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Storia della mia vita 25


di Moltoesigente1
06.05.2024    |    1.059    |    1 9.3
"Nel farlo stringevo gli occhi e contorcevo il bacino con grande lentezza per posarmi sul cuscino..."
Continuazione da STORIA DELLA MIA VITA 24

CAPITOLO 25 - LE PUNIZIONI E LA RIGIDA EDUCAZIONE

Non passarono molti giorni, però, perché io capissi quale doveva essere il regime cui dovevo essere sottoposto in quella casa.

Una sera, mentre servivo devotamente la mia padrona, mi sfuggì di mano un bicchiere di un servito importante che si infranse sul pavimento.

Ingrid rimase calmissima, come sempre. Mi ordinò soltanto di raccogliere accuratamente i frammenti e di gettarli nei rifiuti.

Il tono era basso, ma molto serio. Mi prese una incontenibile apprensione: il non sapere cosa mi avrebbe fatto mi spaventava moltissimo. Mentre ubbidivo, dissi sottovoce: “Ti supplico, Ingrid. Non l’ho fatto apposta. Ti supplico… non punirmi.”

Non rispose. Il suo silenzio era più agghiacciante di una sfuriata. Quando ebbi finito di ripulire, mi prese i polsi e li unì, facendo scattare il blocco. Poi mi spinse verso la temutissima stanza delle punizioni e delle torture.

Come suo carattere, i suoi gesti non erano mai, assolutamente mai, brutali. Solo in questi casi erano più fermi e decisi del solito, in modo da vincere quel minimo di naturale timida resistenza che ancora mi veniva da opporre, intuendo quello che sarebbe stato il mio destino.

Era eccitata mentre in silenzio mi incatenava agli anelli e io piangevo sommessamente implorando pietà.

Come sempre, portandomi in quella stanza, mi aveva spogliato completamente nudo. Attaccato al muro sotto agli anelli c’era una specie di corrimano imbottito che sporgeva di parecchi centimetri. Siccome me lo trovavo premuto contro la parte bassa del ventre mentre le mie braccia erano appese agli anelli, ero costretto a stare leggermente piegato in avanti con il culo sporgente all’indietro.

Allo specchio vidi con terrore che Ingrid non sceglieva una delle fruste con cui mi colpiva di solito per educarmi alla completa sottomissione. Prese invece lo scudiscio.

“No, no, pietà, pietà, padrona…. Ti scongiuro.” Implorai piangendo. Ma Ingrid era implacabile. Mentre si preparava a percuotermi, strinsi forte gli occhi e i denti, in attesa del primo colpo. Che arrivò violento, terribile, dolorosissimo.

Gridai forte, perché non riuscii a trattenermi e, dopo qualche secondo, mi colpì di nuovo e di nuovo gridai disperatamente.

Lo scudiscio era veramente tremendo: mi sembrava che mi strappasse via le carni; e il dolore intenso persisteva, mentre le scudisciate successive si abbattevano senza pietà sulle mie tenere natiche e io continuavo a gridare forte ad ogni percossa.

Non so quante me ne diede. Forse sei o forse addirittura nove. Poi Ingrid appese finalmente lo scudiscio, ma io ero a pezzi. Il culo mi faceva così male che dovevo stringere forte i denti per non continuare a gridare. Mi resi conto che le punizioni di Ingrid potevano essere davvero terribili e mi ripromisi con forza che mai più avrei fatto qualcosa che inducesse Ingrid a punirmi così.

La mia padrona mi liberò dalle catene, mentre continuavo a singhiozzare. Poi si allontanò in silenzio, andando in un’altra stanza. Io rimasi ancora lì con questo dolore fortissimo e quasi insopportabile al culo e alle cosce, ma il comportamento di Ingrid mi faceva stare ancora peggio. Perché se n’era andata così? Era ancora arrabbiata con me? Non mi aveva perdonato?

Cercai di avvicinarmi silenziosamente alla padrona con il capo chino e atteggiamento di assoluta sottomissione, quasi strisciando.

Ingrid si era seduta su una poltroncina. Indossava solo una camicetta abbastanza ampia e lunga, ma sotto non aveva nulla. Anche se le lacrime mi continuavano a scendere lungo le guance per il dolore vivo che si acuiva ad ogni mio movimento, la cosa più importante per me, in quel momento, era riuscire a ottenere il suo perdono.

Mi inginocchiai ai suoi piedi, ma gemendo per il dolore ad ogni minimo movimento, perché tirando la pelle dei glutei e delle cosce la sofferenza diventava quasi insopportabile. Però ero più contento, perché mi accorsi che mi guardava mentre cercavo di prostrarmi davanti a lei nonostante il male che provavo e le lacrime che non si fermavano.

Quindi non era indifferente. Anzi, il suo cazzo si era eretto in modo deciso sotto alla camicetta e ora svettava libero e prepotente come un obelisco. Presi coraggio e mi avvicinai morbidamente, scorrendo le mie dita sulle sue cosce, fino a sfiorare il suo membro, duro e marmoreo come sempre.

Avvicinai religiosamente la bocca e cominciai ad adorare quello splendido cazzo. Se il premio finale per una sofferenza così intensa e una schiavitù così profonda era poter godere il cazzo di Ingrid, valeva mille volte la pena sopportare tutto questo.

Succhiai e leccai con una tale devozione e trasporto, usando al massimo tutte le tecniche possibili per dare piacere alla mia padrona, che Ingrid si lasciò andare a poco a poco.

Alla fine, mi afferrò la testa con entrambe le mani e guidandomi sul suo ritmo mentre succhiavo intensamente, giunse a un lungo ed energico orgasmo dentro la mia bocca, riempiendomi di sperma e appagandosi completamente. Come facevo sempre, strinsi leggermente il cazzo nella fase di detumescenza per estrarre le ultime gocce di liquido che raccolsi delicatamente con le labbra, in modo da lasciarlo completamente pulito.

Dopo aver deglutito tutto, rimasi in ginocchio con il capo chino e le mani giunte, mentre Ingrid continuava a guardarmi.

“Sei stato bravo.” Disse dopo qualche minuto.
“Per me è tanto importante, padrona, che tu non sia più arrabbiata con me.” Risposi con tono infantile. “Io… darei tutto per poter essere perdonato. Ti scongiuro… perdonami.”

Rimase in silenzio per qualche interminabile secondo poi la frase per me liberatoria: “Si, ti perdono.”

Sospirai. Finalmente ero tornato nelle grazie della mia padrona. Ero più sereno, ora, anche se con il culo che non mi aveva mai fatto così male in vita mia.

In seguito le punizioni con lo scudiscio divennero molto più rare, sia perché ero diventato spasmodicamente attento a non fare nulla per meritare quella punizione, sia perché anche Ingrid sapeva che castigarmi così era molto traumatico e l’avrebbe fatto solo a fronte di una disubbidienza oppure di una mancanza grave.

Però la frusta era lo strumento principe per proseguire nell’opera di eradicazione della mia individualità non ancora completamente soggiogata.

Accadeva spesso che mi prendesse all’improvviso i polsi e mi incatenasse, conducendomi con fermezza verso la stanza delle torture. Lì mi liberava per un attimo allo scopo di togliermi più facilmente quello che avevo addosso, poi li incastrava di nuovo fra di loro e mi toglieva pantaloncini e slip, in modo da lasciarmi interamente nudo.

Io piagnucolavo sommessamente, pregando: “Ti scongiuro, padrona. Non frustarmi ancora. Ti prego, ti supplico. Il culo mi fa ancora male per le frustate di ieri…” “Piccolo, lo sai che devo educarti a fondo e la frusta ha questo scopo.” Parlava con calma e mi diceva queste frasi con dolcezza.

“Io… io sono tanto sottomesso a te, Ingrid. Non potrei mai e poi mai fare qualcosa contro la tua volontà già adesso. Ti supplico, ti scongiuro… no ancora frusta….” Piangevo piano, guardandola con sguardo implorante, mentre mi incatenava nudo agli anelli o al piano inclinato.

Quando piagnucolavo e la pregavo umilmente in questo modo la attizzavo sessualmente ancora di più. E anch’io, per la verità: l’erezione che avevo palesava con evidenza la mia eccitazione.

“Ma, vedi, anche se pensi di essere completamente sottomesso, non è ancora così. D’altra parte, sono io che deciderò quando ridurre le razioni di frusta, in base al tuo grado di completo asservimento a me. Sei d’accordo?” “Si… si padrona. Sono d’accordo. Sarai tu a decidere quando frustarmi di meno.” Le piaceva che ripetessi le sue parole quando esprimevano il suo dominio sul mio corpo e la mia mente.

Spesso, prima di iniziare, sceglieva un cazzo fra quelli della vetrinetta e lo fissava all’interno della speciale cintura. Poi inseriva con delicatezza il cazzo nel mio culo e stringeva la cintura sul davanti per evitare che il cazzo fuoriuscisse. A volte completava l’opera mettendomi anche un cazzo nella bocca tenuto fermo con un elastico dietro la mia nuca.

Così, totalmente penetrato dai cazzi, mi sentivo un oggetto di puro piacere per lei e provavo la dolcezza dell’abbandono alla sua volontà di padrona assoluta prima di assaggiare, appoggiando il mento sull’imbottitura e strizzando gli occhi, il primo colpo di frusta.

La frustata iniziale faceva molto male e sussultavo per il dolore, ma anche le successive si susseguivano procurandomi una sofferenza fortissima.

Per lasciarmi respiro, lei si fermava ogni tre o quattro colpi e mi accarezzava con tenerezza fra i capelli, mentre io singhiozzavo disperatamente. Le carezze avevano sempre lo stesso straordinario potere dell’inizio e io mi calmavo un po’.

Allora riprendeva a colpirmi. E questa sequenza si ripeteva due o tre volte. Lei sapeva che interrompere la sessione di frustate con le carezze mi consentiva di resistere meglio al dolore.

D’altra parte, la mia erezione, cominciata fin dal momento in cui mi trascinava nella stanza delle torture, diventava massima mentre mi penetrava con i cazzi e si manteneva molto forte anche durante le frustate. La rigidezza del mio cazzo non veniva affatto influenzata dall’intenso bruciore dei colpi che si abbattevano sul mio culo, e l’erezione, d’altra parte, si rafforzava con le carezze.

All’inizio il mio culo era molto martoriato per la frequenza delle frustate. I segni rossi rimanevano; e anche se sparivano continuavano a farmi male.

Dopo che mi aveva frustato le lacrime mi scendevano copiose sul viso, ma mi prostravo subito ai suoi piedi appena mi liberava dalle catene, per fare un profondo atto di sottomissione. Poi rimanevo in ginocchio finché non mi ordinava di alzarmi e di sedermi vicino a lei.

Spessissimo le chiedevo umilmente, con il capo chino e gli occhi bassi: “Ti prego, padrona, posso non sedermi? Mi fa molto male.” A volte assentiva e allora mi inginocchiavo sulla sedia o sul divano accanto a lei.

Altrimenti mi permetteva di prendere un cuscino molto imbottito e di sedermici sopra con molta attenzione, cercando il modo di provare meno dolore possibile. Nel farlo stringevo gli occhi e contorcevo il bacino con grande lentezza per posarmi sul cuscino.

Lei mi guardava intensamente. Quella mia espressione e quel mio cercare di provare meno dolore al culo nei miei movimenti la divertiva moltissimo. Situazioni apparentemente simili si verificavano con Ramona e le altre due, ma la somiglianza si fermava alla sola superficie. In realtà con Ingrid era tutto davvero diverso, sia perché lei era decisamente più raffinata nel torturarmi, sia perché il mio coinvolgimento era molto più profondo.

In seguito la frusta divenne progressivamente più rara perché ormai la mia volontà individuale non esisteva più. Il mio corpo ubbidiva solo ai suoi voleri e, quando lei era presente, passavo la maggior parte del tempo in ginocchio, prostrato davanti a lei, oppure strisciando ai suoi piedi, quasi sempre completamente nudo.

Anche quando mi conduceva nella stanza delle torture non opponevo più neppure quella parvenza di resistenza istintiva che facevo all’inizio. Ero completamente abbandonato e docilissimo. L’unica cosa che facevo era piangere sommessamente implorandola di avere pietà, perché il mio corpo e la mia mente erano ormai completamente suoi e non c’era più nulla di mio, come fin dall’inizio aveva voluto.

Alla fine l’essere appeso nudo nella stanza delle torture e frustato a lungo era diventato solo parte dei nostri giochi erotici.

Ovviamente, anche le frustate dei primi tempi e persino lo scudiscio avevano scopi quasi esclusivamente sessuali, ma comprendevano anche una importante componente per così dire “formativa”, nel senso che le frequentissime sessioni di frustate (dieci o più ogni volta) non nascevano dall’applicazione di punizioni (salvo lo scudiscio), ma avevano come finalità quella di impartirmi vari insegnamenti: la conoscenza e il rispetto della disciplina, l’obbedienza cieca e assoluta ai suoi ordini - anche inespressi, ma intuibili dal suo sguardo -, la mia profonda sottomissione che doveva nascere da una intima convinzione e la rinuncia consapevole a qualsiasi atto individuale, anche solo mentale, che non fosse esplicitamente permesso e autorizzato da lei.

Ormai, l’avermi privato di qualsiasi pensiero indipendente, definitivamente cancellato dall’impiego così assiduo della frusta, rendeva non più necessaria la componente “educativa” del suo uso.

Un giorno che dovevo ubbidire a vari ordini che mi aveva impartito e che dovevo eseguire prima del suo ritorno, nella fretta riposi male una sua gonna nell’armadio, sotto altri capi. Quando la riprese, la trovò un po’ spiegazzata.

Mi ordinò di andare da lei. Già il tono del comando mi aveva messo in grande allarme. Lei era seminuda, perché doveva appunto indossare una gonna. Aveva solo gli slip di pizzo. Appena fui al suo cospetto mi fece vedere il capo così mal piegato fissandomi in silenzio.

Fui preso dall’angoscia. Sapevo che, se aveva deciso di punirmi, sarebbero state scudisciate. Mi buttai in ginocchio ai suoi piedi piangendo e cercando debolmente di giustificarmi. Ma non mi contorcevo più dalla disperazione, come altre volte.

Mi sollevò e mi bloccò i polsi con il meccanismo dei braccialetti. Ormai ero profondamente rassegnato. Se Ingrid aveva deciso di martoriare il mio corpo e di farmi soffrire tanto, così doveva avvenire, perché quella era la sua volontà.

Glielo dissi: “Io sono una tua proprietà esclusiva e totale, padrona, sia il corpo che la mente. Le tue decisioni sono tutto per me. Oso solo chiederti un po’ di pietà, perché lo scudiscio fa tanto, tanto male. E anche nei giorni seguenti vestirmi o sedermi continua a farmi molto male.”

Continuava a rimanere in silenzio e immobile. Io ero in piedi davanti a lei, incatenato, a capo chino e ormai rassegnato al mio destino.

Con la mano mi sollevò il mento per guardarmi. I suoi bellissimi occhi erano indagatori, ma non freddi. Voleva penetrarmi dentro con lo sguardo e capire se mi possedeva davvero in modo così totale come voleva lei. Io la guardai con una espressione implorante e di completa sottomissione, manifestando il mio rassegnato abbandono alla sua volontà.

Allora mi accarezzò. Lo fece diversamente dalle altre volte. Non era diverso l’atto: passò le sue dita fra i miei capelli accarezzando con le unghie la mia nuca e scorrendo la mia guancia con il palmo della mano, ma era diverso il modo. Molto più affettuoso.

Mi sciolsi come al solito sentendo brividi che mi percorrevano la schiena e mi abbandonai alle sensazioni stupende che quel tocco mi suscitava. Forse era venuto il momento in cui lei riteneva che la mia sottomissione e la mia arrendevolezza a tutti i suoi voleri fossero arrivate al punto che esigeva. Forse, finalmente, da quel momento in poi avrebbe usato la frusta con meno frequenza e non avrebbe usato più lo scudiscio.

Seguirà: CAPITOLO 26 - LA PROVA D’AMORE

Titolo: STORIA DELLA MIA VITA 26
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