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01. Mio fratello Lorenzo - L'istante perfetto


di acheronte2
19.11.2020    |    25.004    |    13 9.7
"Da grande imparai a gestire meglio l'arte del controllo dell'orgasmo..."
Amo condividere con gli amici gli aneddoti più intriganti della mia vita ma certe cose non si possono raccontare nei dettagli più scabrosi, per cui provo a farlo qui.
Trascorsi la mia infanzia in una famiglia colta e benestante di un paesino della Sicilia e già dalla primissima adolescenza ebbi gli ormoni in costante subbuglio, arrivando anche ad intrattenere segretamente rapporti incestuosi con i membri più giovani della mia grande famiglia – cosa per cui non nutro alcuna remora o senso di colpa: ci divertimmo un mondo!
“Membri”, in effetti, è il termine più azzeccato in quanto ebbi da sempre preferenza per il cazzo. La mia omosessualità, seppur inconscia, dominò concretamente le mie fantasie erotiche – anche se da adulto scopai con qualche donna a periodi alterni – ma, come molti di noi, non m’interessava chiamarla col proprio nome e soprattutto accostarla alla mia persona. Del resto, per un ragazzo italiano meridionale era difficile, nel ventennio 1985/2005, fare coming out con naturalezza e senza contraccolpi di varia natura.
Sono passati molti anni da quelle deliziose avventure incestuose, ma posso confermare che certi ricordi diventano davvero la matrice inconscia che indirizzano le azioni di tutta una vita. Non mi riferisco all’omosessualità – gli specialisti sanno bene che l’omosessualità non è la conseguenza di un trauma – piuttosto a certi gusti o consuetudini che ci contraddistinguono nella pratica amatoria bene o male quasi per sempre e per i quali, volente o nolente, verremo ricordati dai nostri amanti - a qualsiasi sesso biologico essi appartengano.
Comincerò da mio fratellastro Lorenzo, il frutto del grande amore nato tra due bellissimi giovani siciliani: mia madre e l’unico mio zio paterno. Mamma divenne vedova quando Lorenzo - suo primogenito - aveva solo sei anni e così quell’incallito scapolone di mio padre, che da sempre posava gli occhi sulla bella cognata, si prese cura di quella famiglia spezzata, con dedizione e senso di responsabilità. Molto legato anche al nipote, si dedicò soprattutto al sostegno ed all’educazione di un bambino “particolare” che giorno dopo giorno si chiudeva sempre più in sé stesso. Dopo tre anni mamma cedette alle proposte di nozze del cognato e così nacqui io, Gianluca, a dieci anni di distanza da Lorenzo: mio fratello, mio cugino, mio primo cazzo in assoluto.
Questa differenza anagrafica fece sì che si sviluppasse in lui una sorta di senso di protezione nei confronti di un fratellino che cresceva all’ombra incombente di enormi aspettative paterne. La comprensibile maturità emotiva di Lorenzo - dovuta alla precoce perdita del padre - lo portò, infatti, a canalizzare verso di me tutte quelle attenzioni che avrebbe voluto ricevere alla mia età e che, per cause di forza maggiore, non ricevette mai dalla persona che avrebbe dovuto riservagliele. Quelle stesse attenzioni che a mia volta attendevo da mio padre - senza riceverle quasi mai - furono invece riservate a Lorenzo da parte di colui che dei due "Fratelli Fabrini srl" era rimasto quello vivo e vegeto.
Lorenzo fu da sempre il mio ideale di riferimento, vedendolo crescere giorno dopo giorno sempre più bello, nonostante la sua particolarità fisica congenita che lo rendeva unico: era alto, fisico imponente ma asciutto, tipico dei nuotatori, intelligente, sensibile ed altruista ma privo di una gamba – o meglio, aveva un piede attaccato alla coscia, subito sotto il ginocchio, il quale era perciò conformato come una sorta di caviglia. Da vestito portava sempre una protesi che gli permetteva di celare perfettamente questa singolarità. Senza dubbio, in fatto di gambe, madre natura con lui si distrasse non poco, donandogli però un pene fuori dal comune che non smettevo mai di ammirare ogni qual volta se ne presentasse l’occasione. Il suo grosso e pesante cazzo venoso e splendidamente disegnato, sviluppatosi già nell’adolescenza, era lamia ossessione: escogitavo infiniti stratagemmi per rimanere al suo cospetto.
Ricordo quando da bambino facevo i capricci dietro la porta del bagno affinché mi aprisse per permettermi di fargli compagnia, seduto sul bordo della vasca da bagno, mentre si lavava. Col tempo le scuse furono del tipo: “ti passo l’accappatoio”, “reggo io la protesi”, “poggiati su di me”. Innocenti pretesti usati per mangiarmelo con gli occhi tutto nudo - così come la nostra mamma l’aveva partorito - che tutti interpretarono, lui per primo, come precoci slanci d’apprensione nei confronti del fratello maggiore diversamente abile.
Negli anni diventarono lo spasso della mia adolescenza e, quando imparai a darmi piacere da solo, l’ispirazione per ognuna delle mie pippe quotidiane – mentre gli altri miei compagni s’accontentavano di quel patetico “Postalmarket”.
Ma prima di allora, non posso trascurare un antefatto accaduto non prima di aver compiuto i 7 anni d'età – lui 17 – ovvero quando ebbi un primissimo contatto ravvicinato col mio oggetto del desiderio. Era nudo in vasca mentre chiacchieravamo ed è questo particolare che mi dà la certezza di non aver avuto meno di 7 anni in quanto, prima di allora, alloggiavamo in un appartamento con bagni attrezzati di sola doccia.
In quei frangenti mi chiedeva sempre come mi stessero andando le cose a scuola piuttosto che alle lezioni di nuoto. Tante domande alle quali rispondevo volentieri senza lesinare in particolari, al fine di godermelo per il maggior tempo possibile. Sedevo sul bordo della vasca con l’accappatoio da porgergli sulle gambe, come nell’attesa di una visione estatica durante la quale si compiva l’emersione di un tritone dalle acque schiumose o di ciò che a me forse sembrava più un enorme e viscido uomo-pesce. Mentre il mistero si svelava, assistevo catatonico alla lenta apparizione di quel lungo pezzo di carne bianca. L’acqua ci metteva un po’ a defluire dai folti riccioli pubici, lasciando un lungo rigagnolo rumoroso che io, bambino, vedevo come lo zampillo di un’antropomorfa fontana barocca. Non ricordo esattamente la prima volta in cui lo vidi nudo, ma tutte le successive volte che accadde, lo stomaco mi restituì sempre quella stessa sensazione che verosimilmente provai anche quella volta remota e dimenticata. Puntualmente mi vedevo ai suoi piedi, per attingere da quel rigagnolo l’acqua che magari avrebbe spento un po’ di quel sacro fuoco che m’ardeva in pancia.
«Gianetto, puoi andare in stanza per favore? Ti chiamo io… e chiudi bene la porta» mi disse inaspettatamente un bel giorno, mentre attendevo l’emersione.
Controvoglia andai via ma, incuriosito, restai a sbirciare dal buco della serratura. Lo vidi subito disteso, occupando già tutta la vasca, col capo reclinato all’indietro e la gamba penzoloni, mentre sbatteva velocemente il braccio nell’acqua, come se stesse grattandosi furiosamente il ventre o forse una coscia. Lo scroscio dell’acqua fu distinguibile fino a quando non rialzò bruscamente il capo in avanti e, via via sempre più avanti, muovendolo a scatti, con gli occhi chiusi, il mento sul petto e la labbra serrate, come se stesse faticando nel defecare, roteando le dita del piede. Poi rimase per lunghissimi secondi come morto pur respirando più forte di prima.
Rimasi interdetto, quasi preoccupato da quell’oscura gestualità intima praticata da Lorenzo che non avevo mai conosciuto prima e da cui lui stesso mi aveva estraniato volontariamente. Pensai che stesse avendo un mancamento, ma prima che mi decidessi a bussare per sincerarmene: «Gianlucaaa! Hai portato via con te l’accappatoio per caso?». La voce era roca.
Rendendomi conto di averlo con me: «Si scusa, te lo porto subito. Ma posso entrare?»
«Si fai presto che l’acqua sta gelando!» e appena fui dentro: «Non guardarmi però» con tono paternalistico.
«Perché, che è successo?»
«Una cosa che succede ai ragazzi grandi. Anche a te succederà, non preoccuparti»
«Voglio saperlo!» dissi perentorio e preoccupatissimo, con la certezza che riguardasse ciò che avevo visto poco prima.
Voltandosi stupito: «Non ti preoccupare, non è niente di grave, stai tranquillo… è una cosa che succede a tutti».
Lo guardai incuriosito e continuò: «quando noi maschietti grandi pensiamo alle ragazze nude, ci eccitiamo e l’uccello di gonfia»
«In che senso “si gonfia”? Scoppia?»
Rise aggrottando le sopracciglia: «Mica è un palloncino! E’ una cosa naturale che mi è successa perché, poco fa, ho immaginato di baciare una mia compagna di classe»
Risi anch'io, ma sornione: «Voglio sapere chi?»
«Acqua in bocca però!».
Incrociai le dita indice e medio e me le posi davanti al muso - era il rito dei nostri segreti.
Lui: «Maristella, la figlia di Ottavio, quella con le tette grosse»
«Quella lì? Mi sta antipatica!»
«Lascia stare, sei ancora troppo piccolo per capire certe cose»
Proseguii verso l'argomento che più m'incuriosiva e sottovoce, con non poca vergogna: «Ce l’hai gonfio ora?»
«Grossissimo» ribattette.
Con complicità, abbassando di più il volume della voce: «Posso vederlo? Sono curioso»
Si alzò, reggendosi al maniglione, rivelando un enorme fiammifero conficcato nel basso ventre. Quelli che poi seppi essere i suoi 21 centimetri di gioia erano completamente trasformati. Ancorché barzotto, era gonfio il doppio e sull’apice trovava posto un'enorme cappella rosso violaceo, lucente come se fosse stata appena tinteggiata. Pensai seriamente che gli stessero per scoppiare le vene. Lui se lo guardava orgoglioso cercando i miei occhi con un fare complice.
«Mamma mia! Ma ti fa male?» dissi non avendo mai visto nulla di simile.
«No, ma che...! Se te lo tocchi quando è gonfio, provi piacere»
Esclamai: «Ti piace quando te lo tocchi?!» trovando la cosa alquanto buffa.
«Si, toccandolo provi una sensazione simile a quando ti viene la pelle d’oca, hai presente? Ma più forte…».
«Ah, ho capito», avvicinandomi di più per guardarlo da vicino, attratto.
Lui proseguì: «Anche il tuo diventerà così e ci potrai giocare tutte le volte che vorrai, tanto è tuo! E’ con questo qui che si fa l’amore con le ragazze» prendendoselo alla base e facendomelo volteggiare come un pendaglio davanti la faccia!
Glielo fissai ipnotizzato e, con la spontaneità dei 7 anni, gli chiesi a bruciapelo: «Anche prima te lo stavi toccando?»
«Mi hai spiato Gianluca? Lo dirò alla mamma!»
Indispettito: «Ed io gli dico che mentre ti lavi pensi a Maristella per farti diventare l’uccello duro e toccartelo». Avevo imparato bene la lezione di poco prima.
«Va bene, va bene... non dico niente». Poi insistette: «Non mi avrai mica spiato per tutto il tempo?!»
«Si, perché ho pensato che ti stessi sentendo male»
Ironico: «Ma che fratellino premuroso! Non mi stavo sentendo male, te l’ho detto, stavo giocando col mio uccello»
«E’ bello giocarci? Potrò giocarci pure io col mio?»
«Si è bello, ma per te è ancora troppo presto: non produci ancora il liquido bianco che serve per godere»
«Lo faccio invece. E poi la pipì è gialla non bianca!»
«Non è pipì. E' un liquido bianco, denso, un po' puzzolente, che produciamo noi grandi e che schizza dall'uccello e serve a far nascere i bambini»
«Schizzaaa?!» con espressione incredula. Non aspettai oltre: «Fammelo vedere Lory!»
«Non se ne parla proprio! Mica sei femmina!»
«Meglio, così non esco incinta!»
«Idiota... serve lo stesso una femmina per farlo schizzare»
«Prima non c’era nessuna femmina in bagno quando te lo toccavi»
«No, ma la stavo immaginando»
«E tu pensala un altro po' e fallo schizzare un pochino, ti prego!»
Guardandomi divertito: «Ma vedi che non c'ha mica un bottone di sotto! Non è facile farlo schizzare Giannetto! Devi essere da solo con una ragazza oppure essere da solo mentre la pensi»
Sconsolato risposi: «Capito»
«Avvicina lo sgabello piuttosto, invece di interessarti alle cose dei grandi, che mi sto stancando a stare sul piede».
Quando mi davano del bambino diventavo insofferente, ma non era il momento per fare l’antipatico: eseguii l’ordine di mio fratello che in un baleno vidi già seduto. L’accappatoio si aprì rivelando di nuovo il cazzo che segnava ancora un angolo di 45 gradi.
Senza togliergli gli occhi di dosso: «Ci mette un po’ a sgonfiarsi, vero?»
Come per assecondarmi la visuale, sporse in avanti il bacino, allargando le cosce. Roteando davanti la faccia le dita del piede della gamba più corta: «Tra poco si smoscia, vedrai» sistemandosi lo scroto per mostrarmi bene le due grosse uova da diciassettenne che conteneva.
Deglutendo gli dissi: «Posso toccarlo?»
Deglutendo mi disse: «Perché lo vuoi toccare?»
Scrollando le spalle, fingendo disinteresse: «Così… voglio sentirlo in mano quanto è duro»
Tra sé e sé: «Ma non poteva essere Maristella a dirmi una cosa del genere!? No!? Mai una gioia...» mentre si tamponava i capelli con la spugna, ma senza essersi ancora chiuso l’accappatoio, credo, per vanità.
Notai che l’uccello stava acquistando nuovo turgore.
«Perché scatta? Va su e giù… ahahah… stai pensando a leeiii!» quasi schernendolo.
«Non sei contento? Così me lo tocchi un po’ e poi ti togli dalle palle» con ilarità.
Io invece gli sfoderai un sorriso a 54 denti.
Poi, per sincerarsi, disse: «Basta che non vai a dire niente a nessuno, ok?».
Risposi col gesto dei nostri segreti.
«Siediti qui» mi disse, indicandomi il bordo della vasca. Mio fratello stava per condividere con me la sua intimità più profonda. Una cosa che solitamente tra fratelli, ovviamente, non accade.
Dopo essermi sistemato, con sufficienza: «Una volta ho toccato per sbaglio le tette di Maristella e non sono così grosse come dici»
«Davvero gliele hai toccate? Cazzo…» inspirando a denti stretti, prese in mano il suo batacchio e lo stirò come se volesse strangolare una gallina.
«Ma così non ti fa male?»
«No, così invece diventa più duro. Guarda, toccalo ora.»
Mi prese un nodo alla gola mentre un brivido mi attraversò la schiena. Intravedevo i suoi occhi di un nero più intenso del solito che, attraverso i riccioli bagnati caduti a mezzo volto, guardavano il suo cazzo. Era eccitato, con la bocca semiaperta. Il profumo di bagnoschiuma ci avvolgeva.
Allungai la mano e col pollice e l’indice gli presi la cappella, gesto maldestro che lui percepì come un pizzicotto.
«Ahi, così mi fai male!» scostandomi il braccio. Poi: «Apri la mano come per ricevere un soldino… ecco… bravo». Lo poggiò al centro del mio palmo. Ne avvertii il rumore: era pesantissimo.
«Ora chiudi la mano piano piano, delicato però».
Non riuscivo, ovviamente, a contenerlo. «Aspetta… prendi il borotalco».
Glielo portai. Se ne versò un po’ nella mano e cominciò ad infarinarsi il pescecane. Poi si dedicò allo scroto ancora umido. Le palle gli si separarono, compattandosi. Quando tolse la mano il suo pene era ormai completamente eretto e imponente.
Divaricò ancora di più le cosce: «Così andrà meglio…». Avendo uno scroto difficile da gestire, anni dopo ritroverò familiare questo gesto, come preludio al suo desiderio di lasciarsi andare totalmente alle mie attenzioni, ponendo con fiducia alla mia mercé la parte del corpo più sensibile ed erogena che ogni uomo abbia.
Così come me l’aveva poggiato, gli presi di nuovo il cazzo, cercando di cingerlo completamente, constatandone la durezza. Il borotalco aveva reso effettivamente scorrevole il nostro contatto, cosicché mi fu facile carezzarlo con dolcezza. Si morse le labbra non appena il monte di venere della mia mano arrivò a strofinargli delicatamente il vergine filetto ormai tesissimo. Prima avanti e poi indietro.
Ebbe un sussulto e mi bloccai, senza lasciarlo: «Ti ho fatto male?» gli chiesi.
«No. E’ che nessuno me l'aveva mai toccato prima… è bellissimo. Continua un altro pochino e poi basta però, altrimenti…»
«Altrimenti?»
«Altrimenti poi dovrai continuare fino alla fine»
«Fino a quando esce il liquido bianco?»
«Non lo so. Può darsi che ci riusciamo, se continui». Il gioco di squadra era il mio forte.
«Non mi stanco, tranquillo. Sono curioso di vedere il liquido bianco».
Non disse nulla. Deglutì solamente prima di appoggiare la testa sul muro, chiudendo gli occhi. Continuai ad accarezzarlo e ricordo ancora, come se fosse ora, quell’odore così intimo che iniziò ad emanare il suo interno cosce.
«Com'erano le tette di Maristella? Sode o mollicce?»
Immaginando di doverlo assecondare: «Come l'impasto della pizza che fa la nonna Maria»
«Davvero? Mmmmh... penso che ci riusciamo sai?».
Riaprendo gli occhi: «Fai il bravo fratellino: impugnalo così, ecco… ora muovi così, su e giù… vedi? Così… tiralo di più, non mi fai male, fino a chiuderlo tutto…. Bravo… ora portalo giù di nuovo… questa è la capocchia, scoprila tutta fino a giù. Bravissimo. Se riesci a fare questo movimento un po’ più velocemente, su e giù, può darsi che riesca a schizzare». La voce gli tremava.
«Come facevi tu? Così?» andando più veloce che potetti.
«Cazzo… si… bravo!» ebbe un sussulto di sorpresa. Non aveva mai pronunciato parolacce davanti a me. Incredulo, guardando l'andirivieni della mia mano, ammise: «E’ bellissimo Gianlu… te lo assicuro!»
Fui felice quando iniziò a emettere piccoli gemiti. Si mise una mano sotto i testicoli, che roteava per accarezzarsi il perineo e notai che questo gli dava parecchia soddisfazione. Senza pensarci, con l’altra mano libera, tolsi la sua e presi ad imitarlo.
«Bravo, cazzo! Quant’è bello! Non ci posso credere…» facendo segno di no con la testa e sbarrando gli occhi fino a corrugare la fronte.
«Resterà il nostro segreto ok?» con la voce spezzata mentre mi guardava negli occhi.
«Si, solo nostro» lo rassicurai. Allora contrasse le cosce, mettendo i piedi a punta, a mo’ di ballerina.
M’implorò: «Non ti fermare!» tremante di piacere.
Il suo volto si fece “L’urlo” di Munch. La forma di quell'urlo muto alternava dalla “O” allo “0” ininterrottamente e in modo schizofrenico.
Lo assecondai mettendoci tutto l’impegno possibile per non interrompere il suo godimento. Era letteralmente nelle mie mani, in mio potere. Da bambino non potevo saperlo ma l’imprinting registrato in quel momento nella mia coscienza fu che, tra noi due, fosse possibile innescare un meccanismo irreversibile a nostro piacimento, in cui la materia diventa quasi un pulviscolo sospeso mentre tutti gli altri sensi convergono verso un punto di non ritorno, oltrepassato il quale tutta l’eternità viene compressa in un solo istante perfetto, come risucchiata in un buco nero. L’esplosione d’energia che segue subito dopo è ciò che imparai a chiamare “orgasmo”. La cosa ancora più sconvolgente per me fu sapere che tutto ciò poteva essere replicato innumerevoli volte nell’arco di una stessa vita. Di questo misterioso effetto io potevo esserne la causa, artefice e padrone.
Ricordo che la mia piccola mano mi si stancò nel sostenere quel veloce movimento che volli iniziare così troppo presto. Rallentai molto, ma senza fermarmi, anche per capire cosa potesse accadere al corpo di Lorenzo, ormai in estasi avanzata.
Rilassò gli addominali tesi come una corda: «No, no... Lascia che continui io, dai…». Da grande imparai a gestire meglio l'arte del controllo dell'orgasmo.
Iniziò a menarselo mentre io mi scuotevo la mano per decontrarla. Quando m'impossessai di nuovo del suo fallo, iniziò a sudare.
«Oh, si! Continua, si… così… sta arrivando! Quando te lo dico io, stringi di più… come se volessi strozzarlo… tirandolo verso di me!», mostrandomi come.
Si teneva con le mani sullo sgabello, sollevando il bacino, in un equilibrio innaturale, quando: «Ok, ci sono! Tre, due, uno… vaiiii!». Feci come voleva, affinché non mi sporcassi.
Il suo corpo sobbalzò prima di emettere un getto possente sui suoi addominali asciutti da diciassettenne. Poi seguirono altri. Sentivo il cazzo pulsarmi nella mano.
«Rallenta, rallenta!» e così feci.
Il suo volto era trasfigurato, incredulo di aver goduto così tanto, per la prima volta, grazie ad una mano diversa dalla sua. Poi sorrise con beatitudine.
Ed io avevo per la prima volta provocato un orgasmo ad un giovane uomo: col quale avevo condiviso il ventre di mia madre.
«Sei contento? Hai visto il seme di un grande. Con questo nascono i bambini. Farai lo stesso anche tu a te stesso».
«Sono stato bravo?»
«Si, da morire. Mi è piaciuto tanto, non hai visto?»
«Si» risposi imbarazzato per celare la mia contentezza.
«Ma mi raccomando di non dire nulla a mamma e papà»
Annuii con la testa, replicando il gesto dei segreti, mentre lui mi passò fugacemente una mano sul capo come per spettinarmi i capelli in segno d'affetto. Uscii dal bagno sconvolto ma felice, tuttavia incapace di proferir parola, attanagliato da un vortice di sensazioni fino ad allora mai provate.
[...]
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