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Il proprio posto nel mondo


di Membro VIP di Annunci69.it dare_devil
06.05.2017    |    13.716    |    16 9.4
"Ma era così largo e lungo che ne riuscii ad accogliere appena la metà..."
“Sara, aiuta tua mamma a sparecchiare. Davide, vammi a prendere le sigarette, le ho lasciate in macchina.” La formula uno in diretta sul piccolo televisore portatile, i resti del pranzo ancora sulla tavola, il chiacchiericcio degli altri villeggianti attorno alla nostra canadese: momenti come questo si ripetevano tutte le estati. La mia famiglia - mio padre operaio, mia mamma maestra, mia sorella tre anni più grande di me - era in genere la prima ad arrivare, ai primi di luglio, e l’ultima a ripartire, a inizio settembre. Mio padre ci accompagnava a inizio stagione, ci aiutava a montare la tenda, e poi se ne tornava a Torino a lavorare in fabbrica, per poi tornare nei fine settimana, ad eccezione delle due settimane di agosto, quando poteva starsene finalmente in ferie anche lui.

Da bambino per me era una paradiso: giocare a pallone con gli altri ragazzini, ore intere in acqua, tornei, cacce al tesoro, vita all’aria aperta. Poi si cresce. E quelle lunghe estati in campeggio erano diventate una tortura. Giunto alla sedicesima estate della mia vita, oramai avrei voluto fare altro, magari organizzarmi con altri amici, fosse anche in campeggio, un posto valeva l’altro, ma certo non più con la mia famiglia. Mi sentivo fuori posto. E mi annoiavo da morire.

E poi stava succedendo qualcosa di nuovo, strano, inatteso. Dopo essere stato lasciato dalla mia ultima ragazza per uno molto più grande di me, molte domande stavano cominciando a sorgere nella mia testolina di adolescente in piena rivoluzione ormonale. Quel tipo per cui ero stato scaricato dalla sera alla mattina, un muratore di 26 anni di origini calabresi, piaceva anche a me. Intendiamoci, ero molto ferito dal tradimento e, comprensibilmente, ho sfanculato Marianna in malo modo. Ma quando l’ho vista col nuovo tipo, non sapevo se ero più geloso di lei o di lui: moro, riccio, carnagione scura, peloso, un fisico ben messo in modo naturale, frutto della fatica in cantiere. E poi Riccardo, il mio compagno di classe pluri-ripetente: rispetto a tutti noi era già un uomo fatto, grande, grosso, massiccio, castano, barbuto, una specie di boscaiolo da telefilm americano. Aveva messo incinta una tipa di una altra classe. E come biasimarla. E poi il mio professore di educazione fisica: un papà di origini campane, un altro bel toro che spesso mi distraeva dalle nostre partite a calcetto nell’ora di educazione fisica. Ovviamente per lui le nostre partite erano uno straordinario ed efficace sistema per toglierci tutti dalle palle: mentre giocavamo, si metteva a bordo campo a fumare e a leggere la gazzetta dello sport, toccandosi sportivamente il pacco di tanto in tanto.

Insomma, la mia testolina di sedicenne in calore stava definitivamente prendendo atto di qualcosa che in realtà aleggiava nell’aria già dalla pre-adolescenza, ma che avevo rimosso o minimizzato per tanto tempo: mi piaceva la ceppa. E quell’estate avrei tanto voluto andare con Riccardo e Piero, un altro compagno di classe (un po’ più sbarbatello, ma teppista al punto giusto da diventare comunque attraente), in vacanza a casa degli zii di Riccardo, in Liguria. Dai suoi racconti gli zii dovevano essere tipi molto fricchettoni e anticonformisti: mi immaginavo un’estate di canne al chiaro di luna, di libertà, di cose proibite…chissà. E invece. E invece stavo andando al parcheggio del campeggio, a recuperare le sigarette di mio padre nella nostra utilitaria, nell’atmosfera soporifera del primo pomeriggio di una domenica di agosto.

Proprio mentre stavo per inserire la chiave nella serratura della macchina, un rumore alla mia destra attira la mia attenzione. Mi giro e vedo, qualche metro più in là, il guardiano del parcheggio, intento a pisciare a ridosso di una siepe. L’avevo intravisto al nostro arrivo, ma solo ora stavo davvero percependo la sua esistenza e consistenza, in quanto maschio adulto sessualmente attivo. Si trattava di un marocchino, pensai fra me e me (che negli Anni Novanta era una categoria nazionale che superficialmente e ignorantemente usavo spesso per descrivere indistintamente tutti gli abitanti dei paesi dal Marocco vero e proprio fino all’Egitto, comprese Algeria, Tunisia e Libia, il Nordafrica insomma....), doveva avere non più di quarant’anni ma non meno di trentacinque. Dalle labbra gli pendeva una sigaretta, anzi, a guardare e sentire meglio, una canna. Carnagione olivastra, barba scura e folta con qualche pelo bianco qua e là, labbra importanti e ben delineate, occhi scurissimi, sopracciglia folte e capelli neri e crespi, crespi come i peli che sbucavano dalla maglietta a righe di una taglia più piccola rispetto al suo busto robusto e ben piazzato, tenuto in piedi da un paio di gambe altrettanto solide e pelose, coperte fino al ginocchio da pantaloncini jeans tagliati rozzamente e sfilacciati, piedi grossi infilati in degli infradito mal ridotti. La visione d’insieme aveva impegnato la mia mente per qualche secondo, tanto da ritardare la registrazione del particolare più maestoso: con le grosse mani scure e rovinate da chissà quanti mestieri occasionali, il marocchino sorreggeva un uccello scuro, lungo e gonfio, indirizzando il getto copioso verso il centro del cespuglio, per poi deviarlo, lentamente, nella mia direzione. A quel punto, il mio sguardo si è spostato dall’altezza inguine agli occhi del guardiano. Non ho mai visto nessuno pisciare così a lungo e così abbondantemente. Per goliardia, per disprezzo o per tutti e due, alzò il tiro e la traiettoria dell’evacuazione, verso di me.

Poi, siccome non siamo in un film porno, il getto si è concluso, ma facendo appena in tempo a bagnarmi la punta di entrambi i piedi, che ho osservato per qualche istante con un misto di sconcerto ed eccitazione. E poi ho rialzato lo sguardo prima verso l’uccello, che era diventato ancora più grosso e minaccioso, e poi verso gli occhi del marocchino, che aveva un’espressione indecifrabile: non sorrideva, non parlava, non si muoveva. Cosa stava accadendo ? Io ero paralizzato, forse tremavo, certamente ero scosso. Mai avevo vissuto qualcosa del genere. Se ripensavo alle mie poche scopate con Marianna (poveraccia, quanto deve essersi annoiata), mi rendevo conto che il sesso che avevo vissuto fino a quel momento non era neppure lontanamente paragonabile allo stato di eccitazione paralizzante che stavo vivendo in quel momento, e senza aver fatto nulla, a dire il vero. Ma era successo qualcosa. Era successa La Cosa. Avevo capito, finalmente, il mio posto nel mondo. In quel parcheggio, nel mezzo del nulla di una domenica di agosto avevo vissuto la mia personale rivelazione, grazie ad un uccello nordafricano migrato sulle coste italiane. E una volta capite le cose, prendono il loro corso. Le mia ginocchia caddero in avanti, il mio corpo in forma di sedicenne abbronzato si era inginocchiato prostrato di fronte ad un esemplare di virile, primitivo e ancestrale. I miei occhi verdi esprimevano soggezione e sottomissione totale. Era quello ciò che stavo cercando: un maschio alfa, rozzo, primordiale, villano, sporco, villico….Ecco perché Marianna se ne era andata col muratore. Anche lei deve aver capito, ad un certo punto, che la ceppa è sacra. E una volta trovata, non si torna indietro. Mentre il marocchino avanzava - sguardo impenetrabile e pisello sempre più grosso, venoso scuro e tozzo - capii che quel primo pompino l’avrei dedicato a lei, Marianna, grazie alla quale, ora capivo cosa significasse saper scegliere. E dunque scelsi. Allungai la mano e afferrai quel tronco caldo, vibrante e duro. Prima di metterlo il bocca lo osservai per bene. La mia iniziazione grazie a te. Mai potrò essere contro l’immigrazione, grazie a te. E poi lo leccai, in segno di venerazione, mentre un misto di odori primordiali mi invadeva le narici. Lo leccai in lungo e e in largo, apprezzandone la consistenza e le forme, come se la mia lingua dovesse competere con gli occhi nel ricostruire la forma di quel monumento di circa 20 centimetri e largo 14. Nel frattempo, con l’altra mano esploravo i peli pubici che circondavano l’asta (si era abbassato i pantaloncini) e poi le palle, scure e pelose, grosse come due limoni. Che spettacolo. Leccai anche le palle, certamente, e mi sembrò di avvertire un fremito da parte del marocchino. Come biasimarlo, erano così piene, chissà quanto erano piene, da quanto non le scaricava.

Poi presi coraggio, spalancai la bocca a più non posso e cercai di ingoiare più centimetri possibili di quel pitone. Ma era così largo e lungo che ne riuscii ad accogliere appena la metà. A quel punto fu lui ad intervenire, con autorevolezza e consapevolezza del proprio ruolo. Mi afferrò la testa con entrambi le manone e mi spinse il manganello dritto in gola. Lacrime agli occhi, senso di soffocamento. Ero impalato. Ma lui, giustamente, se ne fotteva. Continuò a stantuffare la sua proboscide, provocandomi rumori gutturali e facendomi sbavare come un lama. Mi concesse solo un istante, liberandomi per qualche secondo la testa, per farmi respirare, tossire e sputare parte di quell’eccesso di salivazione. Ma con un’uccellata sulla guancia mi fece capire che dovevo riprendere il lavoro. E così fu. più deciso e disinvolto di prima, quasi non avevo più bisogno della morsa delle sue mani a guadare la mia testa. Mi stavo impalando da solo, deciso a raggiungere, finalmente, con le labbra, i suoi peli pubici. Dopo vari tentativi, finalmente riuscii nell’impresa. A quel punto lui mi tenne stretto lì per qualche secondo. Non mi mollava. Stavo soffocando per davvero, gli occhi mi uscivano dalle orbite, la saliva colava a fontane dal mento, giù verso il collo e il petto, imbrattandomi tutta la maglietta del concerto dei Depeche Mode, dove ero stato con Marianna pochi mesi prima. Dovevo staccarmi e respirare. Con le mani feci pressione sulle sue natiche pelose, quasi ad implorarlo Mossosi forse a pietà, mi concesse qualche istante per tossire, respirare. Ma mi riafferrò subito. Prese a stantuffare con una rabbia che quasi mi spaventò, sembrava posseduto. Non solo mi spingeva la testa verso l’inguine, ma spingeva con potenti colpi le anche in avanti. Mi stava letteralmente scopando la gola. A quel punto il mio naso finiva ritmicamente nella foresta dei suoi peli pubici. Tentai di guardare in alto, oltre l’addome peloso. E per un istante intravidi la sua faccia stravolta dal piacere, mormorava delle frasi incomprensibili, ad occhi chiusi. E poi, all’improvviso, mi incollò la faccia all’inguine con una tale pressione che immaginai la sua cappella assestata nel mio esofago. Un rantolo, una voce talmente profonda e cavernosa da sembrare non umana, chissà quali bestemmie in arabo. E poi la liberazione, dalle sue palle al mio esofago. Mi tenne lì costretto per circa un minuto, per liberarsi completamente, e farmi bere tutto, fino all’ultima goccia. Poi, appena venuto, con le mani allontanai la mia testa dalla sua proboscide, che fuoriuscì centimetro dopo centimetro, fino a scivolare via dalle mie labbra e ricadere sul suo pube. Risollevò i pantaloncini, la zip, si girò e se ne andò, sparendo oltre i cespugli.

Io restai per un minuto o forse due in ginocchio, tremante e tutto zuppo, di saliva e altri umori. Ero venuto, senza toccarmi.

“Ma le sigarette le sei andate a prendere a Torino ? Dove sei ? Davide ? Ma che cazzo fai lì in ginocchio ?”

Alzai lo sguardo, e controluce vivi mio padre, sconcertato, di fronte al proprio figlio inginocchiato a terra, i capelli castani tutti scompigliati, la t-shirt e il costume bagnati.
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