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Lui & Lei

Tre figlie di mammà - Capitolo 1


di Giangi57
16.03.2023    |    3.577    |    0 8.3
"«Te lo dirò quando mi avrai detto da cosa hai capito che me la meno»..."
Tre figlie di mammà (Trois Filles de Leur Mére)
Pierre Louÿs, (Gand, 10 dicembre 1870 – Parigi, 6 giugno 1925)

Opera libera da diritti di autore, ai sensi dell’art. 25 della legge 22 aprile 1941, n. 633 “Protezione del diritto d'autore e di altri diritti connessi al suo esercizio”.
“Art. 25 - I diritti di utilizzazione economica dell'opera durano tutta la vita dell'autore e sino al termine del settantesimo anno solare dopo la sua morte.”

AVVERTENZA ALLE LETTRICI

Questo piccolo libro non è un romanzo. È una storia vera nei minimi dettagli. Non ho cambiato nulla al ritratto della madre e delle sue tre figlie, alla loro età e alle vicende narrate.

Capitolo 1

«Lei è ben audace!» mi disse.
«Abbiamo traslocato solo ieri, la mamma, le mie sorelle ed io. Oggi m’incontra sulle scale. Mi bacia, mi spinge in casa sua, la porta si chiude… Ed ecco…».
«Non è che l’inizio» le risposi con impudenza.
«Ah, sì? Non sa che i nostri appartamenti sono attigui? Che tra di essi c’è persino una porta murata? e che non ho bisogno di lottare se non fa il bravo, signore?
Basta che gridi: “Mamma, mi violentano!
Al satiro!
Allo stupro!”».
Questa minaccia, non c’è dubbio, voleva intimidirmi. Mi rassicurò. I miei scrupoli furono messi a tacere. Il mio desiderio, reso lieve, balzò libero nell’aria.
La fanciulla quindicenne mia prigioniera aveva i capelli corvini annodati a crocchia, una camicetta crespata, una sottana che si addiceva alla sua età e una cintura di cuoio.
Snella e bruna e fremente come un capretto scagliato da Leconte de Lisle, stringeva le zampe, abbassava la testa senza abbassare gli occhi, come se volesse dar cornate.
Le parole che mi aveva detto e la sua aria caparbia mi incitavano a prenderla. Tuttavia non credevo che tutto procedesse così in fretta.
«Come si chiama?» mi chiese.
«X***. Ho vent’anni. E lei?».
«Io, Mauricette. Ho quattordici anni e mezzo. Che ore sono?».
«Le tre».
«Le tre?» ripetè pensierosa… «Vuole venire a letto con me?».
Stupefatto da quella frase che ero ben lungi dall’attendermi, non risposi e arretrai d’un passo.
«Mi ascolti» disse lei, posandosi un dito sul labbro. «Giuri di parlare a bassa voce, di lasciarmi andar via alle quattro… Giuri soprattutto di… No. Stavo per dire: di far ciò che voglio… Ma se a lei non piace… Giuri allora di non fare ciò che io non voglio».
«Giuro tutto quel che vuole».
«Allora le credo. Rimango».
«Sì? È sì, sì, dunque?» ripetei.
«Oh! non è proprio il caso di battere il sedere per terra!» mi disse ridendo.
Provocante e gaia come una bimba, palpò, impugnò la stoffa dei miei calzoni con tutto quello che seppe trovarci, prima di fuggire in fondo alla stanza dove si tolse il vestito, le calze, gli stivaletti… Poi, tenendo la camicia a due mani, facendo una piccola smorfia: «Posso, tutta nuda?» mi chiese.
«Vuole che le giuri anche questo?… In tutta coscienza…».
«E poi non me lo rimprovererà?» disse lei imitando il mio tono melodrammatico.
«Mai!».
«Allora… eccola, Mauricette!».
Cademmo entrambi sul mio grande letto, abbracciati. Lei mi colpì con la bocca. Mi premeva le labbra con forza, mi donava la sua lingua con veemenza… Socchiudeva gli occhi, poi li apriva di colpo… Tutto in lei aveva quattordici anni, lo sguardo, il bacio, le narici… Udii infine un piccolo grido soffocato, come di una bestiolina impaziente.
Le nostre bocche si lasciarono, si ripresero, si separarono ancora.
E non sapendo bene quali misteriose virtù mi avesse fatto giurare di non carpirle, le dissi qualche sciocchezza a caso, per conoscere i suoi segreti senza esser costretto a chiederglieli.
«Com’è grazioso quel che ti sei messa sul petto! Come le chiamano i fiorai?».
«Tettine».
«E questo piccolo karakul che hai sotto il ventre? È forse di moda portar la pelliccia nel mese di luglio? Hai freddo lì in basso?» «Ah, no! non spesso!».
«E questo? non riesco proprio a indovinare cosa sia».
«Non lo indovini?» ripeté lei con aria maliziosa. «Lo dirai tu stesso, che cos’è».
Con l’impudicizia della giovinezza, divaricò le cosce, le sollevò con le mani, aprì la sua carne… La mia sorpresa fu tanto più viva in quanto l’audacia del suo comportamento non mi aveva preparato a una simile rivelazione.
«Una verginità!» esclamai.
«E per giunta bella!».
«Mi è riservata?».
Pensavo che mi avrebbe detto no.
Confesso persino che lo speravo.
Era una di quelle verginità inespugnabili come mi è accaduto di coglierne un paio. Ahimè! quanto ho sofferto!
Tuttavia mi stizzii nel vedere Mauricette rispondere alla mia domanda muovendo un dito sotto il naso, con una smorfia beffarda che voleva dire «marameo» o anche peggio. E poiché teneva sempre aperto sotto i miei occhi quel che non dovevo toccare, la stizza mi fece dire: «Lei ha delle gran brutte abitudini, signorina, quando si trova sola».
«Oh, da che cosa lo capisci?» disse lei chiudendo le gambe.
Quella frase servì più di ogni altra cosa a metterla a suo agio.
Poiché avevo indovinato, non era più il caso di negare: se ne vantò.
Con aria sbarazzina, strofinando ogni volta la bocca sulla mia bocca, mi ripeté a voce bassa: «Sì. Mi masturbo. Mi masturbo.
Mi masturbo. Mi masturbo. Mi masturbo.
Mi masturbo.
Mi masturbo. Mi masturbo».
Più lo diceva, più diveniva allegra.
Sfuggita quella prima parola, tutte le altre seguirono come se non attendessero che un segno per prendere il volo.
«Vedrai come godo».
«Mi piacerebbe proprio vederlo, in effetti».
«Dammi il tuo cazzo».
«E dove?».
«Indovina».
«Che cosa mi vieti?».
«La mia verginità e la mia bocca».
Poiché si può giungere al cuore femminile solo per tre vie… e poiché possiedo un’intelligenza prodigiosamente esercitata alla soluzione degli enigmi più ardui… capii.
Ma questa nuova sorpresa mi privò della parola: non risposi nulla.
Conferii persino al mio mutismo un’apparenza di imbecillità affinché la stessa Mauricette potesse svelare il suo mistero. Sospirò, sempre sorridendo, mi lanciò uno sguardo sconfortato che significava: «Dio! come sono stupidi gli uomini!», poi s’inquietò, e fu lei a pormi delle domande.
«Che cosa ti piace fare? Che cosa ti piace di più?».
«L’amore, signorina».
«Ma è proibito… E cosa non ti piace per nulla, proprio per nulla?».
«Quella manina, che peraltro è graziosa.
Non ne voglio assolutamente sapere».
«È davvero un peccato che io…» disse con un imbarazzo estremo «… che io non possa succhiare… Avresti voluto la mia bocca?».
«Me l’hai già data» risposi riprendendola.
No, non era più la stessa bocca.
Mauricette era smarrita, non osava più parlare, credeva fosse tutto perduto. Era davvero tempo di far ritornare il sorriso su quel faccino desolato. Una delle mie mani che la tenevano stretta si posò in tutta semplicità su quel che lei disperava di farmi accettare e persino di farmi comprendere.
La timida bimba mi guardò, vide che la mia espressione non era seria; e con un’improvvisa metamorfosi che mi fece trasalire: «Oh!
Canaglia!» esclamò.
«Animale! Bruto! Puttana! Porco!».
«Ma vuoi tacere?» «Da un quarto d’ora fa finta di non capire e se ne infischia di me perché non so come dirlo».
Riprese la sua espressione di ragazzina allegra e, a voce bassa, naso contro naso: «Se non ne avessi voglia meriteresti che mi rivestissi».
«Voglia di che?».
«Che tu m’inculi!» ribatté ridendo. «Te l’ho detto. E, con me, non hai finito di sentirne. Non so far tutto, però so parlare».
«È che… non sono sicuro di aver capito bene».
«Ho voglia che mi s’inculi e mi si morda! Preferisco un uomo cattivo a uno dispettoso».
«Ma come sei nervosa, Mauricette!».
«E poi mi si chiama Ricette, quando mi s’incula».
«Per non dir “parola”*… Su! calmati».
«C’è solo un modo. Presto!
Vuoi?».
Per nulla afflitta, forse persino più ardente, mi rese a piena bocca il bacio che le davo e, senza dubbio per incoraggiarmi, mi disse: «Ce l’hai duro come il ferro, ma io non sono troppo delicata, e ho il buco del culo robusto».
«Niente vaselina?
Tanto meglio».
«Oh! là! là! perché non col guanto?».
Ruotando su se stessa mi voltò la schiena, si sdraiò sul fianco destro e si trastullò con il dito senza altro preambolo al sacrificio del suo pudore. Poi, con un gesto che mi divertì, richiuse le labbra della propria verginità, e fece bene perché mi sarebbe stato agevole penetrarvi nonostante i miei giuramenti. Quel dito bagnato era sufficiente per lei, ma non per me. Mi resi conto in verità che lei non era «troppo delicata», come aveva tenuto a informarmi.
E stavo per chiederle se non le facessi male quando, rivolgendo la sua bocca verso la mia, mi disse l’esatto contrario: «Tu hai già inculato delle vergini».
«Da che cosa lo capisci?».
«Te lo dirò quando mi avrai detto da cosa hai capito che me la meno».
«Birbantella! hai il grilletto più rosso e più grosso che io abbia mai visto in una vergine».
«Mi tira!» mormorò lei con lo sguardo languido. «Non è sempre così grosso… Non toccarlo… Lasciamelo… Vuoi sapere da cosa ho capito che hai già inculato delle vergini?».
«No. Più tardi».
«Ebbene! eccola, la prova! tu sai che non bisogna chieder nulla a una vergine che si masturba mentre l’inculano.
Se ne fotte di rispondere».
Il suo riso si spense. Gli occhi le si dilatarono.
Strinse i denti e schiuse le labbra.
Dopo una pausa di silenzio mi disse: «Mordimi… Voglio che tu mi morda… Là, sul collo, sotto i capelli, come i gatti fanno alle gatte…».
Poi disse ancora: «Mi trattengo… Mi sfioro… ma… non ce la faccio più, sto per godere… Oh! sto per godere, mio… come ti chiami?… mio caro… Va’come vuoi!
… a tutta forza! come se stessi chiavando! Mi piace!… Ancora!… Ancora!».
Lo spasmo la fece irrigidire, la rese fremente… Poi la testa ricadde e strinsi a me quel piccolo corpo illanguidito.
Amore? No, piccola fiamma di un’ora. Però, tra me e me, non potei evitare di dire «Bigre!»** e salutai il suo risveglio con ammirazione più che con ironia: «Vai bene, per essere una vergine!».
«Eh!» disse, lanciandomi un’occhiata.
«Ragazzina ingenua!
Santa innocenza!».
«L’hai sentito, che buco del culo robusto?».
«Come un rinoceronte».
«E in famiglia siamo tutte così».
«Cosa?».
«Ah! ah! ah!…».
«Che cosa hai detto?».
«Ho detto: ecco come diamo via il culo. E guarda! ecco come godiamo davanti».
Con la vivacità del suo carattere, mostrò le cosce i cui muscoli guizzarono… Riconobbi a malapena il paesaggio.
«I Giardini sotto la Pioggia!» esclamai.
«E con il tocco del dito!» aggiunse lei ridendo. «Guarda, voglio farti un dono. Ma prima dimmi: ci amiamo?… Sì… Hai delle forbici?».
Strappò dal piumino un filo di seta e se lo pose sul ventre: «Una ciocca della mia verginità, la conserverai?».
«Per tutta la vita… Ma sceglila bene, la tua ciocca. Se vuoi che non si noti, prendi la più lunga».
«Oh! sai anche questo?» osservò con disappunto. «Ne hai forse una collezione?».
Tuttavia tagliò la ciocca, o piuttosto un ricciolo indomabilmente rotondo. Il signor de La Fontaine, dell’Académie Française, ha scritto una poesia, La chose impossible, per insegnare alla gioventù che i peli di certe donne non possono esser resi lisci. Aveva esperienza, non c’è dubbio. Che vecchiacci libidinosi, questi accademici!
Mauricette annodò i peli del suo ricciolo nero con un filo di seta verde, poi tagliò alla base.
«Un tirabaci… imbevuto della sborra di una vergine!» disse.
Balzò dal letto con uno scoppio di risa, si chiuse da sola nel bagno… ma ne uscì con la stessa rapidità con cui vi si era eclissata.
«Posso sapere adesso…» presi a dire.
«Perché in famiglia siamo tutte così?».
«Sì».
«Sin dalla mia più tenera infanzia…».
«Come parli bene!».
«Sono stata in collegio, mentre mamma e le mie sorelle si guadagnavano il pane con i signori, le signore, i ragazzini, le puttane, le fanciulle, i vecchi, le scimmie, i negri, i cani, i godemichés, le melanzane…».
«E con che altro?».
«Con tutto il resto. Fanno tutto, loro. Vuoi mamma? Si chiama Teresa; è italiana; ha trentasei anni.
Te la concedo. Sono gentile. Vuoi pure le mie sorelle? Noi non siamo gelose. Ma conserva il mio ricciolo e mi riavrai».
«Ricette! Credi che io pensi di…».
«Cucù! Ci si prende tutte e quattro: ma si torna da me. So quel che mi dico quando non mi masturbo più».
Dopo una nuova risata fanciullesca mi afferrò la mano, rotolò fino a me e riprese con tutta la serietà di cui fu capace: «Fino a tredici anni sono rimasta in un collegio di fanciulle di buona famiglia. Tu che sai tante cose, dimmi come sono le direttrici e le maestre che hanno la vocazione di vivere la loro vita puttana in un bordello di collegiali».
«Un po’ lesbiche?».
«Non osavo dirlo» rispose Mauricette con incantevole ironia.
«E poiché dovevano avere qualche informazione su mia madre, puoi ben immaginare che con me non si facevano scrupoli».
«Creature infami!
Hanno abusato della tua innocenza? Ti hanno fatto bere a forza il veleno del vizio?».
«A forza! Mi hanno pervertita!» ribatté Mauricette, che scherzava e s’imbaldanziva. «Quattro volte mi hanno sorpresa mentre stavo menando le mie amichette…».
«Ah! tu…».
«Si nascondevano nel giardino, nel dormitorio, nei corridoi e perfino alle finestre dei gabinetti per far le guardone! Credimi, è ben viziosa una maestra!».
«Pagavano per questo?».
«Con un brutto voto. Eppure!… Quanto gli facemmo vedere senza volerlo! Combinazioni stupefacenti che non avrebbero mai trovato da sole!… E infine divenni l’amica di una ragazza più grande che mi ha insegnato in dieci lezioni il saffismo come lo si parla…».
«Sarebbe a dire?».
«L’arte di leccare dolcemente nel punto più sensibile. L’arte di non sbucciarsi la punta della lingua in un punto qualsiasi. È quel che sapevo meglio quando uscii dal collegio; assai meglio della storia sacra e della geografia. Con la mia amica più grande ci s’incontrava in ogni cantone, e così la centoventicinquesima volta mi son fatta pizzicare dalla signorina Paule».
«Che ti ha pervertito un quarto d’ora dopo?».
«Sì. Nella mia stanza, sotto la sua gonna. Con delle mutande chiuse piene di bottoni. E con una graziosa gattina, quella puttana. I peli, la verginità, il grilletto, le labbra, tutto mi piaceva. Preferivo fare i lecchini a lei che alla mia amica. Credimi, è ben viziosa una maestra!».
«Sardanapalesco. E non mi hai detto tutto».
«No.
Stavo dimenticando qualcosa.
Quella non sapeva nemmeno fare i lecchini. Gliel’ho insegnato io».
A questo punto Mauricette fu colta da un riso incontenibile che la fece quasi cadere dal letto, e mise tanta grazia nel perder l’equilibrio che fui impaziente di metter fine all’intermezzo. Ero nuovamente più curioso del suo presente che del suo passato.
A mia volta, lasciai la stanza per il bagno. Mi attardai più di quel che non fosse prudente? Quando tornai, Mauricette, già vestita, si stava infilando gli stivaletti.
«Te ne vai?» le chiesi con disappunto.
«Non tutta. Una mia piccola ciocca rimane qui. E non vado lontano: là, dietro la porta. Non ricordi che hai giurato di lasciarmi andare alle quattro?».
«Del mattino!».
«Del pomeriggio, sventuratamente!» disse lei, tra le mie braccia.
Invece di fuggire, era venuta a farsi baciare, con una fiducia che rinfrancava la mia, ma poi si sottrasse con un balzo. Non potei trattenerla nella stanza né raggiungerla sul pianerottolo. Trovò la sua porta socchiusa, vi si introdusse furtivamente e disparve.
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