto mi sarei vergognato io al loro posto.
Al liceo il prof. di ginnastica ci costringeva a praticare vari sport, in nessuno dei quali io eccellevo. Negli spogliatoi i miei compagni restavano in mutande o anche tutti nudi senza pudore, scherzando sui rispettivi fisici o... su altro. Io evitavo di spogliarmi. I giorni in cui avevamo lezione di educazione fisica venivo già in tuta da casa o, se non potevo, svicolavo a cambiarmi in bagno. Spesso giocavamo a basket, i più bravi partecipavamo anche a mini-tornei tra le varie classi. Ma il più delle volte ci allenavamo tra di noi. Un giorno aveva iniziato a fare caldo, dovevamo allenarci dividendoci in due squadre ma non avevamo divise per distinguerci:
«Oggi giochiamo all’americana» sentenziò il prof., un quarantenne brizzolato ma dal fare ancora giovanile, tutto muscoli e mollicone con le ragazze «Shirts e skins. Magliette contro torsi nudi».
Sprofondai nel vuoto. E fu un tutt’uno con il comprendere che la mia squadra sarebbero stati i torsi nudi. Cavolo! Non riuscivo a pensarci né a muovermi. I miei compagni -neanche a dirlo- sgusciarono fuori dalle magliette quasi ci fossero stati stretti. I più fighi e pompatelli non vedevano l’ora di farsi vedere. Io restai immobile.
«Te la devi togliere!» mi apostrofò Matteo che giocava vicino a me.
Io mi voltai come inebetito.
«Dai muoviti, Sergio» tuonò il prof. «Che stai a fa’ a metà maggio ancora colla felpa?»
«Dai, te vojo vede’ nudo!» fece Nino scherzoso strattonandomi la felpa.
E così cedetti. Non avevo alternativa. Mi tolsi con movimenti lenti ed impacciati felpa e T-shirt e rimasi così, completamente esposto. Non so se fu una mia impressione, ma davvero sentii tutti gli occhi su di me, anzi su di loro. Le mie tette. Sentii la mia faccia andare a fuoco e un brivido farmi venire la pelle d’oca.
“Anvedi Sergio che zinne!» sghignazzò Piero, il boss, dall’alto del suo fisico statuario.
Rispose un coro di risate.
Ma per fortuna il fischietto del prof. riportò l’attenzione di tutti sul gioco. Quella degli altri almeno. Io non riuscivo a pensare a niente. Non mi ero mai vergognato tanto in vita mia. Non ero mai stato una scheggia, ma adesso non riuscii minimamente a concentrarmi sul gioco. Provavo a correre dietro alla palla e sentivo le mie tettine ballonzollare sotto gli occhi di tutti. E sotto il cuore accelerava. Come facevano gli altri a pensare al pallone? Risoluti, arrabbiati, feroci. Così spavaldi nella loro fiera nudità. Confuso e inebetito finii travolto da quella mischia di corpi sudati, alcuni più nudi di altri. Uno per scansarmi mi palpò una tetta che ballò nelle sue mani. Mi ritrassi con un violento senso di... solletico? Il prof. vedendo che ero del tutto fuori fase mi fece un cazziatone e mi sbatté in panchina.
Ma non potei rimettermi la maglietta. E fu anche peggio. Seduto, a fissarmi le tettine pendule come me le fissavano gli altri. O almeno così mi sembrava. Come erano diversi i toraci degli altri dal mio. Alcuni magri e quasi incavati, con le ossa in vista, altri larghi e sodi, ma tutti longilinei e compatti. Alcuni avevano già un po’ di peli sul petto. Ad alcuni i capezzoli si vedevano a mala pena, piccoli e chiari quasi quanto il resto della pelle. Altri invece li avevano ben visibili. Alcuni rizzati e duri. Come facevano a fingere di niente mentre tutti glieli guardavano? Eppure vinsero. Piero spadroneggiava indomito, più alto degli altri di mezza testa. Anche i suoi pettorali ballavano, prominenti come i miei, ma i suoi erano tutti muscoli. Il torace di un atleta. E adorava ostentarlo. Lo osservavo spesso mentre se la comandava negli spogliatoi, sempre mezzo ignudo. E magari usciva anche sulla porta a catturare gli sguardi delle donzelle, fingendo di essersi dimenticato di rinfilarsi la maglietta. Uscì esultando dal campo. Uscirono tutti. Mi raggiunsero in panchina. Marco fece il gesto di darmi il cinque. Ma poi abbassò di scatto le mani e mi sollevò le tette.
«Uuh! uuh!» ululò ridendo e facendo un cenno agli altri.
Risero tutti. Oggi mi rendo conto che per loro era solo uno scherzo innocente, ma mi vergognai come mai in vita mia. E il peggio erano le ragazze che assistevano alla scena e mi vedevano... così. Ma la coglionella durò poco. Poi corsero tutti nello spogliatoio dove anche le magliette potevano omologarsi ai torsi nudi. O magari tutti quanti nudi. Io mi rinfilai la maglietta e corsi a nascondermi.
Restai turbato tutto il giorno. La sera mi misi a letto ma feci fatica a prendere sonno. Continuavo a sentirmi quel senso di fuoco che mi saliva al viso. Ripensai alla sensazione provata in campo, il vento e il sole caldo sulla pelle, sulla mia, su quella degli altri, che si assottigliano ed evaporano nella carezza dell’aria fino a diventare un tutt’uno. I pettorali che ballano, i miei, quelli di Piero, quelli degli altri. Ora però sono diventato bravo. Nonostante l’imbarazzo e la stranezza della situazione riesco a prendere la palla, a smarcare, a segnare canestro. Gli altri esultano, mi abbracciano, mi toccano le sise, mi fanno toccare le loro. Siamo nello spogliatoio adesso. Tutti a petto nudo. Vedo Piero seduto su una panca che mi sorride, abbassa gli occhi a guardarsi i pettorali che pendono contratti, i capezzoli che sporgono eretti. Poi guarda di nuovo me.
«Ti piacciono?” mi chiede “Le vuoi toccare?».
Mi fa cenno di avvicinarmi, mi invita a sedermi in braccio a lui. Sono a cavalcioni sulle sue ginocchia. Mi prende le mani e se le appoggia sui pettorali. Anche lui me li tocca. Mi strizza i capezzoli. Che sensazione strana. Sento gli altri che ridono, guardano tutti divertiti come Piero dispone di me. Tutti mezzi nudi. C’è anche il prof. Anche lui è a petto nudo, mi guarda, sorride, fa cenno di sì con la testa. E improvvisamente mi accorgo di essere tutto nudo. Ho le mani di Piero dappertutto. E il mio pisello sta per godere. All’improvviso mi sveglio da quello strano sogno. Mi volto a pancia in su per evitare di venire contro il materasso. Trattengo l’orgasmo e mi viene mal di pancia. Che mi sta succedendo?
Le volte successive in cui fummo di nuovo costretti ad allenarci allo stesso modo per me la tortura non fu meno sadica. Ma con il tempo sembrava che gli altri si fossero abituati alle mie tette e, comunque, sembravano decisamente più interessati al gioco che a loro.
Finita la scuola, come tutte le estati andai con mia madre e il mio fratellino alla casa al mare. Mio padre ci raggiunge nei fine settimana Che pizza: lì mi annoio. Non mi piace stare in spiaggia: fa caldo e io me ne sto sempre sotto l’ombrellone con la maglietta indosso. Me la sfilo giusto per buttarmi in acqua e me la rimetto appena mi asciugo. E devo anche sentirmi le lagne di mia madre e di altri su quanto mi farebbe bene togliermela e prendere il sole. Oppure faccio lunghe passeggiate da solo. Non faccio amicizia con i miei coetanei: non mi sento a mio agio.
Arriviamo nel pomeriggio, il sole è ancora alto. Entriamo nel vialetto del comprensorio. Anche la casa accanto è aperta. Spesso l’estate viene affittata, ogni anno a persone diverse.
“Chi ci sarà quest’anno?” si chiede la mamma.
Oh no! Se è una famigliola con figli della mia età dovrò sentirmi tutte le sue lagne sul fatto che dovrei farci amicizia. Non ci posso pensare. Nel pomeriggio sporgo lo sguardo dal balcone, dove me ne sto a leggere e vedo i miei genitori che salutano una coppia: sono i nuovi vicini. Poco dopo me li presentano. Il signor Gino e la signora Ada. Devono essere un po’ più grandi dei miei, tra i 40 e i 50, e ringraziando il cielo, sono lì soli e senza figli.
“Lui è il nostro figlio grande, Sergio”
“Ciao, come stai?”
Lei è un vispo donnone dai riccioli impertinenti, dall’aria materna e dal simpatico sorriso, con due grosse poppe strabordanti che neppure il costume intero riesce a sorreggere. Ma non posso fare a meno di notare che anche lui ha delle poppe quasi altrettanto grosse, dai rotondi capezzoloni turriti, che fanno a gara con quelle della moglie, con la differenza che quelle di lui se ne stanno lì in bella mostra, a torso nudo, senza veli. Distolgo lo sguardo prima di incontrare il suo, sorridente e gioviale con quella barba brizzolata da papà.

Mi annoio. Ma quest’anno ho un nuovo passatempo in spiaggia. Qui ovviamente quasi tutti i ragazzi, e gli uomini, girano a torso nudo. Non solo in riva al mare, ma molti anche per le strade della località balneare. Corpi di diverse dimensioni e forme, pelosi o glabri. Li avevo sempre visti, dandoli per scontati, ma non mi ero mai soffermato a guardarli. Soprattutto le loro tette. Alcuni hanno il torace ossuto, altri gonfiato di muscoli, che assumono forme diverse l’una dall’altra, pettorali appiattiti e larghi l’uno, sporgenti l’altro. Alcuni, un po’ cicciottelli hanno zizzotte simili alle mie. Ora osservo due ragazzi che escono dall’acqua di corsa, un moro e un biondino. Sono giovani ma hanno entrambi il torace robusto e già sviluppato. Uno ha i capezzolini piccoli e rizzati, l’altro più larghi e ancora morbidi, di una tonalità di rosa più scuro. Mi chiedo se è una cosa che noto solo io, se gli altri uomini guardano mai i propri capezzoli e quelli dei loro amici. Se ne notano le differenze di dimensione e di forma. E poi, non saprei dire perché, anche i loro costumi scompaiono e li vedo che corrono tutti ignudi con le chiappe sode al vento e i batacchi che ballano contenti nella corsa.
Decido di tornare a casa. Lascio mio padre e mio fratello sotto l’ombrellone. La mamma è già tornata a cucinare. Mi avvio da solo per le stradine che portano a casa. Sono quasi arrivato al portone. Poco più in là, al lato della strada, un gruppo di ragazzi gioca a pallone in un campetto sterrato. Tutti a petto nudo. Impettiti, arroganti, con il sole che luccica sui loro corpi sudati, alcuni muscolosi, altri meno. Ce n’è anche uno più grosso e peloso degli altri, con un po’ di tette, ma pure lui ride e si diverte con gli altri, in calzoncini, come se niente fosse. Tutti sono così pieni di forza, di vigore, di bonaria aggressività. Sono uno spettacolo. Uno fa un passaggio di piede. Ha un controllo perfetto del suo fisico, tutto nervi e muscoli guizzanti. Il suo torace è così diverso dal mio, magro, solido, compatto. Sembra così a proprio agio nel suo corpo, nella sua pelle, con indosso solo quella e quasi niente altro. Gli amici esultano, gli mollano pacche sulle spalle, sul petto nudo con fare cameratesco. Non ho mai avuto un’amicizia così. Chissà come sarebbe. È quel pensiero che mi fa contrarre lo stomaco? E improvvisamente realizzo che mi sono fermato in mezzo alla strada e li sto fissando. Anche loro se ne sono accorti? Mi guardano e sono colto da un’improvvisa ondata di gelo. Mi vergogno come se fossi più nudo di loro.
«Ehi, vuoi giocare?» mi chiede uno di loro.
E all’improvviso mi rendo conto che non hanno capito nulla. Ai loro occhi un ragazzo che li guarda non può essere interessato che al pallone. Mi chiedo cosa penserebbero se mi togliessi la maglia anch’io. Se penserebbero ancora che sono come loro.
«No, grazie» replico timido «Ho preso una storta al piede»
È la prima cosa che mi è venuta in mente. Del resto sono una schiappa e non è il caso che faccia figuracce. Saluto e me ne vado, fingendo di zoppicare, in modo poco credibile, temo. Ho la sensazione che mi ridano dietro, forse ridono di me. Sono troppo imbarazzato per voltarmi.
E all’improvviso ho caldo e inizio a sudare. Mi infilo nel cancelletto e appena dietro il muro mi volto a guardare indietro, imbarazzato. Sono ancora là e hanno ripreso a giocare, accaldati e d energici come prima.
«Ciao» sento improvvisamente alle mie spalle.
Mi volto, colto in flagrante.
Il signor Gino è chino a sistemare lo steccato del cancelletto. Che coraggio a lavorare sotto questo sole cocente. Indossa solo un paio di calzoncini, due infradito e niente altro. Il sudore gli scintilla sulla fronte un po’ stempiata, sulle spalle robuste e sui peli del petto, mentre le tette sono chine verso il basso e danzano dolcemente nei movimenti delle sue braccia robuste.
“Come va?”
“Tutto bene. Grazie” mi sforzo di riprendermi, come inebetito.
“Divertito in spiaggia?”
“Sì”
“Ci sono persone interessanti?” chiede ammicando con un’alzata di sopracciglia
Solleva il martello per sbattere dentro un chiodo e vedo dei bei muscoli gonfiarsi sotto lo strato di adipe. Doveva avere un fisico da atleta da giovane. Ha spalle e braccia possenti e sotto la panzetta sporgente si intravede ancora il tono muscolare. Ma con quelle sise a pera ci deve essere nato.
“Che c’è? Sei sudato... hai caldo? Sicuro che stai bene?” fa guardandomi perplesso.
Mi guarda in modo strano mentre lo dice. O forse sono io che sono confuso.
““Sssì… bene. Devo andare, buon pranzo!” taglio corto e scappo in casa.

Quel pomeriggio, accaldato e annoiato, mi stendo sul letto, ma non dormo. Quando chiudo gli occhi continuo a vedere corpi di ragazzi nudi, i loro toraci, i loro capezzoli e i loro piselli di fuori che si accalcano gli uni contro gli altri, si accalcano attorno a me. Anch’io sono uno di loro. Sono nudo come loro. E loro mi guardano il petto nudo. Uno di loro mi afferra le tette, le stringe, mi strizza un capezzolo e io sento un desiderio rovente invadere i miei lombi. Apro gli occhi turbato. Ormai so da un pezzo cos’è il sesso. Ma non avevo mai avuto una consapevolezza così chiara che a stimolarmi fossero oggetti tanto simili e al tempo stesso tanto diversi da quelli che accendono i miei coetanei. Ma è un pensiero che dura poco. Il letto di mio fratello, accanto al mio, è vuoto. C’è silenzio. Chiamo e capisco che sono usciti tutti. Sono solo. E ho una gran voglia. Mi tolgo la maglietta e inizio a stringermi le tette e strizzarmi i capezzoli come facevano quei ragazzoni nel mio sogno. Sì, tutti nudi in uno spogliatoio. Sono abbracciato a Piero, il mio compagno di classe, come nel vecchio sogno. O forse è il ragazzo grosso e con le sise pelose che giocava a calcio in strada quella mattina? O forse sono tutti e due. Uno mi strizza le tette sollevandomele da dietro, l’altro ci avvicina la testa da davanti, si attacca a una sisa e inizia a succhiare. Io me lo stringo al petto. Lo avevo visto fare sul giornaletto porno che i compagni di classe sfogliavano in gita. Un omone impalava una maggiorata mentre le assaporava le zinne slinguandone i capezzoloni giganti e lei si abbandonava a espressioni di goduria. Rivedo quelle immagini vivide e all’improvviso sono loro che stanno facendo tutte quelle cose a me. Una mano è scesa nelle mutande e stantuffa energicamente il cazzo mentre l’altra stuzzica i capezzoli, ora strizza uno, ora solletica l’altro, ora uno con il pollice, l’altro col medio. Mi alzo e vado in bagno, mi denudo, apro la doccia. Loro sono lì con me sotto quella doccia fredda. Mi stringo i capezzoli uno con ciascuna mano, immaginando che siano le mani di qualcun'altro e intanto mi schiaccio il pisello contro la parete della doccia e inizio a strofinarlo con energia a colpi di bacino.
“Sì, sì, sbattimi al muro!” ansimo al mio ragazzone. Anch’io gli tocco il petto, ma non è il torace di un ragazzo, è il torace di un uomo, robusto, villoso e con due sise più piene e succulente delle mie. E all’improvviso l’intenso godimento dei miei capezzoli diviene tutt’uno con quello del mio membro e inondo la parete con decisi colpi di reni. Quando mi riprendo dall’onda di sangue rosso che mi è affluita al cervello, apro la doccia per lavarmi e lavare la parete.
Sento un fischiettio da fuori. Mi volto. La finestra è semiaperta. E il signor Gino è di nuovo là, a torso nudo, a tinteggiare lo steccato. Cazzo! Non ho tirato neppure la tenda della doccia. Ma lui guarda altrove e sorride, perso nei suoi pensieri. Chiudo le imposte, sperando solo che non mi abbia visto. Poi mi sporgo a spiare appena un attimo tra le fessure. Ha alzato gli occhi, guarda verso di me e sorride, come se mi vedesse. Si sta grattando il petto, anzi ha tra le dita un capezzolo e se lo sta torcendo. Mi stacco tremando dalla finestra. Ma che sciocchezze! Deve essere solo la mia immaginazione. Mi ritiro sotto la doccia, stavolta con le tende chiuse. Non so perché ma mi sento di nuovo eccitato e sotto la carezza dell’acqua mi sparo un'altra sega.
Il pomeriggio seguente vado a fare una passeggiata, a perdermi da solo nei miei pensieri. Ho l’età in cui si possono passare settimane ad autocommiserarsi in una tristezza struggente: sono abbastanza grande da pormi un sacco di domande ma troppo giovane per trovare il coraggio di darmi delle risposte. D’un tratto la mia attenzione è attratta da due ragazzi più o meno della mia età che arrivano correndo. Sono due di quelli che ho visto giocare a calcio il giorno prima. Uno è quello bravo, un moretto dai muscoletti ben definiti, in calzoncini, a torso nudo con i pettorali al vento e i capezzolini rizzati, l’altro –ahimè!- indossa una T-shirt, ma lo riconosco ugualmente: è quello con le poppe villose, che si intravedono chiaramente sotto la stoffa con tanto di capezzoloni rizzati in trasparenza. Stanno facendo jogging. E io li sto fissando in modo a quanto pare inopportuno. Mi guardano.
“Ciao” fa con un’alzata di sopracciglia lo spavaldo, quello con il bel fisichetto.
Io resto un attimo interdetto.
“Ciao” replico meccanicamente come inebetito. Vorrei sorridere, dire qualcos’altro, socializzare, se solo fossi capace.
Ma intanto mi accorgo che mi hanno già superato e si stanno allontanando. Sento in una nuvola il loro odore. Sono sudati, ma l’impressione non è affatto sgradevole.
Dunque si ricordano di me? Sarò sembrato tanto ridicolo da rimanere impresso? Oppure mi hanno visto come una persona normale ed erano gentili perché volevano fare amicizia? Dopotutto anche uno di loro ha le tette e loro sembrano non farci neppure caso. Mi chiedo addirittura se se ne accorgono. Magari potrei davvero farci amicizia, potrei guardarli da vicino. Chissà come sarebbe conoscere i loro pensieri, le loro fantasie...
Perso tra questi pensieri, sono arrivato lontano da casa, in mezzo a una pineta. Scorgo all’orizzonte le rive di una spiaggia sconosciuta. Inizia a calare il sole: si è fatto tardi. E delle ombre furtive si aggirano tra i cespugli. Uomini. Hanno l’aria minacciosa. Mi fanno paura. O forse è solo la mia immaginazione. Uno sembra puntarmi e venire verso di me. Io fingendo di non vederlo mi allontano. Accelero il passo. Più in fretta, sempre più in fretta. Lo sento ancora dietro di me, ma non ho il coraggio di voltarmi. Mi allontano dal fitto degli alberi, c’è un vialetto sterrato poco più in là. Mi fermo con il fiato corto, più per l’agitazione che per una vera fatica. E poi sento le ruote di una bici. Mi volto e vedo un paio di sise villose che ballano sopra un manubrio.
«Ehi!»
È il signor Gino che mi vede e mi rivolge il suo solito sorriso cordiale. Mi sforzo di guardarlo in faccia distogliendo gli occhi dalle sue poppe al vento che fanno su e giù, sembrano sode ma gonfie e sporgenti con due capezzoloni rossi e pizzuti che fissano l’orizzonte. Lui non sembra far caso al mio sguardo: per lui deve essere normale girare così. Non l’ho ancora mai visto – e dico mai- con una maglia o una camicia indosso.
“Che ci fai qua?”
“Una camminata.”
“Da solo?”
Annuisco.
“È tardi, dovresti rientrare.”
“Ora mi riavvio”
“Sei arrivato parecchio lontano. Salta su, ti riporto io”
C’è un tono diverso, una grande forza nella sua voce. Dietro quel sorriso bonario colgo decisione e un’autorità quasi bruta. Sembra il re di una favola di cavalieri medievali.
“Ma non so, magari la disturbo…”
“Sali.”
Ubbidisco. Monto la bici dietro di lui, faccio per reggermi ai tubi sotto di me.
“Tieniti a me” fa lui ridacchiando “Lo so che sono tutto sudato, ma se no cadi”
Gli appoggio le mani sulle spalle. Lui si avvia. Il vento ci vola in faccia, il sole rosso si immerge dietro gli alberi. La sua schiena è robusta e cotta dal sole, glabra a differenza del petto. È veramente sudato. Il suo afrore mi irrita un po’ le narici ma, appena me ne allontano, qualcosa mi spinge a riavvicinarmi come per verificare se l’ho sentito bene. Ricorda solo lontanamente il tanfo indistinto degli spogliatoi di scuola, ma ha qualcosa di diverso, di uomo. Allora mi sembrava già un vecchio, con la sua barba brizzolata, ed era sorprendente sentire un vecchio con quel fisico, quelle spalle forti e abbronzate. Accanto a lui la paura di prima se ne era andata. Eppure non ero tranquillo. Percepivo la presenza del suo petto villoso a poca distanza dalle mie mani. All’improvviso avevo voglia di passargli le braccia attorno al torace e stringere, ma non potevo. E all’improvviso sentii qualcosa smuoversi nei miei pantaloncini, cercai di ritrarmi staccandomi dalla sua schiena quanto più potevo. Ma lui non sembrava accorgersi di nulla. Se ne stava intento a pedalare, in silenzio. Non ricordo se scambiammo qualche parola durante il tragitto fino a casa. Mi depose fuori dal cancello.
“Grazie”
“Di niente, bello. Buona cena”.
Me ne andai con lo stomaco in subbuglio.

Qualche giorno dopo sono seduto a leggere davanti casa, quando vedo il signor Gino e la signora Ada che escono e si avviano verso la strada. Hanno con loro diversi pacchi. Mi salutano sorridendo, io ricambio il saluto.
“Torniamo in città per qualche giorno.” mi fa la signora “Ci puoi salutare i tuoi genitori?”
“Certo” replico io.
“Ah, quella bicicletta…” fa il signor Gino indicando verso la parete. Guardo in quella direzione e vedo la bici nera con cui mi aveva riaccompagnato qualche sera prima parcheggiata in un sottoscala.
“Vedi” fa accostandosi dietro di me per indicarla. È a torso nudo, come sempre, e mi sembra di sentire le sue tette che si appoggiano appena sulla mia schiena. “Se vuoi puoi usarla mentre io non ci sono. Ma attento a dove vai…” soggiunge con voce scherzosa. Non faccio in tempo a interpretare il tono di quell’affermazione che mi dà una pacca sulla spalla e si allontana. Entra in macchina così come è, con solo i calzoncini indosso.
Si rimetterà la maglia almeno in città? Mi viene da chiedermi. Mette in moto. Per un attimo non posso fare a meno di abbassare lo sguardo sul suo petto, la cintura di sicurezza gli si infila nell’incavo tra le sise, sollevando la tetta destra e facendogliele ballare entrambe. Alzo subito gli occhi, lui mi sorride e ho come la sensazione che abbassi lo sguardo sulle proprie tette per poi risollevarlo verso di me. Sento un fremito nello stomaco. Ma è solo una vaga impressione. La signora Ada mi sorride e fa un cenno di saluto dal finestrino mentre si allontanano di gran carriera, lasciandomi solo con la bici nera nella penombra del vialetto.
Nei giorni successivi decido di prendere la bici. Mi annoio e almeno potrò fare qualcosa di diverso. Era da quando ero bambino che non la prendevo, ma è vero che una volta imparato non si scorda più. Mi faccio un po’ di giri nei vialetti, sentendo il vento su di me. Butto un po’ l’occhio qua e là all’umanità locale. Soprattutto a quella maschile. Anche se sudo e ho la maglietta appiccicata addosso, non ho il coraggio di togliermela.
Una mattina vedo il calciatore moro in spiaggia con uno dei suoi amici, un fustacchione riccio con spalle larghe e anche lui un bel fisicaccio. Sono in acqua e giocano a passarsi la palla. Mi chiedo dove sia l’amico tettone. Sono lontani e non mi hanno visto. Escono dall’acqua, stendono i loro bei corpi ad asciugarsi al sole. A una certa ora poi si alzano e si allontanano. Con una scusa dico a mamma che torno a casa anche io. Invece li seguo, a debita distanza. Li vedo arrivare a una villetta, lungo un viale alberato e sostare assieme accanto al cancello. Non riesco a sentire cosa si dicono. Mi avvicino e mi apposto dietro un angolo.
“Ok, allora oggi state tutti da me” sento dire il moretto.
“Ok, grande! Ciao, Robè”
“Bella zi’!”
Il fustacchione si allontana. Dopo un po’ esco dal mio angolo e fingo di passare da lì con non-chalance. Casualmente mi giro verso quella villetta. E dietro il cancello, vicino all’ingresso, vedo che il moretto, Roberto, è ancora lì, in piedi, che si passa il pallone da un piede all’altro. È ancora mezzo nudo, in costume da bagno. Il mio sguardo indugia ancora un attimo, solo un po’ più del dovuto. Il tempo che lui alzi il suo.
“Ciao” mi fa di nuovo.
Io stavolta mi sforzo di sorridere nel ricambiare il saluto.
“Abiti qua vicino?” mi fa lui inaspettatamente.
“Al comprensorio due strade sotto” faccio io.
“Ah” fa lui “E che fai qua?”
Giustamente, sono del tutto fuori strada per tornare dal mare.
“...passeggio” replico confuso.
Mentre parlo, lui si schiaccia distrattamente un capezzolo. Non credo lo faccia apposta ma la cosa mi manda in confusione.
“Stai vicino al campetto” replica lui.
“Sì, un po’ più giù”
“Se un giorno vai a giocà, ci vediamo”
Quell’invito mi solletica una serie di sensazioni confuse.
“Ok”
Resto fermo, senza sapere cosa aggiungere.
“Ciao, buon pranzo” fa lui avviandosi verso casa.
Come inebetito, seguo il suo esempio e mi allontano.
E ora che dovrei fare? Io non so giocare a calcio! Cavolo! Eppure continuo a pensare a come sarebbe stare in campo con tutti quei ragazzoni, sospinto da uno poi dall’altro, mentre per sbaglio mi toccano le tette. Prima uno, poi l’altro, poi io a loro. Quel pomeriggio i miei e mio fratello sono usciti. Sono solo e avrei voglia di spararmi qualche sega. Ma mentre mi denudo e inizio a toccarmi le sise e il pisello, un altro pensiero mi attraversa la mente.
Mi rivesto e vado a farmi il solito giro in bici. Non mi è difficile ritrovare la villetta che ho visto quella mattina, ma stavolta mi avvicino con circospezione, sento un coro di risate e voci maschili. Proviene dal retro. Così faccio il giro e sul retro, in un posto in cui non passa nessuno, mi accosto. Da sopra la bici riesco ad allungare il collo fino a vedere il giardino. C’è un muro attorno e, in un punto nascosto alla vista dei passanti, un gruppo di cespugli in cui riesco a intrufolarmi e sporgermi fino a guardare dentro. Eccoli là, cinque ragazzacci allegri e mezzi nudi. Roberto, il fustacchione che era con lui a ora di pranzo, altri due. E poi c’è pure lo zizzone. Se ne stanno spaparanzati in piscina. Due sulle sdraie, uno in acqua su un materassino, due a mollo.
“Ma chi è, non ho capito?” sta dicendo uno.
“Non lo so, girava qua vicino”
Staranno parlando di me? Mi acquatto per sentire meglio.
“Robè, ma Monica?”
A quanto pare la conversazione devia verso soggetti per loro più interessanti.
“Boh, prima m’ha chiamato. Mo’ stasera la risento, je dico se vole venì”
“Grande zi’! Ce fai restà pure a noi?”
“Non penso proprio” risponde Roberto emergendo dall’acqua e appoggiandosi sui gomiti a bordo vasca. Ha proprio un bel torace!
“Secondo me quella è contenta...” fa uno dei due amici sulle sdraio, un bel tipetto magro tutto muscoletti e nervi.
“Te la immagini? Cinque cazzi tutti insieme! Ahahah!” ride il fustacchione sul materassino “Ma te la sei trombata?”
“No, non c’avevamo mai casa libera! Però domenica nella cabina al mare m’ha fatto leccà le zinne” e simula un gesto di risucchio con la lingua.
“Oooh! Grande Ro’”
“Hai visto che bocce che c’ha, no?” fa lui con aria tronfia “E poi m’ha fatto pure ‘na sega”
Wow! Sapevo già che i maschi in gruppo sono in grado di parlare come animali, ma ancora non ero abituato al fremito animalesco che prende me allo stomaco mentre li sento. Quella goliardia, quella condivisione di cui io non ero e non credevo che sarei mai stato capace. Quella voglia che sento dentro di me. Voglia… di essere al posto di Monica.
“Sbrigate a scopattela, che poi ce provo pure io!” lo sfotte un altro amico sulla sdraio, colla testa rasata e un tribale tatuato su un pettorale.
“Sai pure chi c’ha du’ zinne da paura?” fa il fustacchione “La mora de ‘ieri al mare...”
“Cinzia?”
“Cinzia la squinzia”
“Madonna, co’ quer fisico dovrebbe fa’ la pornostar...”
“Sì, c’ha le sise a punta! Co’ quer costume je se vedeva tutto”
“Hai visto? Due capezzoloni grossi così, quando je se so’ rizzati in acqua... Mamma mia!”
Scoppiano tutti a sghignazzare.
“Però Mario c’è stato.” sentenzia Roberto colla sua aria da gran maestro “Dice che nun je l’ha data”
“A me basta che me fa ‘na bella spagnola colle zizzone...” ride il fustacchione simulando il gesto sulla patta del costume.
“Se, bello, quella sta a aspettà te...” ride il pelato.
“Va be’, male che va te la fa Andrea ‘na spagnola. Ha’ visto che tette?” ride Roberto mollando una pacca al cicciottino che è a mollo accanto a lui.
“Vaffanculo” replica il panzerotto ridendo e schizzandogli un gavettone addosso.
“Ma Erika te le ciucciava le zinne?”
“Stronzo! Erika me ciucciava ‘n’artra cosa ed era pure brava!” sembra finalmente sbottonarsi il tettone che fino a quel momento si era limitato ad ascoltare e ridere.
“Ooooooh! Andre maialone!” lo sfottono affettuosamente gli amici.
“Je piaceva popo ‘r cazzo” replica lui.
“E pure ‘n po’ troppo, je piaceva pure quello de l’artri” gli fa eco Roberto mentre esce dall’acqua e si issa statuario sul bordo piscina.
“Sai chi dicono che lo prende in bocca?” fa il fustacchione “Alice, quella der bar”
“Ma chi... belle chiappette?” chiede il pelato.
“No, l’artra” lo corregge Roberto, che frattanto ha aperto il getto di una doccia sotto una pensilina e getta indietro la testa lasciando che l’acqua scorra scintillante sul suo corpo da adone, cinto solo da un paio di shorts che lasciano intuire tutto il contenuto.
“Stefanino dice che j’ha fatto ‘na bocca” proseguono gli altri senza far caso a lui che sembra pavoneggiarsi per un immaginario pubblico di femmine assenti.
“No! Ma che cazzo sta’ a dì?”
La conversazione prosegue, conviviale e triviale, sullo sfondo mentre il mio sguardo è ipnotizzato da Roberto, che ora si è cinto un largo asciugamano intorno ai fianchi e si sta sfilando il costume da sotto.
“L’ha detto lui, te ricordi, Ro’?”
“Sì... sarà ‘na cazzata. Io c’ho paccato l’arta sera, me la so’ palpata per bene ma ancora nient’altro”
“No, Ro’! E che j’hai detto a Monica?”
“’Sti cazzi de Monica. Mo’ in settimana la rivedo pure!”
“Ma che cazzo dici?”
“La richiamo e... vediamo se ‘sto cazzone je piace...” sentenzia aprendosi l’asciugamano e prendendoselo in mano sgrulla davanti a tutti il suo uccellone penzoloni.
Wow! Non saprei dire quanto fosse grosso e bello da quella distanza, senza contare quanto poco esperto fossi allora.
“Ahahahahah! Ro’, sei er peggio!” ridono gli altri.
Io ho un tuffo al cuore e sento l’irresistibile impulso a portarmi una mano al pisello che, a differenza di quello di Ro’, è rizzato all’insù e dolorante, e un’altra a un capezzolo. Ma non faccio in tempo a trattenermi che, non so come, perdo il controllo della bici e mi ritrovo a scivolare fuori dai cespugli, ancora appoggiato al muro, in palese posizione da voyeur.
E nella confusione sento rombare un clacson dalla strada. Una macchina nera, ben nota mi lampeggia. Cazzo! È il signor Gino. Mi guarda, ha un sorriso strano sul volto, quasi beffardo. Rallenta e fa per accostarmi. Sento un fremito e un’ondata di sudore raffreddarmisi addosso. Come al solito guida a torso nudo.
“Oh, ma che cazzo è?” sento vociare i ragazzi dentro il giardino.
Io faccio appena in tempo a risollevarmi sulla bici e svoltare in un angolo, prima che accorrano al muro pronti a inchiodarmi in flagrante.
Il signor Gino accelera, lo vedo passare lungo la strada principale, si volta verso di me, non capisco se mi sorride, poi accelera e sparisce.
Ho il cuore in gola, ma l’istinto mi porta a pedalare più forte che posso, lontano da lì, verso casa. Arrivato, poso la bici ed entro. Non c’è nessuno a casa. Mi butto sul letto, ancora confuso. Che cosa ha visto il signor Gino? Mi ha visto? Certo che mi ha visto. Che cosa avrà pensato? Perché mi ha sorriso in quel modo? Si sarà accorto di qualcosa? Sa tutto? Lo ha sempre saputo? Ma poi mi dico che è solo uno scherzo della mia immaginazione. Ho fatto una figuraccia a filarmela così?
Devo verificare – penso tra me – sentire cosa mi dice. Quale scusa migliore che restituirgli la bici?
Deve essere entrato in casa, ormai. La porta è aperta. Appoggio la bici fuori dalla porta e busso.
“Sì, chi è?” ha una voce dura e ruvida.
“Signor Gino, sono Sergio”
“Ah, entra, entra” risponde, improvvisamente gentile.
Scosto la tenda che pende sulla porta per ostacolare l’ingresso delle zanzare. Hanno una casa graziosa, arredamento semplice ma gradevole, ma le finestre sono ancora chiuse ed è piuttosto buio. Si entra nel soggiorno, più in là vedo la cucina. Il signor Gino entra dalla porta di quella che forse è la camera da letto. Come al solito non ha una maglia indosso, ma stavolta non ha neppure i calzoni, indossa solo un paio di slip neri. Wow! Da come gira normalmente in pubblico, non dovrei stupirmi se mi invita a entrare e mi sorride mentre è in mutande, come se niente fosse. Eppure un angolo del mio occhio non può far a meno di notare il sorprendente gonfiore della sua patta.
“Le ho riportato la bici…” blatero per riempire il silenzio “La volevo ringraziare”
“Figurati. Sembri accaldato. Vuoi qualcosa da bere?” mi chiede, gentile come al solito. Come se niente fosse accaduto.
“Grazie, ma non voglio disturbare”
“Tranquillo, nessun disturbo. Stavo ber farmi una birra ghiacciata. Ne vuoi una?”
“No, grazie. Non bevo prima di cena”
“Ah. Allora qualcosa di analcoolico? Succo di frutta. Dai, non fare complimenti”
“Ok. Grazie”
Ritorna un attimo dopo con in mano le cose da bere.
“Che fai in piedi? Siediti.” mi indica il divano “Come è andata la pedalata?”
“Bene” rispondo con un sorriso.
Si siede tra i cuscini a poca distanza da me. Odora di doccia. Beve la sua birra e mi fissa con la sua aria gioviale.
“La signora Ada?” chiedo per rompere il silenzio.
“È dovuta rimanere in città dalla sorella. Andrò a prenderla tra qualche giorno”
Annuisco non sapendo cos’altro dire.
“Non hai caldo… con quella maglia?” mi apostrofa ex abrupto.
“No” mi schermisco appena “sto bene così”
“Non te la togli mai, neppure in spiaggia?”
Sembra un’affermazione più che una domanda. Mi fissa. Improvvisamente non sorride più.
“Ti vergogni a far vedere le tettine?”
Resto immobile, chiedendomi se ho sentito bene.
“Perché? Hai delle belle tettine!”. Sorride indicandole sotto la maglietta con un’alzata di sopracciglia. Nella voce la ferma convinzione di chi le ha viste e le ricorda perfettamente.
“Vedi: anch’io ho le zizze”. Non riesco a non alzare lo sguardo per accorgermi di come se le sta toccando.
“Che c’è?” fa con un mezzo sorrisetto, non si capisce se di scherno o di complicità. “ Le vuoi toccare?”
Io passo con lo sguardo dai capezzoli agli occhi senza riuscire a proferire una parola.
“Dai, te le faccio toccare se mi fai vedere le tue”. Mi guarda impassibile e quasi crudele. Sotto i lineamenti morbidi e la barba brizzolata da papà scorgo una rude virilità e una volontà d’acciaio. Al confronto gli spocchiosi ragazzotti dietro a cui sbavavo fino a un attimo prima sembrano solo dei palloni gonfiati.
Non capisco più niente.
“Dai, spogliati”.
Un semplice comando e mi sfilo la maglietta lasciando che mi guardi.
I suoi occhi sembrano mandarmi a fuoco.
“Visto” fa poi tornando a sorridere “non è morto nessuno! Ora non ti senti libero? Non c’è niente di cui vergognarsi. Siamo tra uomini” Intanto continua a fissarmi il petto. Mi avvicina il collo della bottiglia di birra che ha in mano, mi sfiora l’incavo del petto. È ghiacciata. Ho un brivido.
“E poi, hai proprio delle belle tettine” soggiunge come se fosse la cosa più naturale del mondo, mentre ne segue tutto il contorno con la bottiglia sulla mia pelle. Mi lava un capezzolo con morbidi moti circolari della bottiglia e quello schizza duro sull’attenti sotto il vetro freddo e umido. Alzo gli occhi esterrefatto. Lui mi ansima un sorrisetto. Lascia il capezzolo sgocciolante dell’umidore della bottiglia e passa a tormentarmi l’altro. Poi all’improvviso si china e ne raccoglie le gocce con la lingua.
Da tanto mi chiedevo come sarebbe stato. Nella realtà è un po’ meno intenso di quando mi tocco da solo. Ma il suo linguone mi solletica con tale maestria che in pochi istanti ho le lacrime agli occhi. Poi passa con voracità all’altra sisa.
“Noo” la mia voce suona poco convinta, gli poggio le mani sulle spalle nude per scansarlo.
Lui si stacca e alza lo sguardo verso di me.
“Che c’è? Non ti piace? Dimmi che non ti piace e smetto”
È ancora talmente vicino che il suo alito caldo mi solletica l’areola.
Resto impietrito e in silenzio. Lui sorride, accarezzandomi il petto cala una mano sulla patta dei miei pantaloncini.
“E sì che ti piace!” esclama.
E in quel momento mi sento il pisellino, che non è più tanto –ino, ritto, dolorante e di marmo nella sua manona che lo stringe attraverso la stoffa.
Sto andando a fuoco, sento il rossore che mi inonda tutto il corpo fino al viso. Lui ricomincia a leccare. Labbra, lingua, denti che a tratti strizzano facendomi sussultare, mentre la sua barba ispida mi tormenta tutt’attorno. E la sua manona calda mi accarezza il pisello. E all’improvviso i miei capezzoli godono, il loro piacere diviene tutt’uno con quello del mio cazzo e spruzza via, strillando violento e incontrollato nei bermuda. Ancora, ancora e ancora. Sono così attonito che non emetto neppure un gemito, ma lui ridacchia, si stacca e mi dà una pacca sul pacco umido. Io scatto in piedi, lo fisso sconvolto. Tra noi il consapevole imbarazzo di quella grossa chiazza bagnata.
Che cavolo ho fatto?
Afferro la maglietta e scappo via. Corro in casa mia senza voltarmi e mi chiudo in camera.
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