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Gay & Bisex

APPARTENENZA (prima parte)


di boreetoah
01.10.2015    |    6.592    |    8 9.3
"A un bambino di 11 anni, che della morte non sapeva nulla..."

Premessa : ho dovuto dividere il racconto perché obiettivamente troppo lungo. Questa prima parte non ha contenuti erotici.

Erano due anime in pena.

A 14 anni avevano già vissuto sofferenze che nessun ragazzo di quell’età dovrebbe conoscere.

Fulvio non aveva mai conosciuto il padre. Se n’era andato non appena sua madre lo aveva informato di essere incinta. Sparito. E da allora non se ne era saputo più nulla. Anche i familiari non ne parlavano. Si mormorava fosse emigrato da certi parenti in Francia. Poco importa. Anna decise di tenere il suo bambino contro tutti e contro tutto. Aveva 21 anni. Giovane, ma non proprio sprovveduta. Se i genitori di lui non ne volevano sapere, i suoi non facevano salti di gioia. Ma l’aiutarono a terminare gli studi. Tenevano Fulvio con loro mentre lei seguiva le lezioni o faceva tirocinio. Era una ragazza in gamba e riuscì a diventare assistente sociale nei tempi stabiliti. Intanto il bimbo cresceva bene, accudito dai nonni materni, senza che nulla gli fosse fatto mancare,tranne il vero affetto. L’amore che Anna gli dava era immenso; purtroppo non suppliva le carenze di un’intera giornata passata con chi ti considera un peso,un intralcio, un incidente. Era piccolo Fulvio, ma i bambini, seppur molto piccoli, hanno un istinto particolare e capiscono subito se sono amati e quanto. Aveva quindi imparato ad essere buono, a dare il minor disturbo possibile, a stare solo. Piangeva rarissime volte e non reclamava la continua presenza degli adulti accanto a sé. Crebbe taciturno e solitario. L’asilo, la scuola materna, gli altri bimbi che conobbe non riuscirono a cambiare questo suo atteggiamento. Anna non sapeva più che fare. Lo amava quel figlio che era arrivato per caso e al quale non aveva saputo rinunciare. Lo amava più di quanto potesse credere. E sapere di non essere in grado di dargli anche l’amore di quel padre da poco, ma pur sempre padre, la faceva sentire impotente. Nonostante i suoi studi che comprendevano conoscenze di psicologia non riusciva a colmare quel vuoto. Quella assenza così presente. Fulvio crebbe così. Con la certezza di essere stato rifiutato. Lui e la madre. E con un terribile senso di colpa. Colpa. Che colpa poteva avere? Nessuna! Ma un bimbo che strumenti ha per capirlo? Un bimbo si forma su ciò che gli viene detto, su ciò che gli viene trasmesso. Una parola affettuosa, una carezza, un sorriso. Non costano nulla a chi li elargisce, ma non hanno prezzo per chi li riceve. Quando compì sei anni, Anna vinse un concorso pubblico in un'altra provincia a circa cento chilometri. Era un posto sicuro, non poteva rifiutare, e si trasferirono. Nuova città, nuova vita. Ma non nuove amicizie. Fulvio restava un bimbo silenzioso e appartato che le maestre non riuscivano a integrare nella vita di classe. Era intelligente e amava imparare. Iniziò a rifugiarsi nei libri, vivendo le avventure che vi erano narrate, immedesimandosi nei personaggi, abitando i luoghi descritti. I suoi compagni non lo cercavano più di tanto e lo consideravano strambo. Si sa che i bambini sono anche capaci di terribili crudeltà e il carattere mite e remissivo di Fulvio si prestava totalmente a subire scherzi e prese in giro. Non si arrivava mai alla violenza, ma una parola può ferire più di uno schiaffo. Fu così che a dieci anni divenne per tutti “finocchio”. La prima volta che glielo dissero non capì. Poi sì. E sentì un dolore dentro, non per la parola e neanche perché si rese conto che era vero; ma perché non era stato in grado di capirlo da solo. Lui, che si guardava dentro con precoce maturità, non aveva compreso certi suoi palpiti, pensieri, immagini che da tempo lo investivano. L’improvvisa rivelazione gli diede una sorta di sollievo. Ora capiva. Capiva quel suo muoversi sulla terra come una creatura aliena, capiva il suo sentirsi a casa quando nuotava per ore nella piscina, solo, senza dover profferire parola ai suoi compagni, pur essendo dotato di una notevole dialettica. Capiva quell’impercettibile curiosità di guardare i corpi dei maschi. Capiva il suo corpo che tendeva all’angelico con i lineamenti delicati, i capelli biondi e lisci, gli occhi blu, il corpo snello e alto per la sua età. Nei tre anni successivi si concentrò, quindi, su questa scoperta e, come gli fu chiaro il suo modo di essere, un'altra certezza lo folgorò. Lui apparteneva a qualcuno. Da qualche parte nel mondo un ragazzo, un uomo, un maschio lo stava aspettando. Lui era di qualcuno. Per un uomo che lo aveva rifiutato, un altro lo avrebbe accolto. E anche se non lo riconobbe, a quattordici anni lo trovò.

Fausto aveva perso sua madre a 11 anni. Se l’era portata via una malattia che non lascia scampo. Gliela avevano diagnosticata quattro anni prima e da allora lui la vide combattere accanitamente, resistere, illudersi e poi cominciare a perdere la speranza , a rassegnarsi, a smettere di lottare fino a consumarsi e spegnersi lentamente. All’inizio, dopo l’intervento, sembrava stesse meglio e per due anni la vita fu la stessa di sempre. Ma negli ultimi due anni cominciò a peggiorare. Per quanto suo padre avesse cercato di tenerlo all’oscuro di quello che stava succedendo, era impossibile non rendersi conto di quanto la mamma stesse male dopo una giornata in ospedale, della nausea, della stanchezza, del colorito strano della pelle, dei chili persi, dell’odore. Nell’ultimo anno le giornate passate a letto erano sempre più numerose, l’appetito sempre più scarso, la luce negli occhi sempre più debole, la voce sempre più flebile. Gli ultimi mesi videro la casa frequentata dal medico delle cure palliative, dagli infermieri per le cure sanitarie, dagli assistenti domiciliari per l’igiene quotidiana. Fausto li osservava tutti entrare nella stanza della mamma, le sorridevano, le facevano complimenti. Le usavano una delicatezza straordinaria. Dovevano. Era talmente magra che sembrava si potesse spezzare da un momento all’altro. L’infermiera le portava sempre un fiore del suo giardino e uno degli assistenti che amava fare fotografie faceva entrare qualsiasi immagine in quella stanza da cui lei poteva vedere solo palazzoni grigi. L’ultima volta le portò un arcobaleno. Sembrava che tutto fosse a posto quando venivano loro. Non distoglievano lo sguardo e non abbassavano la voce per quella forma di velato imbarazzo che prende chi sta bene di fronte a chi è terminale. La trattavano come una persona. Come neanche Fausto riusciva più a fare. Era terribilmente spaventato. Il suo cuoricino si stringeva sempre più quando entrava in quella camera. Anche se la sua mamma aveva per lui sempre quel fantastico sorriso, anche se riservava solo a lui tutto l’amore che aveva negli sguardi lucidi, anche se lo accarezzava sul viso con la mano fredda e ossuta. Nell’ultimo mese la morfina sembrava aver fatto miracoli. Il dolore era scomparso e lei sorrideva serena, come non aveva più fatto da tempo. Se lo stringeva al petto e gli diceva quanto l’amava. Gli diceva di non piangere e di non essere triste. Di essere forte, di non dimenticarla, ma di non soffrire. A un bambino di 11 anni, che della morte non sapeva nulla. Sapeva solo che si sarebbe portata via sua madre e lui non l’avrebbe più vista. Non avrebbe più avuto i suoi abbracci, i suoi sorrisi, i suoi baci, le sue parole, i suoi sguardi. Il suo amore. Gli ultimi due giorni fu sedata, perché era molto agitata e per non farla soffrire. Lui restò seduto a fianco al letto tenendole la mano abbandonata e minuta. Non ci fu verso di allontanarlo. Mauro, il padre, era completamente abbandonato a se stesso, incapace di reagire e di interagire con gli altri. In quelle ultime ore, fu sua sorella a gestire la situazione. Il respiro della mamma cambiò e Fausto rimase a guardarla terrorizzato, improvvisamente consapevole che lei lo stava lasciando. Era talmente debole che non durò molto. Poche ore e lei non ci fu più. Quel povero involucro sembrava una cosa minuscola nel letto enorme, ora che lei era andata via. Fausto non sentì nulla. Solo freddo. Un freddo gelido che gli avvolse il cuore. Mentre suo padre si gettava a stringere il corpo e a baciare il volto, invocandone il nome, lui si alzò senza dire una parola e uscì dalla stanza. E mentre faceva ciò, i suoi occhi cambiarono. Divennero gelidi come il suo cuore e un pensiero si fece strada dentro di lui. Non avrebbe più permesso che qualcuno lo lasciasse. Non avrebbe più permesso che qualcuno lo abbandonasse. Non avrebbe più permesso che qualcuno lo amasse e se ne andasse. Se mai fosse riuscito ad amare ancora, quella persona sarebbe stata sua e nessuno se la sarebbe presa senza il suo permesso. E quella persona la incontrò a quattordici anni, ma non la riconobbe.

L’atrio della scuola era affollato dei ragazzi al primo anno del liceo scientifico e dei genitori che li accompagnavano. Attendevano la presentazione del preside e l’assegnazione alle rispettive classi. In quel bailamme Fulvio si guardava intorno intimidito e con gli occhi sgranati chiedendosi come sarebbe stata questa nuova avventura. Se i suoi nuovi compagni l’avrebbero accolto positivamente , se l’avrebbero preso in giro, se avrebbe avuto degli amici. Non intendeva dichiarare ai quattro venti la sua attrazione verso i maschi, ma non voleva neanche nasconderla. A quell’età, la tempesta ormonale è in piena fase e il novantanove per cento dei discorsi dei ragazzi verte sulle ragazze e sul desiderio di “fare esperienza” con loro. Anche lui voleva fare esperienza. Ma non con le ragazze. E questo avrebbe creato qualche attrito, qualche risolino, se non battute esplicite e magari episodi di bullismo. Sapeva che poteva succedere ed era preparato. Non intendeva nascondersi. Non è detto che non trovasse chi lo avrebbe accettato e , forse, l’uomo che lo avrebbe voluto. In quel momento i suoi occhi ne incrociarono un altro paio di un blu profondo. Bellissimi e freddi. Fu un attimo, poi si spostarono velocemente. Rimase colpito da quel gelo. Gelo che significava dolore. Poi fu distratto dal preside che stava cominciando il discorso e non ci pensò più. Una volta assegnato alla sezione, salutò sua madre e si diresse con gli altri alla sua aula, dove l’insegnante li stava attendendo. Prese posto in un banco non troppo in fondo e, mentre si sedeva, vide che, due posti più in là, si era accomodato occhi gelidi. Un brivido lo percorse. Quel ragazzo era uguale a lui solo più virile, per quanto lo si possa essere a 14 anni. Stessi lineamenti del viso ma più duri, stessa altezza, stessi capelli biondi ma più corti, stessi occhi blu ma glaciali, fisico snello ma con i muscoli già accennati, segno di qualche attività sportiva. Sembravano quasi due fratelli. Fulvio continuò a fissarlo fino a quando occhi gelidi, sentendosi osservato, lo guardò a sua volta. Un rapido sguardo, freddo e distratto, poi lo distolse.

I primi giorni di scuola servirono a conoscersi e a scovare affinità e simpatie che diedero vita ai soliti gruppetti. Su tutti svettava Fausto. Nonostante il suo atteggiamento distaccato, emanava una forza attrattiva impressionante. Sembrava che tutti pendessero dalle sue labbra, anche se parlava poco, e che tutti volessero essere suoi amici. Lui lasciava fare. Dava un minimo di attenzione a chi gli stava intorno, proporzionalmente all’interesse che nutriva per quella persona o a quanto potesse essergli utile, per esempio nel passargli i compiti… E poi le ragazze. Sembravano api attorno a un vaso di miele. E a lui piacevano le api. Ne approfondì la conoscenza in maniera soddisfacente e in tutti i modi possibili, fino all’ultimo anno di liceo.

Fulvio se ne stava da solo come aveva sempre fatto. Poco per volta, si era sparsa la voce della sua “diversità” e lui non aveva mai negato. Non fu discriminato. Semplicemente non si faceva trovare quando veniva cercato. Preferiva isolarsi da solo che rischiare il rifiuto. Forse temeva che, se avesse tentato la strada dell’amicizia, i ragazzi l’avrebbero presa come una sorta di approccio. Era la sua natura. Continuava ad impegnarsi nello studio e a provare piacere nel guardare i corpi dei suoi compagni, ma con pudore. La timidezza gli impediva di rivolgere anche solo la parola a un altro ragazzo. Ma non fu messo da parte. Qualche battuta c’era e ci sarebbe sempre stata. Solo una volta, a 17 anni, due ragazzi dell’ultimo anno gli si avvicinarono durante l’intervallo,mentre era nei bagni, e cominciarono a spintonarlo, insultandolo. Il panico si dipinse nei suoi occhi e cominciò a preoccuparsi, quando la porta di un bagno si spalancò e uscì Fausto. Gli bastò un’occhiata e i due se la filarono. Poi si rivolse a Fulvio”Tutto bene?” “Sì, sì bene, grazie” balbettò lui. Uno dei pochi dialoghi che si erano scambiati in tre anni.

Erano due solitudini. Ed ognuno viveva la propria in modo differente. Eppure da lì a un mese avrebbero condiviso lo stesso tetto.

Quella prima mattina di scuola Anna e Mauro, dopo aver visto i rispettivi figli dirigersi verso la propria classe, si fermarono a parlare appena fuori dai cancelli dell’edificio. Avevano tempo, prima di andare al lavoro, e l’argomento comune dei ragazzi aveva fatto incontrare due anime che, per molti anni, avevano vissuto col senso di colpa di non essere riuscite a riempire un vuoto incolmabile. E che ora, dopo molto viaggiare, desideravano riposare in un approdo sicuro. Da allora presero la piacevole abitudine di incontrarsi a scuola e di concedersi un caffè al bar vicino, raccontandosi la vita. Si sa come vanno queste cose. Si comincia con una chiacchierata al bar, poi un incontro veloce nella pausa pranzo. Ci si confronta sugli stessi problemi e, dopo tanto parlare dei figli e del come fargli capire che li si ama, anche se non si è in grado di dimostrarglielo, si scoprono interessi comuni: un libro che ha segnato la giovinezza, un regista innovativo, il cantante preferito, il piacere per la pittura, il Galata Morente visto a Venezia… e così cominciano le prime uscite serali, lasciando i figli da soli a casa dopo anni. Un film, una cena, un concerto… fino a ritrovarsi complici in questo lento e garbato inseguirsi e mettersi a nudo, al punto da non poter più stare l’uno senza l’altra. Fu un percorso prudente e premuroso. Entrambi avevano sofferto, e le ferite erano ancora aperte, soprattutto per Mauro. Nonostante fossero passati tre anni, l’assenza così presente di sua moglie era un peso , anzi un macigno sul cuore. Lo frenava Fausto, col quale non sapeva come comportarsi. Era cambiato; da quel giorno non era più stato lui. Non rideva più, incurvava le labbra. Non parlava se non a monosillabi. Non gli permetteva di avvicinarsi. Non si era più fatto abbracciare. Non viveva; sopravviveva. E questo non va bene per un ragazzino. Ma Mauro non sapeva più che fare. Ogni tecnica utilizzata era fallita. Aveva pensato ad uno psicologo, poi, però, gli sembrò esagerato. In fondo, Fausto faceva una vita normale. Andava a scuola, in palestra, usciva, mangiava, si lavava, parlava. Poco, ma parlava. Era una vita normale. Solo non provava emozioni. Era freddo e meccanico in tutto quello che faceva.

Dopo due anni e mezzo in cui i loro figli avevano capito perfettamente che si frequentavano, ma sulla qual cosa non si erano mai confrontati, decisero di rivelarsi ufficialmente e, in quell’occasione, comunicarono che avrebbero voluto unire le due famiglie. Anna e Fulvio sarebbero andati a vivere da Mauro e Fausto, naturalmente se i ragazzi erano d’accordo. Non lo avrebbero mai fatto senza il loro consenso. Fulvio si voltò verso Fausto che non ricambiò e disse, con tono bisbigliato, che per lui non c’erano problemi. Anche Fausto diede la sua approvazione, ma il suo fu un molto più laconico “ok”. E nessuno dei due parlò più.

Fausto cercava di non guardare mai negli occhi Fulvio. Non lo voleva fare perché in quello sguardo vedeva l’abisso. Ed era lo stesso abisso che aveva dentro di sé.

Fulvio cercava di guardare sempre negli occhi Fausto. Lo voleva fare perché in quello sguardo vedeva l’abisso. Ed era lo stesso abisso che aveva dentro di sé.
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