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tradimenti

Io sono tua


di Claire1980
26.08.2024    |    3.059    |    18 9.9
"è così difficile lasciarti andare..."
Sdraiati sul letto, i nostri corpi sono coperti da un velo di sudore, le gambe intrecciate in un groviglio disordinato. Il suo cazzo inerte giaceva ancora caldo contro la mia coscia mentre fissavo il soffitto, contando le crepe per risolvere un puzzle invisibile. Sentivo la sua gamba pesante su di me, un promemoria del nostro intimo esaurimento.
Con un gesto distratto, sollevai la mano per passare le dita tra i suoi capelli. Rimaneva ben poco, un miscuglio di grigio sbiadito e filamenti radi, un riflesso impietoso del tempo che scivola via.
Aprì un occhio, un lampo di consapevolezza che attraversava il suo volto stanco.
"Mi hai risucchiato le palle, Chiara, sono completamente svuotato."
Si sollevò appena, quel tanto che bastava per premere le labbra sulle mie. La punta della sua lingua si fece strada con una delicatezza quasi innaturale, lambendo la mia bocca con un tocco lieve. Sorrisi, un sorriso piccolo, più un riflesso che un'emozione vera.
"Sai quanto è liberatorio non dover pensare ai bambini, alle gravidanze?"
La mia voce uscì più forte di quanto intendessi, spezzando la quiete della stanza.
"Adoro avere la figa piena di sperma, ma è raro che sia possibile farlo, a meno che non sia con Massimo."
Ci fu un attimo di silenzio, un momento sospeso, pesante come la sua gamba sulla mia.

Si sollevò sui gomiti, gli occhi incollati ai miei, una fiamma di irritazione dietro lo sguardo stanco.
"Non la smetti di parlare di lui!"
La sua voce era aspra, quasi un ringhio sommesso, ma c'era anche una nota di rassegnazione, come se sapesse che niente di quello che avrebbe detto potesse cambiare qualcosa. Annuii, senza fare caso al tono, e distolsi lo sguardo, tornando al soffitto. Le crepe sembravano allargarsi.
Quello che mi irritava davvero era il suo rifiuto di accettare Massimo, di comprendere quanto fosse necessario, inevitabile. Ero felicemente sposata, una vita che scorreva in superficie come un fiume placido, anche se sotto c'era una corrente che lui non poteva vedere, né comprendere. Massimo, il “mio” Massimo, era la costante, quello da cui tornavo dopo che il calore del momento si spegneva e la realtà tornava a imporsi. Era Massimo a tenere insieme i pezzi della mia quotidianità, a raccogliere le schegge quando tutto sembrava andare in frantumi.
Quando ero malata, ingestibile, era lui a starmi vicino, a sopportare il peso di un amore che il mio amante non riusciva nemmeno a immaginare. Massimo capiva, accettava, anche quando sapeva che c'erano bisogni che non poteva soddisfare, desideri che mi portavano altrove. Era una dinamica che lui non avrebbe mai afferrato, quella tra me e mio marito, qualcosa di crudo, di reale, che sfuggiva alle definizioni semplici, e forse per questo preferiva non sentirne parlare. Ma per me, Massimo era più di una presenza; era l'equilibrio che mi permetteva di non crollare, il filo sottile che teneva insieme il caos della mia esistenza.

Mi liberai dal suo abbraccio, scivolando via con un movimento fluido, e mi sedetti sul bordo del letto. Le sue braccia si strinsero attorno a me, avvolgendomi da dietro, le sue mani si posarono sulla mia pancia, sul petto. Il mio seno non era più quello di un tempo, ma c’era qualcosa di nuovo in me, una consapevolezza che mi rendeva paradossalmente più sexy, più potente.
"E’ tardi, lasciami andare," dissi.
Mi alzai dal letto, i piedi nudi che toccavano il pavimento freddo, e mi avviai verso la porta aperta. La luce del sole entrava dalle tende bianche, un bagliore diffuso che rendeva il tutto un sogno dalla qualità smorzata. Sapevo che lui era ancora lì, disteso a guardarmi, gli occhi fissi sul mio culo che oscillava mentre camminavo. Di solito era questo il momento in cui sentivo la sua eccitazione risvegliarsi, quando lo sentivo alzarsi dal letto e venire verso di me, afferrandomi con forza, trascinandomi di nuovo tra le lenzuola o piegandomi sul tavolo, come se la sua voglia di possedermi non conoscesse limiti.
Il pensiero del suo cazzo caldo che mi riempie, entrando in quella figa già colma di sperma, mi attraversò la mente come un lampo, un’immagine di puro piacere, un ricordo paradisiaco che normalmente mi avrebbe fatto cedere. Ma oggi no. Oggi, c’era qualcosa di diverso, un muro invisibile che si ergeva tra di noi, forse fatto di stanchezza.
Senza voltarmi, entrai nel bagno e chiusi la porta a chiave dietro di me. Aprii la doccia e l’acqua cominciò a scorrere, purificandomi.

Quando uscii dal bagno, fresca e pulita, con i capelli ancora umidi che cadevano sulle spalle, lo trovai in cucina. Stava bevendo un bicchiere d'acqua, la sua figura in controluce contro la finestra. Indicò il tavolo dove un altro bicchiere mi aspettava. Mi avvicinai, afferrai il bicchiere e bevvi profondamente; la sete era reale, intensa, come se avessi bisogno di quell'acqua per placare qualcosa di più profondo. Sentii di nuovo il suo abbraccio avvolgermi, le sue braccia che si stringevano intorno a me come se potessero trattenermi lì, in quel momento.
"Chiara, mi dispiace!"
La sua voce aveva un tono implorante, quasi infantile, e mi voltai verso di lui. Non c'era spazio per la rabbia in quel momento, solo per l'inevitabile attrazione. Le sue labbra baciarono le mie e io presi a coppa la sua testa con entrambe le mani, baciandolo avidamente e a lungo, la mia lingua invadeva la sua bocca, la sua faceva lo stesso.
"Chiara... è così difficile lasciarti andare. Ti voglio sempre qui, per me, senza doverti condividere con tuo marito."
La sua voce tremava leggermente, come se fosse sul punto di spezzarsi, ma c'era un'ombra di determinazione che mi irritava. Alzai gli occhi al cielo, un gesto di pura frustrazione, e cercai di allontanarmi.
"Aspetta, aspetta Chiara."
Lo guardai, sentendo la stanchezza insinuarsi tra le crepe del mio autocontrollo.
"Boris, abbiamo avuto questa conversazione mille volte, mi dispiace."
La mia voce era piatta, priva di emozione, come se recitassi una battuta già ripetuta all'infinito.
Tornai in camera da letto, il silenzio pesante dietro di me, e cercai il mio perizoma. Lo trovai appeso sopra il paralume, e non potei fare a meno di sorridere, un piccolo sorriso stanco, ma inevitabile. Era il suo rituale, quello strano gioco che ripeteva ogni volta, non importa quanto lo supplicassi per avere subito il suo cazzo, non importa quanto la mia figa fosse lì, aperta e bagnata, pronta per lui. Le sue mani trovavano sempre il modo di appendere quelle mutande sopra il paralume, un gesto che aveva la qualità di un rito.
Lo infilai, Lui entrò nella stanza. Il silenzio tra di noi era denso, come se ogni parola fosse già stata detta, come se ogni emozione fosse già stata provata, e tutto ciò che rimaneva fosse solo l’inevitabile ripetizione di un copione già scritto.

Dopo essermi vestita, presi la borsa e la misi sulla spalla con un gesto deciso. Lui mi aveva seguito di nuovo, come un’ombra persistente, gli occhi fissi su di me, ardenti di un desiderio misto a frustrazione. Era ancora nudo, il suo cazzo perfetto penzolava mollemente tra le gambe, una visione che conoscevo fin troppo bene. Mi piaceva la sensazione di quel cazzo nella mia bocca, il modo in cui tremava leggermente quando lo prendevo in profondità, il modo in cui sussultava appena prima di esplodere, riempiendomi la gola con il suo sperma caldo. Ricordavo il pulsare delle sue vene, il tremito dei suoi muscoli, le contrazioni che facevano vibrare tutto il suo corpo.

Mi avvicinai senza fretta, lasciando che il momento si prolungasse, e lo afferrai con la mano, avvolgendo le dita intorno a quella carne morbida. Il suo viso si contorse in una smorfia, ma rimase immobile, in piedi davanti a me, come se fosse incatenato.
"Forse dovresti davvero riflettere sulla nostra relazione, Boris" dissi con voce ferma, il tono calcolato, privo di qualsiasi traccia di esitazione. Le mie sopracciglia si sollevarono appena, un segnale che ero seria, che non c’era spazio per fraintendimenti. "Non è una cosa per tutti, e se pensi che sia troppo difficile rispetterò la tua decisione."
Lui non disse nulla, ma il suo sguardo cambiò, un’ombra di incertezza attraversò i suoi occhi. Continuai, senza lasciare che il silenzio diventasse troppo pesante.
"Massimo è mio marito, e lo amo. Non lo lascerò mai. Ma adoro anche essere scopata da te. Adoro il legame che abbiamo, il modo in cui il tuo desiderio per me accende qualcosa di primordiale."
Feci una pausa, lasciando che le mie parole affondassero, che il loro significato lo colpisse davvero.
"Ma io non voglio essere posseduta," continuai, la voce che si fece più fredda, più tagliente. "Non voglio sentire i tuoi morsi di gelosia. Semplicemente, non lo voglio."
Mi voltai lentamente, lasciando la presa, e mi diressi verso la porta, sentendo il peso del suo sguardo bruciare sulla mia schiena. Sapevo che non avrebbe risposto subito, che avrebbe dovuto fare i conti con quella verità da solo, e in qualche modo, sapevo anche che il nostro gioco, il nostro accordo, era ormai sospeso su un filo sottile. Un filo che poteva spezzarsi in qualsiasi momento.

Mentre scendevo le scale mi chiedevo se fossi stato troppo dura. Quando uscii in strada una signora mi squadrò indignata e quando abbassai lo sguardo vidi che la mia camicetta era semiaperta. Mi sono affrettai ad abbottonarla e uscii al sole. Mi incamminati verso casa.

Quella sera, commisi l'errore di raccontare a Massimo l'angoscia di Boris. Non so perché lo feci, forse per un impulso incontrollabile di onestà o solo per vedere come avrebbe reagito. Nel corso degli anni avevamo trovato un equilibrio, una sorta di accordo non detto che ci permetteva di navigare in questo strano triangolo, ma sapevo che la gelosia avrebbe sempre trovato un modo per insinuarsi, creare crepe.

"Quindi si sta innamorando?"
Massimo sorseggiò il suo caffè, la voce calma, ma carica di qualcosa di più profondo.
"Ogni volta che pronuncio il tuo nome diventa triste.”
Lui annuì, io gli sorrisi, ma sentivo la pressione crescere, l’atmosfera era carica di qualcosa che non era semplice fastidio. Mi rammaricai immediatamente di avergliene parlato, sapendo dove avrebbe portato quella conversazione. Probabilmente voleva che lasciassi Boris, ora, subito. Non sarebbe stata la prima volta.

Ricordai gli anni passati, il trasloco in una nuova casa, il viaggio che avevamo intrapreso insieme verso una relazione sessuale diversa, più aperta. Quando mio marito mi raccontò, durante il sesso, che mi avrebbe immaginata posseduta da uno sconosciuto, era solo uno dei tanti giochini che fanno le coppie per eccitarsi. Da li si era passati a immaginare persone conosciute: il vicino di casa, il mio capo, il macellaio. Un uomo qualunque che mi lanciava un’occhiata di troppo mentre passeggiavamo sul viale.
Quando al mare, dopo troppi cocktail, mi lasciai scappare che avevo avuto una piccola storia, già finita, con un mio ex collega, al momento si chiuse in un silenzio che non lasciava prevedere niente di buono. Quella notte, invece, volle conoscere tutti i particolari, anche i più scabrosi, l’odore della pelle, il sapore dello sperma. Le parole che mi diceva quando mi inculava.
Cominciò così. Non andavo a cercarle di proposito, ma quando le tentazioni si presentavano a sorpresa, inaspettate e improvvise, non riuscivo più a negarmi. Era una resa consapevole, sapendo che alla fine avrei raccontato tutto a Massimo. Lui non solo mi avrebbe perdonata, ma avrebbe trovato un piacere perverso nel sapere cosa avevo fatto, nel sentire i dettagli, nel visualizzare la scena nella sua mente.
Era un gioco senza regole esplicite, ma c’era una linea sottile, sempre presente e chiaramente intesa: non dovevo innamorarmi dei miei amanti.
Per questo, le mie relazioni extraconiugali erano rapide, intense, un colpo secco, una "botta e via" che lasciava poco spazio alle emozioni, ma amplificava il piacere puro, primitivo. Cosa c’è di più ancestrale, mi chiedevo, di lasciarsi andare con un uomo che non vedrai mai più, che non conoscerai mai davvero? Il piacere carnale, isolato dal coinvolgimento emotivo, diventava un’esperienza quasi spirituale, un modo per perdere me stessa in qualcosa di effimero, di totalmente fisico.
Ma con Boris era diverso. Con lui, le cose si erano complicate, anche se non volevo ammetterlo a me stessa. Stavo bene con lui, un benessere che andava oltre il sesso, anche se ero attenta a non lasciare che il cuore prendesse il sopravvento sulla carne. C’era qualcosa che mi teneva legata a lui, qualcosa che mi faceva tornare, ancora e ancora. E poi, diciamolo chiaramente, aveva un cazzo magnifico, la lingua magica, e due mani che sembravano fatte apposta per farmi perdere il controllo. Ogni volta riusciva a farmi toccare il cielo con un dito, e questo rendeva tutto più difficile.
Non era facile lasciarlo andare, non era facile mettere un punto a quella storia. Aspettavo che a farlo fosse lui.

Ma ora qui, nella cucina della nostra casa, Massimo era rimasto in silenzio, il volto corrucciato, perso in pensieri che non riuscivo a decifrare. Il tempo sembrava sospeso, l'aria carica di tensione pronta a esplodere.
"Tesoro, cosa sta succedendo?" dissi.
Lui prese la tazzina del caffè, si alzò di scatto e la gettò con rabbia nel lavandino. Il rumore della ceramica che si frantumava riempì la stanza, in un'esplosione improvvisa che rifletteva la sua furia.
"Come diavolo pensi che sia per me, Chiara?" gridò, la sua voce un misto di rabbia e disperazione. "Uomini sconosciuti, persone di cui non so nulla, che pensano di avere diritto su di te. Perché li scopi! Sentono di avere diritto a te! Come pensi che ci si senta? Devo vivere con la paura che tu mi lasci?"
La sua presa sul tavolo era così forte che sembrava volesse distruggerlo. Mi girai verso di lui, afferrai il suo viso tra le mani e lo costrinsi a guardarmi negli occhi. Sentivo la sua frustrazione crescere, ma cercai di mantenere la calma.
"Massimo, ascoltami," sussurrai, premendo le mie labbra contro le sue. "Tu sei il mio Massimo. Ti amo. Sono tua moglie e nessun altro uomo ha diritti su di me!"
Cercò di distogliere lo sguardo, ma lo trattenni.
"Io ho qualche diritto su di te?" chiese, la sua voce fredda, tagliente.
"Sì, tu hai diritto su di me perché mi ami per ciò che sono, ho bisogno di essere scopata da altri uomini, ma soprattutto ho bisogno di essere scopata da te."
"Quindi hai bisogno essere scopata da me?" ripeté, la voce incrinata dalle lacrime che adesso gli riempivano gli occhi.
"Certo!" risposi, anche se dentro di me in quel momento non sentivo alcun desiderio. Era una bugia, una piccola bugia necessaria per sgonfiare quella tensione. Ma prima che potessi fare altro, mi afferrò forte per i fianchi e mi tirò indietro. Le mie mani adesso erano appoggiate sul tavolo dove un attimo prima c'erano le sue.
Spostò il filo del mio perizoma senza nemmeno abbassarlo, si sputò tra le mani e mi fece scorrere lo sputo nella figa. Sputò ancora una volta e si bagnò il cazzo che era evidentemente duro. Lo infilò dentro di me senza preamboli, senza dolcezza. Le sue spinte erano violente, rabbiose, la sua mano mi schiaffeggiava il sedere ancora e ancora, come se volesse punirmi per ogni cosa che avevo fatto. Non era il mio Massimo, quell’uomo. Era qualcuno rimasto sepolto nel suo profondo che stava uscendo con tutta la sua brutalità.
"Quindi hai bisogno di essere scopata?" mormorò con una voce che sembrava venire da un luogo oscuro e profondo, mentre continuava a spingersi dentro di me. Sentivo la mia figa rispondere, bagnarsi, adattarsi al suo ritmo furioso. Dondolai la schiena, iniziando a emettere piccoli gemiti che sembravano esaltare ancora di più la sua furia.
"Sei così troia da volere sempre più cazzi, vero?" La domanda era rivolta più a se stesso che a me, ma io piagnucolai un "Sì" soffocato.
Le sue spinte si fecero più rapide, più disperate, finché non si tirò fuori all’improvviso e mi spinse in ginocchio. Non c'era dolcezza, solo una necessità cruda. Spinse il suo cazzo nella mia bocca, mi bloccò la testa e non potei fare nulla finché non ebbe un enorme orgasmo. I suoi schizzi mi cadevano direttamente in gola, i suoi gemiti echeggiavano contro le pareti e non potevo fare altro che ingoiare quel sapore acre, il peso della sua rabbia e il vuoto che sentivo crescere dentro di me.

Mi ha lasciata inginocchiata lì. Senza una parola, ha tirato fuori il cazzo dalla mia bocca, l'ha sciacquato nel lavandino, e poi se n'è andato, senza neanche guardarmi. Non c'era più rabbia, solo un pesante silenzio. Mi sono ritrovata sola, inginocchiata sul pavimento della cucina, a fissare il punto in cui era stato, cercando di dare un senso a ciò che sentivo.
Non era solo stanchezza o frustrazione. Era qualcosa di più profondo, qualcosa che non avevo mai sentito prima.

Quando finalmente mi sono alzata e sono andata nella nostra camera da letto, l'ho trovato sdraiato sul letto, voltato di spalle. Non stava dormendo, lo sapevo, ma era chiaro che non voleva alcun contatto.
Mi sono spogliata in silenzio, ogni movimento misurato, ho indossato delle mutandine pulite e mi sono infilata sotto le coperte. Il letto era freddo, vuoto nonostante la sua presenza. Stavo per chiudere gli occhi, preparandomi a una lunga notte di insonnia e pensieri contorti, quando sentii il suo corpo muoversi. Si voltò e mi abbracciò, tirandomi a sé in un gesto che era tanto disperato quanto confortante. Sentii il calore del suo corpo contro il mio, il suo respiro pesante sulla mia pelle.
"È solo perché ti amo," sussurrò all'orecchio.
Annuii, senza dire nulla, lasciandomi avvolgere da quel momento, da quella confusione di sentimenti che ci teneva prigionieri.
"Sei mia, e non importa quanti uomini possono scoparti, voglio che tu sia mia."
Girai un po' la testa.
"Lo sono, amore. Io sono tua."
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